Riportiamo qui di seguito un' interessante testo presentato da Paolo Maddalena ,vicepresidente emerito della Corte Cotituzionale,
in occasione del Convegno su "Consumo di suolo e
riconversione ecologica della città" nel quale si è voluto calare in una
periferia urbana un messaggio di alto profilo culturale. Angela Barbanente,
presente in entrambi i convegni di Padova e Venezia, con la
presentazione del Piano Paesaggistico della Puglia (a confronto con
quello veneto) ha dimostrato che pianificare bene è possibile e che le
distanze della governance di Destra e di Sinistra possono essere, come
in questo caso, davvero abissali.
in occasione del Convegno su "Consumo di suolo e
riconversione ecologica della città" nel quale si è voluto calare in una
periferia urbana un messaggio di alto profilo culturale. Angela Barbanente,
presente in entrambi i convegni di Padova e Venezia, con la
presentazione del Piano Paesaggistico della Puglia (a confronto con
quello veneto) ha dimostrato che pianificare bene è possibile e che le
distanze della governance di Destra e di Sinistra possono essere, come
in questo caso, davvero abissali.
Il
territorio, il lavoro, la crisi finanziaria*
(Contributo alla teoria dei beni comuni)
1. – La
cosiddetta “crisi economico finanziaria”
Si parla impropriamente di “crisi economico
finanziaria”, come una delle crisi cicliche dell’economia, dopo le quali torna
il sereno. E’ questa la prima grande “falsità” che il “pensiero unico dominante
del neoliberismo economico” fa credere al popolo italiano come una “verità”
indiscutibile. Questa non è assolutamente una solita crisi economica
ricorrente, è una “crisi economica finanziaria di sistema”, nella quale sono
venuti a trovarsi in una situazione fortemente svantaggiata l’Italia, la
Grecia, la Spagna, il Portogallo e l’Irlanda, specialmente dopo l’attacco del novembre
2011, sferrato dalla speculazione finanziaria contro il loro debito pubblico.
I Paesi del sud Europa si trovano ora stretti da una
tenaglia, che vede da un lato la corrosione continua della propria economia da
parte della speculazione finanziaria e dall’altro la politica di austerity imposta dalla Germania. E’ una
tenaglia che toglie liquidità alle imprese e causa di chiusure e
delocalizzazioni, licenziamenti, disoccupazione, recessione, aumento del debito
pubblico, miseria.. Non è difficile prevedere che l’esito finale di questo
stato di cose sarà la svendita agli stranieri del territorio con tutte le
conseguenze che ciò comporta, anche in termini di indipendenza nazionale.
Il dato fondamentale[1]
consiste nel fatto che la “speculazione finanziaria”, la principale artefice di
questo immane disastro mondiale, ha cessato di finanziare opere di investimento
produttivo, che danno luogo a occupazione, ed ha preferito, per brama di
guadagno immediato, comprare debiti, giocando in borsa con questi, quasi fossero
valori economici positivi, ed investendo nei medesimi, dando così luogo, non a
produzione di beni reali, ma a “raschiamento” della ricchezza esistente,
ponendo in essere, per giunta, anche operazioni ad alto rischio, foriere di default,. E ben presto sono improvvisamente precipitate in una situazione
fallimentare numerose banche americane ed europee, con la conseguenza, davvero
insolita, che, essendo state giudicate “troppo grandi per fallire”[2]
sono state poi salvate con interventi statali, quasi fossero banche in
proprietà statale e non banche private, riversandosi così gli effetti del
fallimento su ignari cittadini. E’ il caso della Goldman Sachs e della Morghen
Stanley americane, dell’Ubi svizzera e del Monte dei paschi italiana.
Raramente, ed invero anche inspiegabilmente, qualche banca è stata lasciata
fallire, come nel caso della Lehman Brothers
americana[3].
Detto in una sola parola, la speculazione finanziaria
ha creato una enorme “ricchezza fittizia”, facendo valere come “diritti di
credito reali”, “debiti non garantiti” (si pensi ai “derivati” ed ai “derivati
dal credito”), con vari artifici giuridici e prevalentemente, “creando danaro
dal nulla”, il cosiddetto “danaro dall’aria fina”, e sostituendo così al
“mercato reale” dell’economia, il “mercato finanziario fittizio”. Un mercato
nel quale si parla di “crediti” ai quali non corrispondono “beni reali”. Il
dato di fatto è che, comunque, manovrando questa ricchezza fittizia, la
speculazione finanziaria introduce negli scambi uno stato di assoluta incertezza,
agendo a proprio esclusivo vantaggio indipendentemente dalla situazione
economica reale e, addirittura, “determinando” a proprio piacimento i tassi di
interesse che i vari Paesi devono pagare sul loro debito pubblico, il
cosiddetto “spread”.
Alla radice di tutto c’è un incredibile salto logico:
quello di far credere che il “debito” è un “diritto di credito” sicuro, mentre,
in realtà, il debito, per ragioni soggettive del debitore, ovvero per il dato
oggettivo di un mutamento dei prezzi dei beni dati in garanzia (come è avvenuto
per subprime americani, parametrati
sul valore delle costruzioni per civili abitazioni, i cui prezzi sono crollati
precipitosamente per l’eccesso di offerta), non è affatto “un bene sicuro”, ma
un bene, se così lo si vuole chiamare, fortemente “aleatorio”.
E vediamo come le banche “creano danaro dal nulla”.
Sin dal medio evo[4], come è noto, le banche
prestavano danaro senza intaccare i depositi di beni reali, quali gioielli,
monete d’oro, arredi preziosi, e per un valore nettamente superiore all’insieme
di questi beni avuti in custodia, nella certezza che i creditori non
accorressero tutti nello stesso momento per ritirare i loro depositi. Questo
antico principio è stato sempre seguito fino a non molto tempo fa dalle nostre
“banche commerciali”, la cui funzione era quella di raccogliere i risparmi e
concedere prestiti per produrre beni reali. Un sistema, come si nota, positivo,
poiché permette a chi intende intraprendere un’attività produttiva di creare
beni e servizi, e quindi maggiore ricchezza, e di restituire regolarmente la
somma avuta in prestito.
Sennonché, a cominciare dagli anni ottanta del
novecento gli speculatori finanziari hanno avuto un colpo di genio: quello di
trasformare i “crediti”, che poi vuol dire i “debiti”, in “titoli
commerciabili”, soggetti a valutazione di borsa, e quindi a “creare danaro dal
nulla”, come si diceva “danaro dall’aria fina”.
Ben presto questa prassi ha invaso l’intero occidente.
