i non-luoghi
Un bellissimo film sui “non luoghi” retrodatato di una decina di anni. I veri protagonisti del film “Bai Ri Ya n Huo” sono i quartieri/città nati attorno alle miniere di carbone probabilmente a nord della China. Tali ambienti urbani comunicano squallore e depressione, e sono fissati in quadri come solo Edward Hopper sa fare. Di questo pittore è stato detto che sapeva "dipingere il silenzio". Spesso i soggetti dei suoi quadri sono proprio i luoghi urbani desolati o lo sfondo cittadino o gli interni con intonaci scrostati. Molti sono gli artisti che si sono ispirati a lui, anche il regista Wim Wenders nelle inquadrature del filmDon’t come knowking nel senso di sospensione e di perdita di punti di riferimento - come afferma lui stesso in alcune interviste - ha un esplicito nesso con i suoi quadri.
Il regista Yinan Diao pone le sue figure in spazi vuoti illuminati da una luce cruda per accrescere l'angoscioso senso di solitudine e d'isolamento che pervade alcuni locali anonimi. Talvolta sono i luoghi collettivi di svago come la pista del ballo, il luna park con la sua ruota o la pista di pattinaggio, tutti siti semideserti e spesso innevati.
La durezza della vita in questa periferia operaia si amplifica con la violenza delle storie di omicidi, di uomini fatti a brandelli e i cui pezzi vengono sparsi e ritrovati in varie parti del territorio e il protagonista detective ex poliziotto, che indaga con i colleghi poliziotti tra negozi di tintoria e locali equivoci come proprio “Fuochi di artificio in pieno giorno”. Un noir classico dove nasce una strana storia di amore e di violenza intrecciate, di sospetto e attrazione.
Ghisi Grütter




Ad annunciarlo Irene Ranaldi, sociologa urbana e presidente dell’associazione culturale «Ottavo colle» di Testaccio, che tempo fa aveva lanciato una petizione su «Change.org», che ha raggiunto circa 5.000 firme. In questa, come nella lettera inviata al sindaco di Roma Capitale, Ignazio Marino e all’assessore alla Cultura e turismo, Giovanna Marinelli, si chiedeva di mettere fine alla chiusura di questo sito archeologico di alto valore culturale che, come molti altri nella nostra città, vengono aperti solo su richiesta per mancanza di personale, ma che potrebbe essere gestito anche con la collaborazione delle realtà territoriali presenti.
Il 24 luglio scorso è stato approvato dal Consiglio del I Municipio di Roma, un atto in cui si chiede che Monte dei Cocci ritorni ai romani. Perché questa collinetta artificiale a 44 metri sul livello del mare, che da sempre è stata chiamata così dai romani, ha dato anche il nome al rione in cui si trova (cocci, in latino testae, da cui il nome di Testaccio).
Quella di Monte Testaccio è considerata dagli esperti la più antica discarica regolata al mondo. Vi sono accumulati, su strati disposti ordinatamente, come moderni “vuoti a perdere”, i cocci delle anfore olearie usate per trasportare il prezioso olio d’oliva necessario alla vita quotidiana della Roma antica (dalla cucina alla medicina, alle lucerne per l’illuminazione). Arrivavano per la maggior parte dalla provincia romana di Betica, l'attuale Andalusia, ma anche dall’Africa e, una volta usate s’irrancidivano e venivano rotte per essere messe in discarica a formare strati successivi. A vigilare si pensa ci fossero dei curatores, personale che regolava gli scarichi dei materiali e manteneva in ordine la discarica, anche cospargendo di calce quei cocci per “disinfettarli” durante la decomposizione dei resti oleosi contenuti in essi.
Come conferma Irene Ranaldi, «questo sito archeologico va aperto perché è un patrimonio del rione e dell'intera città».