Ma, in Italia, essa è venuta a trovarsi in contrasto con la disciplina
codicistica dei titoli di credito (di cui agli artt. 2008, 2011 e 2021 del
codice civile), la quale, come si legge nella Relazione al Re del Ministro
guardasigilli per l’approvazione del testo del codice civile del 1942[5],
evitò con cura che i “titoli al portatore” potessero “usurpare la funzione
della carta moneta, la cui emissione non può essere lasciata all’arbitrio dei
singoli”.
Sta di fatto, comunque, che questo fondamentale potere
dello Stato di coniare moneta è presto finito nelle mani di banche private.
“Per l’Unione Europea si stima oggi che oltre il 90 per cento della massa
monetaria presente nell’economia sia stato creato dalle banche. Meno del 10 per
cento è creato dalla BCE, di cui una frazione non superiore al 2-3 per cento
sotto forma di monete e banconote. Il resto viene largamente impiegato al fine
di sostenere con il danaro legale da essa emesso la creazione di danaro
bancario o danaro-credito da parte di enti privati, cioè da banche commerciali”[6].
L’Italia, allora non ha saputo far di meglio che
adeguarsi a questa prassi, propria degli ordinamenti di common law, legittimando la violazione palese di un principio
fondamentale del nostro codice civile, con le disposizioni della legge 30
aprile 1999, n. 130, sulle “cartolarizzazioni”. Questa legge legittima “le
operazioni di cartolarizzazione realizzate mediante cessione a titolo oneroso
di crediti pecuniari, sia esistenti, sia futuri, individuabili in blocco se si
tratta di una pluralità di crediti”.
Dunque, derivati, derivati dal credito ed altri simili
“prodotti finanziari”, hanno avuto diritto di cittadinanza nel nostro
ordinamento positivo. Il fatto poi che l’art. 3 di detta legge n. 130 del 1999,
confermato dalle disposizioni della legge n. 410 del 2001 sulle privatizzazioni
degli immobili dello Stato, sancisca che
“i crediti relativi a ciascuna operazione costituiscono patrimonio separato a
tutti gli effetti da quello della società (cioè della banca) e da quello
relativo ad altre operazioni”, costituisce un “limite” di pura facciata, poiché
quello che conta, ai fini del mantenimento di un sano sistema economico, non è
certo la costituzione di patrimoni separati, ma il divieto assoluto (come
fecero i redattori del codice civile del 1942) che le banche private “creino
danaro dal nulla”, senza alcuna corrispondenza con la creazione di beni reali..
Oggi nessuno sa quanto danaro creato dal nulla sia in
circolazione[7]. Una stima relativa al
periodo 2000-2008 calcola che le banche europee soltanto in quel periodo
avevano immesso sul mercato un volume di cartolarizzazioni pari a 3,7 trilioni
di euro[8].
Occorre poi tener presente, si ripete, che gli
speculatori finanziari manipolano spregiudicatamente questo “danaro fittizio”,
facendo investimenti per acquisire nuovi titoli di questo genere e aumentando
con la loro azione “l’instabilità della moneta” ed i “rischi” di default.
Ma non è tutto. Oltre al danaro creato dal nulla, c’è
il “sistema bancario ombra”[9] degli enti finanziari
diversi dalle banche, i quali, essendo privi di “regolazione” e di
“sorveglianza”, possono agevolmente, con la libera creazione di “società di
scopo”, evadere gli obblighi imposti dagli Accordi di Basilea, e cioè l’obbligo
di avere una “riserva”, oggi del 2 per cento del prestito concesso, e, a
partire dal 2019, dell’8 per cento del prestito stesso[10].
Questa complessa articolazione del sistema bancario
mondiale, come agevolmente si nota, ha aumentato oltre il “sostenibile” il
“rischio” di insolvenza, scaricando, però i relativi danni, non sulle banche,
ma sulla collettività. Occorrerebbe, dunque, una riforma a livello
internazionale, globale, o almeno europeo, ma vi si oppone un nemico pressoché
invincibile, e cioè l’imperversare delle citate teorie “neoliberiste”, che, non
ostante gli evidentissimi danni prodotti, oscura tuttora le menti di molti
economisti (per l’ovvio motivo che questi si pongono come fine “il massimo
profitto” e non il “benessere” materiale e spirituale della società) ed è
fortemente radicata nell’immaginario collettivo. Il postulato, mai pienamente dimostrato
in sede teorica (posto per la prima volta negli anni 40 del secolo scorso da
due docenti dell’Università di Chicago, Milton Friedman e Greorge Stigler),
consiste nell’affermazione, clamorosamente smentita dai fatti, conseguiti alle
politiche reganiane e tacheriane, secondo la quale il “mercato” è il “grande
ordinatore” della vita civile e prevale su tutti i campi: da quello del
diritto, a quello della filosofia, fino a quello della morale[11].
Ciò che conta è ottenere il “massimo profitto”.
E’ da questo che scaturirebbe il benessere di tutti. Sennonché si tratta
di un drammatico errore, poiché, come afferma il Bauman[12],
“tutto questo è falso”.
Il disastro, come si vede, è immane e richiede un
nuovo “sistema economico mondiale, o almeno europeo” da costruire a livello
internazionale, ma, limitando l’esame a livello italiano, è ben possibile
correre ad alcuni ripari, che, a tacer d’altro, sono già previsti dalla nostra
Costituzione.
Prima di passare all’analisi giuridica del problema,
tuttavia, non si possono non citare le seguenti illuminanti parole di Papa
Francesco, pronunciate il 16 maggio 2013 in occasione della presentazione delle
lettere credenziali di alcuni ambasciatori[13].
“La crisi finanziaria che stiamo attraversando”, dice il Papa, “ci fa dimenticare
la sua prima origine, situata in una profonda crisi antropologica. Nella
negazione del primato dell’uomo! Abbiamo creato nuovi idoli. L’adorazione
dell’antico vitello d’oro (cfr. Es. 32, 15-34) ha trovato una nuova e spietata
immagine nel feticismo del danaro e nella dittatura dell’economia senza volto
né scopo realmente umano…..Mentre il reddito di una minoranza cresce in maniera
esponenziale, quello della maggioranza si indebolisce. Questo squilibrio deriva
da ideologie che promuovono l’autonomia assoluta dei mercati e la speculazione
finanziaria, negando così il diritto di controllo agli Stati pur incaricati di
provvedere al bene comune. Si instaura una nuova tirannia invisibile, a volte
virtuale, che impone unilateralmente e senza rimedio possibile le sue leggi e
le sue regole. Inoltre, l’indebitamento ed il credito allontanano i Paesi dalla
loro economia reale ed i cittadini dal loro potere d’acquisto reale. A ciò si
aggiungono, oltretutto, una corruzione tentacolare e un’evasione fiscale egoista
che hanno assunto dimensioni mondiali. La volontà di potenza e di possesso è
diventata senza limiti”.
Mai analisi fu più acuta e più scientificamente
fondata di questa. C’è la condanna espressa della ideologia neoliberista che
vede nel mercato la soluzione di tutti i problemi. E’ posto in evidenza come il
mercato arricchisce i ricchi ed impoverisce i poveri, e come da “mercato reale”
sia diventato un mercato essenzialmente finanziario. Non si ha timore di porre
chiaramente in evidenza che causa prima ed efficiente di questa tragica
situazione è “la assoluta autonomia dei mercati e speculazione finanziaria”,
definite “una nuova tirannia invisibile”. Si sottolinea come nel sottofondo di
tutto questo ci sia una gravissima malattia di carattere morale, individuale e
sociale, la “corruzione”, “la volontà di potenza e di possesso”.
2. – “L’antisovrano”.
Ed è proprio in questo preciso ordine di idee che si
inserisce, sul piano del diritto, il fondamentale contributo scientifico di un
laico, Massimo Luciani, il quale, per sussumere in un solo concetto i fenomeni
di cui parliamo, si è riferito alla figura “dell’antisovrano”, e cioè di “un quid che in tutto e per tutto si
contrappone al sovrano da noi tradizionalmente conosciuto. “Non è un soggetto
(ma semmai una pluralità di soggetti); non dichiara la propria aspirazione
all’assoluta discrezionalità nell’esercizio del proprio potere (cerca anzi di
presentare le proprie decisioni come logiche deduzioni da leggi generali
oggettive, quali pretendono di essere quelle dell’economia e dello sviluppo);
non reclama una legittimazione trascendente (che sia la volontà di Dio oppure
l’idea dell’eguaglianza degli uomini), ma immanente (gli interessi
dell’economia e dello sviluppo, appunto); non pretende di ordinare un gruppo
sociale dotato almeno di un minimum di omogeneità (il popolo di una nazione), ma una pluralità
indistinta, anzi la totalità dei gruppi sociali (tutti i popoli di tutto il
mondo che ritiene meritevole di interesse); non vuole essere l’espressione di
una volontà di eguali formata dal basso (si tratta infatti di un insieme di
strutture sostanzialmente e talora formalmente organizzata su base
timocratica)…. L’antisovrano si arroga un potere senza averne il legittimo
titolo…. è detentore di un potere che aspira ad essere universale, ed è
l’agente che determina la crisi del mondo come l’abbiamo fino ad oggi
conosciuto. Un antisovrano, dunque, dal punto di vista concettuale, ma
inevitabilmente anche dal punto di vista pratico, perché l’affermazione del suo
potere presuppone proprio che l’antico sovrano nazionale sia annichilito”[14].
Essenziale è l’affermazione secondo la quale
l’antisovrano “si arroga un potere senza avere un legittimo titolo….e che
aspira ad essere universale”.
Dunque, il problema che ci si pone è se si vuole
restare soggetti ad un potere che non ha titolo giuridico per esistere, ovvero
si vuol fare valere la forza del diritto contro la sopraffazione bruta del
danaro. E la nostra Costituzione, come si diceva, offre dei capisaldi
importantissimi per far valere il diritto e l’equità.
Limitandoci a ciò che può fare l’Italia, appare
evidente che è da eliminare innanzitutto l’estrema anomalia di sistema prodotta
dalla citata legge n. 130 del 1999.
Si tratta di una legge palesemente incostituzionale
sotto vari profili. Innanzitutto essa contrasta con il principio della
“stabilità dell’economia”, di cui è espressione il riferimento “all’unità ed
alla indivisibilità della Repubblica” (art. 5 Cost.), nonché il riferimento
“all’unità giuridica ed economica” della Nazione, di cui all’art. 120 Cost.
Ma soprattutto si tratta di una legge che
incredibilmente tende a “deprimere” la salvaguardia del “valore costituzionale
del lavoro”, considerato che, come si è visto, l’instabilità economica si
riflette ineluttabilmente sul lavoro delle imprese e, quindi,
“sull’occupazione”. In questa prospettiva, le violazioni costituzionali sono
davvero enormi. Lo stesso art. 1 della Costituzione, secondo il quale l’Italia
è “una Repubblica democratica fondata sul lavoro” ne viene fortemente colpito.
Di pari violazione è inoltre vittima l’art. 4 comma 1, Cost., secondo il quale
“la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le
condizioni che rendono effettivo questo diritto”. Altrettanto plateale è la
violazione dell’art. 35 Cost., secondo il quale “la Repubblica tutela il lavoro
in tutte le sue forme ed applicazioni”. E, lo si creda, l’elenco potrebbe
continuare, citando, ad esempio, l’effetto negativo che le cartolarizzazioni
producono sulla “proprietà pubblica e privata”, di cui all’art. 42 Cost. Detto
in una parola, si tratta di una legge in pieno contrasto con i principi
fondanti della nostra Costituzione, poiché essa pone come “valore”, non lo
sviluppo della “persona umana” e quindi “il lavoro dell’uomo”, ma il concetto
capitalistico del “massimo profitto” individuale.
3. – Illegittimità
della speculazione finanziaria.
Superata questa prima difficoltà, resta da dimostrare
quanto l’azione dell’antisovrano contrasti con la nostra Costituzione
repubblicana e con i Trattati europei.
A ben vedere, in contrasto con la Costituzione sono,
non solo il regime delle “cartolarizzazioni”, ma l’insieme delle
“transazioni finanziarie speculative”, che, mirando, non a produrre, ma a
raschiare la ricchezza esistente in proprietà collettiva della Comunità
nazionale, hanno certamente una finalità illecita e sono dunque “nulle per
illiceità della causa”. E tutto questo a prescindere dalle eventuali illiceità
penali scaturenti dagli accordi tra più speculatori finanziari, come prevede
l’art. 501 del vigente codice penale.
Ne consegue che da negoziazioni prive di valore
giuridico non possono scaturire validi “giudizi di mercato”, in base ai quali
si stabiliscono i “prezzi di mercato”.
E, date queste premesse, appare del tutto evidente che
anche i cosiddetti “spread” non sono
affatto attendibili. Come poco sopra si accennava, gli speculatori finanziari
agiscono nel loro personale interesse, indipendentemente da qualsiasi
riferimento all’economia reale di un Paese, e la loro “determinazione” dei
tassi di interesse che ciascun Paese deve pagare sul proprio debito pubblico,
non deriva da valutazioni puramente economiche, cioè dall’applicazione della
legge naturale della domanda e dell’offerta, ma da una arbitraria, e spesso
concordata, scelta degli stessi speculatori finanziari. D’altro canto, in un
mercato finanziario, che ha definitivamente perduto la finalità di investire in
attività produttive di beni reali, ed investe invece in operazioni finanziarie
per scopi soltanto speculativi, che hanno come risultato l’instabilità dei
prezzi e l’aumento della disoccupazione, quale valore di misurazione
dell’economia reale possono avere gli “spread”?
E si deve ricordare in proposito che la speculazione
finanziaria, agisce sì sulle quotazioni del mercato secondario, ma finisce per
influenzare anche il mercato primario, essendo stato dimostrato che le
quotazioni del primo si trasferiscono, nello spazio di tre o sei mesi, anche
sul secondo.
Allo stato attuale, non dovrebbero esserci dubbi sulla
necessità di “disconoscere” la validità giuridica delle transazioni
speculative, dei cosiddetti giudizi di mercato e, in particolare, degli spread.
Riguardo a quest’ultimo sarebbe forse opportuno
prevedere una “determinazione” da parte di una Autorità indipendente, che offra
la visione di un “differenziale” tra i tassi di interesse sul nostro debito
pubblico e quelli della Germania, depurata dal “carico” della speculazione e
sia dunque più vicina alla realtà dei fatti. Un documento del genere,
periodicamente aggiornato, potrebbe servire a sminuire l’attendibilità degli spread finanziari..
4. - I rapporti con l’Europa.
Come si è accennato, problema gravissimo è quello
relativo alla “posizione dominante” nella quale, ad opera degli speculatori
finanziari (la cui azione, come si è visto, è del tutto inattendibile) è venuta
a trovarsi la Germania, la quale insiste nella sua politica di austerity.
Anche qui la situazione che si è creata è del tutto in
contrasto con quanto dispongono i Trattati, la nostra Costituzione, le
Costituzioni degli Stati europei ed il diritto internazionale consuetudinario e
pattizio (Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali,
divenuto esecutivo nel 1976)[15].
A ben vedere l’insistenza della Germania nella
politica di austerity configura una
palese violazione dell’art. 82 del Trattato, il quale sancisce
l’incompatibilità con il mercato comune dello “sfruttamento abusivo della
posizione dominante”. Si tratta di una “incompatibilità” che persegue
l’obiettivo enunciato dall’art. 3 del Trattato di garantire che la
“concorrenza” non venga falsata. Ed è proprio quello che sta facendo la
Germania. Se ciò è vietato per le singole imprese, a maggior ragione deve
essere vietato per il comportamento dello Stato tedesco, il quale, così
facendo, finisce con il “legittimare” la violazione dei Trattati da parte di
tutte le imprese.
A ciò si deve aggiungere che i mercati finanziari,
nella loro avidità di guadagno, sono pronti ad aggredire una impresa (agendo
sui titoli azionari o obbligazionari) o un intero Paese (agendo sui tassi di
interesse sul debito pubblico) al primo sintomo di debolezza imponendo loro
maggiori tassi di interesse e rendendo così impossibile qualsiasi possibilità
di ripresa.
La politica dell’austerity
va proprio in questa direzione. L’Europa, imponendo ai Paesi fortemente
indebitati una diminuzione del debito con operazioni puramente contabili, senza
tener conto degli effetti recessivi, persegue un fine opposto a quello che
proclama: fa aumentare le tassazioni, fa diminuire la liquidità, provoca
chiusura di imprese, licenziamenti, disoccupazione, recessione, conseguendo
come ultimo risultato l’impossibilità assoluta di diminuire il debito. Insomma,
il Paese sotto attacco è senza scampo, è costretto a non investire e ad
aumentare la disoccupazione, e, infine, a svendere il proprio territorio.
Ed è da sottolineare che tutto questo, non solo lede
quanto prescrive il citato art. 82 del Trattato in ordine “all’abuso della
posizione dominante”, ma è altresì in contrasto con il principio fondamentale
europeo, ribadito dalla carta di Nizza, della “coesione economica e sociale”[16].
E, a questo punto, il dilemma è insuperabile: o l’Europa recede da questo
atteggiamento, oppure saremo costretti ad uscire dall’euro. Come ricorda Vladimiro
Giacché[17],
“l’uscita dall’euro potrebbe presto essere considerata come la vecchiaia per
Maurice Chevalier: una gran brutta cosa, ma sempre migliore dalle alternative”.
Soffriremmo del protezionismo da parte degli altri Paesi e dell’inflazione, ma
potremmo esercitare la nostra “sovranità monetaria”, agendo su un piano di
parità con tutti gli altri Stati del mondo, ed in particolare con gli Stati
Uniti, la Gran Bretagna e il Giappone, i quali, come è noto, hanno risolto i
loro problemi stampando moneta.
5. – Gli errori
della cultura borghese e della teoria neoliberista.
A questo punto, restringendo l’analisi all’aspetto
puramente giuridico riguardante il nostro Paese, balzano in primo piano due
fondamentali “errori”, diffusi tra gli studiosi, ma anche nell’immaginario
collettivo, dalla cultura borghese e dall’imperante teoria neoliberista. Si
tratta, da un lato della nozione dello Stato, come “Persona giuridica” e
dall’altro della proclamata esistenza di un solo tipo di “proprietà”, là dove
esistono due tipi di proprietà: quella “collettiva”, fondata sulla “sovranità
popolare”, e quella “privata”, la quale ha per fondamento la “legge”, cioè una
manifestazione di volontà del popolo. E la proprietà collettiva, sia ben
chiaro, ha una “precedenza storica”, come dimostra la storia del diritto, ed
una “prevalenza giuridica”, come dimostra la nostra Costituzione, specialmente
a proposito della disciplina della proprietà privata. Infatti, talune
disposizioni costituzionali, come meglio vedremo in seguito, “subordinano” la
tutela giuridica della proprietà privata all’interesse pubblico e allo “scopo
della funzione sociale”.
6. – Il concetto
di “Stato persona” e di “Stato comunità”
E veniamo innanzitutto al concetto di “Stato”, che da
più parti si ritiene superato ed in via di estinzione, là dove una indagine
sulle fonti del diritto dimostra invece che la fonte principale di questo
risiede sempre nella “sovranità” degli Stati, come dimostra a tacer d’altro,
proprio l’organizzazione dell‘Unione Europea, che nasce dai “trattati”
stipulati dagli Stati membri e vede la sua più alta Istituzione nel
“Consiglio”, che ha il più ampio potere normativo, e che ha la natura di un
“Organo di Stati”. I quali, fondando tutto sulla propria “sovranità”,
stabiliscono quale sia la decisione da prendere nell’interesse della Comunità
stessa.
D’altro canto, se si guarda alla nostra Costituzione,
si scopre agevolmente che il nostro non è affatto uno “Stato persona
giuridica”, come affermava lo Statuto albertino, ma uno “Stato comunità”, che è
costituito dai “cittadini sovrani”. In questa visuale, che tarda ad affermarsi
persino tra gli studiosi di diritto, lo “Stato persona” è solo la “Pubblica
Amministrazione”, la quale, come da tempo ha dimostrato il Sandulli[18],
è semplicemente un “organo” dello Stato comunità.
E, per capire l’essenza dello “Stato comunità”, ed in
genere della “Comunità politica”, è indispensabile rivolgersi alla storia. Ed,
in particolare, alla storia della Costituzione romana[19].
Infatti, fu la Respublica
romana, che era costituita dal “Senatus
Populusque Romanus”, il primo chiaro esempio di “Stato comunità”, o, se si
preferisce, di “Comunità politica”. Ed il dato più importante che emerge
dall’analisi storica è che la nascita di questo tipo di Stato si fonda su due
concetti chiave (dei quali forse si è persa memoria): quello di “confine” e
quello del “rapporto tutto parte”.
E’ innegabile, infatti, che la nascita della “Civitas
romana”, e cioè della “Comunità politica di Roma” coincise con la
“confinazione”, il fines regere della
tradizione[20], con la quale Romolo, o
chi per lui, distinse il terreno sul quale doveva sorgere l’urbs dai terreni circostanti,
trasformando il terreno confinato in un “territorio”, dal latino “terrae torus”, “letto di terra”, il cui
fine fu quello di ospitare l’aggregato umano che su di esso si insediava,
prendendo il nome di “populus” (che
significa “cittadini in armi”). Nello stesso momento, sorse anche la necessità
di “confinare”, e cioè limitare la libertà dei singoli per rendere possibile la
convivenza civile, attribuendo al popolo la “sovranità”, cioè la somma dei
poteri necessari a perseguire questo fine. Insomma, tracciando il solco di
Roma, Romolo dette luogo al nascere di tre elementi: il “territorio”, il
“popolo” e la “sovranità”, dalla quale scaturì l’ordinamento giuridico. Ed è da
sottolineare che, attraverso la “confinazione”, si dette luogo anche alla
nascita del “primordiale rapporto giuridico di appartenenza”, quello della
“proprietà collettiva del territorio”. Un rapporto che, come dimostra la stessa
indagine filologica del termine (terrae
torus), non fu affatto un rapporto di “dominio pieno ed esclusivo”, ma un
rapporto quasi personale di appartenenza, come quello che normalmente si
instaura tra un individuo ed il proprio letto
Ma non basta. Occorre porre in evidenza, come si
accennava, che caratteristica fondamentale di quell’aggregato umano (detto in
un primo momento “Civitas Quiritium”,
ed in un secondo momento, e cioè dopo l’avvento dei re etruschi, “Urbs Roma”, dall’etrusco “rumen”, che vuol dire “fiume”), fu il
forte senso di “solidarietà”[21]
che legava gli uni agli altri, per cui, mutuando un concetto derivato dalla
filosofia ellenistica di Empedocle di Agrigento e di Pitagora di Siracusa[22], secondo il quale “l’uomo è parte del Cosmo”,
ogni cittadino fu considerato “parte strutturale” della Comunità politica[23],
al punto di poter agire in giudizio per tutelare non solo gli intessi propri,
ma anche, e nello stesso momento, gli interessi di tutti gli altri cittadini,
senza ricorrere al concetto di “rappresentanza”. E fu proprio questa idea,
questo profondo senso di solidarietà, che, come pose in evidenza Cicerone, fece
grande Roma.
7. – La
“precedenza storica” della proprietà collettiva sulla proprietà privata.
Venendo al tema della “proprietà”, il dato più
importante è costituito dal fatto che a Roma la “proprietà collettiva”, che
spettava al popolo a titolo di “sovranità”, “precedette” di ben sette secoli la
proprietà privata, individuabile nel concetto di “dominium ex iure Quiritium”, nato, dopo una tormentata elaborazione
della giurisprudenza, alla fine del II secolo a. C.[24],
o addirittura agli albori del primo secolo a.C.
E’ da tener presente, comunque, che,
per il trasferimento a singoli privati di “parti” del territorio comune, fu sempre
necessario un “atto sovrano” di disposizione, che, in un primo momento si
concreò nella “divisio” dell’ “ager publicus”, operata da Numa Pompilio
tra i patres familiarum, a titolo di
“mancipium” (che fu cosa ben diversa
dall’attuale proprietà privata), lasciando peraltro buona parte del territorio
in uso comune di tutti, l’ager compascuus,
ed in un secondo momento nella lex
centuriata o nel plebiscitum, che
sempre precedettero il noto cerimoniale di origine etrusca della “divisio et adsignatio agrorum” ai
veterani dell’esercito, a titolo di “possessio”.
Dunque, come si diceva, la proprietà
privata derivò dalla proprietà comune e collettiva del popolo, fu una
“cessione” a privati di parti del territorio in proprietà al popolo, mentre
taluni beni, come l’ager compascuus,
venivano “riservati” all’uso comune di tutti, mantenendo il carattere di
“appartenenza sovrana al popolo”. Ed è da sottolineare in proposito che la
giurisprudenza classica trovò un sistema ineguagliabile per tutelare l’uso
comune dei beni riservati al popolo: li definì “res extra commercium” (ciò che è di tutti non può essere dato ad
alcuno), a differenza dei beni privati, definiti “in commercio”[25].
8. – La “prevalenza giuridico costituzionale” della proprietà collettiva
sulla proprietà privata.
Alla “precedenza storica” della
proprietà collettiva sulla proprietà privata, si accompagna, sul piano della
vigente Costituzione repubblicana” la “prevalenza costituzionale e giuridica”
della prima sulla seconda.
Lo chiarisce l’art. 42 della Costituzione,
secondo il quale “la proprietà privata è riconosciuta dalla legge….allo scopo
di assicurarne la funzione sociale”, sancendo la “prevalenza” dell’interesse
pubblico sull’interesse privato, e prevedendo che quest’ultimo è giuridicamente
tutelato soltanto se ed in quanto “assicura” “lo scopo” della “funzione
sociale”, rende cioè tutti partecipi dei benefici che provengono dalle attività
produttive.
Il principio della prevalenza
dell’interesse pubblico sull’interesse privato è ribadito, inoltre, dall’art.
41 della Costituzione, riguardante “l’iniziativa economica privata” e cioè
l’attività negoziale che il proprietario pone in essere per disporre della
proprietà privata, e cioè per acquisire o vendere la proprietà dei beni
economici.
Si legge in detto articolo che
“L’iniziativa economica privata è libera”. “Non può svolgersi in contrasto con
l’utilità sociale o in modo di recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla
dignità umana”. Come si nota, alla “funzione sociale” dell’art. 42 Cost., fa
riscontro “l’utilità sociale”, di cui al precedente art. 41 Cost.
Ma non è tutto. Questa “prevalenza”
dell’interesse pubblico sull’interesse privato, va coniugata con la
“distinzione” tra “proprietà pubblica” e “proprietà privata”, di cui al primo
alinea del citato art. 42 Cost., secondo il quale “la proprietà è pubblica e
privata”.
In sostanza, dal combinato disposto
delle citate disposizioni emerge con estrema chiarezza che la nostra
Costituzione, non prevede affatto un solo tipo di proprietà, ma due tipi:
quella pubblica e quella privata, sancendo, nello stesso tempo, la “prevalenza
della prima sulla seconda”. Insomma, i “limiti” alla proprietà di cui pure
parla l’art. 42 della Costituzione, affermando che “la proprietà privata è
riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di
godimento ed i limiti”, riguardano soltanto la proprietà privata, come è
espressamente detto, e non la proprietà pubblica, la quale, in questo contesto,
si identifica con la “proprietà collettiva demaniale”, che spetta al popolo a
titolo di sovranità, come da tempo affermato da Massimo Severo Giannini[26].
Questa distinzione, inoltre, è stata
chiarita da tempo dal Regolamento di contabilità generale dello Stato,
approvato con R.D. 4 maggio 1885, n. 3074, il quale affermava testualmente: “I
beni dello Stato si distinguono in demanio pubblico e beni patrimoniali.
Costituiscono il demanio pubblico i beni che sono in potere dello Stato a
titolo di sovranità, e formano il patrimonio quelli che allo Stato appartengono
a titolo di proprietà privata” [27].
Insomma, la “dinamica giuridica” che
segue la Costituzione ripete puntualmente la stessa dinamica che si è svolta
storicamente. All’inizio, l’intero territorio appartiene al popolo a titolo di
“sovranità”. In seguito, parte del territorio viene, con “legge”, “riservato”
all’uso diretto della popolazione, restando “proprietà collettiva demaniale”
come res extra commercium, e cioè
come beni “inalienabili, inusucapibili ed in espropriabili” e parte viene
“ceduta” a privati, diventando oggetto di “proprietà privata”.
Alla fine di questo discorso emerge
un’indiscutibile verità. Se è vero, come è vero, che la “proprietà collettiva”
“prevale” su quella privata e quest’ultima è storicamente “derivata” dalla
prima, si deve necessariamente ammettere che la Costituzione ha operato un
“capovolgimento” delle tradizionali concezioni borghesi e neocapitalistiche
sulla proprietà. E’ questa che costituisce un “limite alla proprietà
collettiva” ed all’interesse pubblico e non viceversa. Continuare a parlare di
“limiti alla proprietà privata” è, dunque, un anacronismo: occorrerebbe parlare
soltanto di “disciplina giuridica” della proprietà privata, avendo questa
perso, nella visuale costituzionale, quel carattere di “inviolabilità”, e
quindi di “preesistenza” rispetto all’ordinamento giuridico, che le assicurava
lo Statuto albertino. Inviolabile è la “proprietà collettiva demaniale”, in
quanto fondata sulla “sovranità”, non la “proprietà privata”, che in tanto
esiste, in quanto è garantita e disciplinata dalla “legge”.
9. – Il cosiddetto “ius aedificandi”.
Sul piano pratico, c’è una
importantisima conseguenza da sottolineare. Se la “proprietà collettiva”
“prevale” su quella privata, ed il contenuto della proprietà privata è soltanto
quello previsto dalla “legge”, davvero non c’è più alcuna possibilità di
riconoscere il “ius aedificandi”, come insito nel diritto di
proprietà privata. Il diritto di edificare è rimasto nei “poteri sovrani del
popolo”, rientra cioè nei contenuti della proprietà collettiva del territorio e
non risulta affatto “ceduto” a privati con la “cessione” di parti del
territorio a singoli cittadini.
Quando ci lamentiamo degli scempi
paesaggistici, della cementificazione, delle distruzioni della natura non
possiamo limitarci alla “denuncia”: è un nostro “diritto di proprietà
collettiva” che è stato leso, e questo diritto è ben più grande e più tutelato
del diritto di proprietà privata. E, comunque, come si è detto, il ius aedificandi non ha nulla a che
vedere con il diritto di proprietà privata. Non c’è nessuna disposizione del
codice civile che lo preveda e lo si è fatto discendere dal semplice
convincimento che la proprietà si estenda “usque
ad coelum et usque ad inferos”. Questo poteva valere per il “dominium ex iure Quiritium”, non certo
per il moderno concetto di “proprietà privata”, che, da sempre ha dovuto fare i
conti con i “limiti posti dall’ordinamento giuridico”. Il diritto di superficie
è distinto dal diritto di proprietà e, d’altronde, le leggi urbanistiche
consentono l’edificazione solo a seguito di una “concessione”, malamente
ridenominata, anche a seguito di una discutibile sentenza della Corte
costituzionale sulla cosiddetta legge Bucalossi, “permesso di costruire”. Tutto questo perché
la cultura borghese e neoliberista si è tenacemente opposta all’idea stessa
della “proprietà collettiva del territorio”, che è invece viva e presente nel
nostro ordinamento costituzionale e costituisce la sede propria di questo
supposto “diritto di costruire”, che, per sua natura non può appartenere a
singoli soggetti, ma a tutta la società.
10. - Il concetto di “territorio”.
Abbiamo sinora parlato più volte di
“territorio” ed è evidente che, a questo punto si rende necessaria, prima di
procedere oltre, ad una sua definizione.
Come si è visto, per i Romani, e da un punto di vista
puramente materiale, il territorio è una “porzione di terra”, confinata dai
terreni circostanti. L’idea si è puntualmente trasferita in epoca moderna,
sennonché i diffusi inquinamenti dell’aria, delle acque e del suolo consigliano
di considerare la terra in una visuale più completa e cioè come “ambiente”,
meglio si direbbe, come ha affermato la Corte costituzionale, come “biosfera”[28],
in modo da far rientrare in questo concetto, oltre il suolo ed il sottosuolo,
tutto ciò che esiste sul soprassuolo, e cioè l’atmosfera, le acque, la
vegetazione e le stesse opere ed attività dell’uomo.
Ciò che deve essere innanzitutto sottolineato è che il
territorio è un “bene comune unitario”, formato da “più beni comuni”, in “appartenenza”
comune e collettiva. Ed è da precisare, inoltre, che, appartenendo al popolo,
ed essendo il popolo una entità in continuo mutamento per l’alternarsi della
vita e della morte dei singoli individui, anche il “territorio”, come il
popolo, deve essere considerato nel suo aspetto dinamico, e cioè tenendo conto
dei mutamenti che si realizzano nel tempo, e soprattutto del fatto che esso
deve necessariamente appartenere, non solo alla presente, ma anche alle future
generazioni. Del resto, come è noto, popolo e territorio, insieme con la
sovranità, sono “parti costitutive” della medesima “Comunità politica”.
D’altro canto, occorre tener presente che oggi
esistono tutte le premesse per considerare il
territorio, non solo come una entità materiale comprendente il suolo, il
sottosuolo e tutto ciò che è sul soprassuolo, compreso i beni artistici e
storici creati dall’uomo, come diffusamente, e giustamente, si ritiene, ma ci
si può spingere più avanti facendo rientrare nel concetto di territorio anche
entità immateriali e le stesse attività umane che sul territorio si svolgono.
In ultima analisi, tutti quegli elementi che determinano il modo di vivere, ed
in ultima analisi il tenore di vita, del popolo che quel territorio abita.
Si pensi alle opere dell’ingegno: alle invenzioni,
tutelate con i brevetti, o alle opere letterarie, tutelate dal diritto di
autore; o alle conoscenze ed ai saperi rinvenibili sul web. E si pensi, in
estrema sintesi, alla “cultura”[29],
non solo quella degli intellettuali, ma anche quella popolare[30],
e, quindi, al complesso di idee che guidano le azioni degli individui e delle
Nazioni nella vita di tutti i giorni.
E si pensi soprattutto all’influenza che hanno sul
territorio le istituzioni della comunità politica, e cioè alla forma di Stato
ed al relativo “ordinamento giuridico”, nonché alla forza spesso sconvolgente
che esercitano sul territorio l’economia, la finanza, i mercati.
Il “territorio”, in altri termini, appare come uno
“spazio di libertà” entro il quale trovano possibilità di svolgimento le
capacità ed i caratteri dei singoli e della collettività considerata nel suo
insieme, considerata soprattutto in quelle specificità culturali che
caratterizzano un popolo, e che si estrinsecano, come si diceva, nella cultura
e in ciò che da questa deriva.
Ne consegue che l’odierna cosiddetta “globalizzazione”
non può e non deve prescindere dalla distinzione dell’intera superficie
terrestre in vari “territori”, intesi come luoghi nei quali si esplicano le
specifiche caratteristiche dei diversi “popoli”. La globalizzazione implica la
“transitabilità” dei confini, non la soppressione dei singoli territori in
vista di un unico territorio costituito da tutta la terra. A parte la
considerazione che una cosa del genere è solo immaginabile, ma, almeno al
momento, assolutamente irrealizzabile, resta il fatto che la perdita delle
caratteristiche proprie dei vari territori e, quindi, dei vari popoli, sarebbe
solo una perdita immensa di ricchezze naturali e culturali. Occorre, dunque,
“difendere i territori”, poiché, è bene ripeterlo, essi costituiscono “spazi di
libertà” per il pieno sviluppo delle singole persone e per il progresso
materiale e spirituale della società.
11. – Lo sviluppo economico nella “dinamica costituzionale”.
E veniamo a quella che abbiamo
denominato la “dinamica costituzionale”, e cioè all’insieme delle disposizioni
che la nostra vigente Costituzione repubblicana prevede per lo “sviluppo
economico” della nostra società.
Ed al riguardo è importante precisare
che la nostra Costituzione parte dall’idea di comune esperienza secondo cui la
ricchezza proviene da “due fattori”: “le risorse della terra” ed “il lavoro
dell’uomo”. Infatti “due sono gli obiettivi” che la stessa si propone di
raggiungere: a) “tutelare il territorio”; b) “proteggere il lavoro”. Ed è molto
significativo, in proposito, il fatto che il Titolo III, Parte prima, della
Costituzione, dedicato ai “Rapporti economici”, è in pratica dedicato, sia alla
tutela del territorio, sia alla tutela del lavoro.
In particolare parlano del territorio
l’art. 42, primo comma, secondo il quale “la proprietà è pubblica e privata. I
beni economici appartengono allo Stato, ad enti e a privati”, nonché l’art. 44,
primo alinea, secondo il quale occorre “conseguire il razionale sfruttamento
del suolo”. Parlano invece di lavoro, l’art. 35, secondo il quale “la
Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni”, l’art. 36,
secondo il quale “il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata
alla quantità e qualità del suo lavoro ed in ogni caso sufficiente a assicurare
a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”, nonché l’art. 38,
importante per l’affermazione di principio secondo cui tutti devono lavorare,
ed è esentato da questo dovere soltanto “il cittadino inabile al lavoro e
sprovvisto dei mezzi necessari per vivere”, per il quale è previsto il “diritto
al mantenimento ed all’assistenza sociale”.
Il quadro costituzionale, relativo ai
due essenziali fattori della produzione, tuttavia, non si ferma qui. Basti
pensare, quanto alla difesa del territorio, al riferimento dell’art. 9 alla
tutela del paesaggio e dei beni artistici e storici[31],
nonché alla disposizione dell’art. 52 Cost., secondo il quale “la difesa della
Patria è sacro dovere del cittadino”. E, per quanto riguarda il fattore lavoro[32],
al primo alinea dell’art. 1 della Costituzione, secondo il quale “l’Italia è
una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”, nonché all’art. 4, primo comma
Cost., secondo il quale “la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto
al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”.
Tutela del territorio, e cioè delle
risorse della terra[33],
e tutela del lavoro, e cioè della piena occupazione, sono, dunque, obiettivi
fondamentali della nostra Carta costituzionale.
Come perseguire questi due obiettivi
è specificato nel citato Titolo III, della Parte prima, Cost.
In questo titolo si prevede,
innanzitutto, all’art. 43 Cost., un intervento pubblico nell’economia
principalmente in relazione alle “imprese o categorie di imprese, che si
riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazione
di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale”,
precisandosi che “a fini di utilità generale la legge può riservare
originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo
Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate
imprese categorie di imprese”.
Insomma, il principio è che le
imprese strategiche debbono essere in mano pubblica e che non è accettabile
rimettere alla speculazione privata la produzione di beni e servizi primari per
la vita del Paese.
Questo punto essenziale è stato
travolto dalle numerose e dannosissime “privatizzazioni”, che hanno privato
l’Italia, in breve periodo, del 50 per cento delle imprese, sospingendola verso
una irrimediabile miseria, propedeutica ad un finale ed irreparabile disastro
economico e sociale.
Altro punto strategico proprio della
nostra “dinamica costituzionale” consiste nell’aver “separato” la piccola e
media proprietà, come la proprietà coltivatrice diretta e la proprietà della
prima casa (artt. 44 e 47 Cost.), dalla proprietà la cui produzione eccede le
strette esigenze di vita e sono in grado di far crescere la “produzione
nazionale”.
Per questo tipo di proprietà, come si
è già accennato, la stessa tutela giuridica è condizionata all’assolvimento
della “funzione sociale”, cioè all’obbligo di dar spazio all’ “occupazione” ed
alla “produzione” di beni che possano soddisfare i bisogni di tutti.
Quest’obbligo è sancito in modo
espresso e con piena “precettività” dal citato art. 42 Cost., in base al quale,
si ripete, “la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge… allo
scopo di assicurarne la funzione sociale”. E’ una norma universalmente
riconosciuta in dottrina come “norma precettiva di ordine pubblico economico”,
la quale, tuttavia, anche a causa di talune discutibili sentenze della Corte
costituzionale, è rimasta del tutto “inapplicata”. Lo dimostrano il continuo e
dannosissimo ricorso alle “chiusure e delocalizzazioni” di “imprese” desiderose
solo di maggiori profitti, nonché la massa enorme di “immobili” e soprattutto
di “terreni” “abbandonati” dai loro
proprietari.
Al riguardo, è la stessa Costituzione
che ci offre il rimedio. Se è vero, come è vero, che la “tutela giuridica”
della proprietà privata è condizionala alla “funzione sociale”, il venir meno
di quest’ultima, fa venir meno anche la tutela giuridica e, di conseguenza,
vien meno il “diritto di proprietà privata” ed anche, e necessariamente,
qualsiasi diritto di “indennizzo”, visto che non esiste più il diritto da
indennizzare.
Si verifica, insomma, un “effetto
automatico”, per il quale, il bene originariamente appartenente a tutti, e da
tutti “ceduto”, mediante legge, ad un singolo individuo, torna con tutta
evidenza nella proprietà collettiva di tutti.
Dunque, nel caso dell’abbandono, di
terreni ed immobili, che ha un suo precedente storico “nell’ager desertus” della tarda Roma
imperiale, implica il dovere, meglio si direbbe il “munus”, dell’autorità pubblica di riscrivere contabilmente nella
proprietà pubblica e collettiva dalla stessa amministrata il bene di cui si
discute, a ciò provvedendo, dopo la necessaria “diffida” ad adempiere al
proprietario. Si tratta, in sostanza, di rileggere attraverso una
“interpretazione costituzionalmente orientata”, quanto è già scritto nell’art.
838 del codice civile in relazione ai terreni abbandonati, tenendo conto, come
poco sopra si accennava, che il “meccanismo giuridico” previsto dalle sopra
ricordate “disposizioni costituzionali” di ordine pubblico economico” implica
il venir meno, insieme con il diritto di proprietà, anche del conseguente
diritto all’indennizzo.
C’è poi un ultimo punto molto
importante da tener presente nell’analisi di questa “dinamica costituzionale”:
è la “partecipazione” del cittadino alla “funzione amministrativa” normalmente
affidata alla pubblica amministrazione. Infatti, come è noto, mentre la
funzione legislativa è riservata al Parlamento e quella giudiziaria è riservata
all’Autorità giudiziaria, la funzione amministrativa non è riservata alla P.
A., ma condivisa da questa, con enti e con soggetti privati.
La disposizione principe in proposito
è quella dell’art. 3, comma secondo, Cost., secondo il quale è compito della
Repubblica assicurare “l’effettiva partecipazione di tutti i cittadini
all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. E “partecipare”
alla ”organizzazione”, in termini giuridici, vuol dire proprio partecipare
all’azione amministrativa dei pubblici poteri. E parlare di “lavoratori” vuol
dire parlare di tutti i cittadini, poiché, come si è visto, per la Costituzione
non esistono i “fannulloni”: o si ha la capacità di lavorare e si “deve”
lavorare, o si è “inabili al lavoro” ed allora si ha diritto al mantenimento ed
all’assistenza sociale.
Accanto a questo principio a
carattere generale, la Costituzione fa ricorso alla “partecipazione” anche nel
citato art. 43, nel quale, come si è detto, si affida la gestione di imprese o
di categorie di imprese “di preminente interesse generale” anche a “comunità di
lavoratori o di utenti”, e cioè ad entità giuridiche diverse dalla pubblica
amministrazione.
Di “partecipazione” infine parla
diffusamente e con precisione l’ultimo comma dell’art. 118 del rinnovato Titolo
V della Costituzione, nel quale si legge che ”Stato, Regioni, Città
metropolitane, Province e “comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei
cittadini, singoli o associati, per lo svolgimento di attività di interesse
generale, sulla base del principio di sussidiarietà”. Qui addirittura si
afferma che l’iniziativa dei cittadini in tema di funzioni amministrative
dovrebbe precedere, in casi di estrema vicinanza agli interessi del popolo,
l’azione dei pubblici poteri: questo e non altro significa il ricorso al
concetto di “sussidiarietà”.
In tema di “partecipazione”, occorre
ricordare che, in base alla costruzione che abbiamo descritto della “Comunità
politica”, il “cittadino è parte costitutiva” del popolo, e come tale può e
deve agire, con un’azione popolare, nell’interesse proprio e di tutti gli
altri.
Questo principio sembra sia stato
accolto dalle Sezioni unite della Corte di cassazione e dalla Corte
costituzionale (delle quali non disponiamo ancora delle relative sentenze), nel
noto caso dell’azione promossa da un semplice cittadino per ottenere la
cancellazione della legge elettorale, cosiddetta “porcellum”. Se così fosse,
l’azione popolare, sarebbe diventata oggi una sicura realtà[34].
12.
- Conclusione.
Salvare il territorio e salvare il lavoro
di tutti, in ultima analisi, richiede, secondo la Costituzione, l’intervento di
tutti. Ed è evidente che è in nostro potere salvare innanzitutto il nostro
“territorio”, e cioè “le risorse” che la Terra, la “iustissima tellus”, abbondantemente ci offre.
Uno, dunque, è l’imperativo
categorico che si impone per vincere la cosiddetta crisi finanziaria: “tornare
alla terra”. Alla “nostra terra”, che è ricchissima di caratteristiche
particolari, come la bellezza del paesaggio e la feracità dei suoi terreni coltivabili.
Tornare alla Terra, tra l’altro, significa anche far rivivere le
caratteristiche proprie del nostro popolo, universalmente riconosciute nella
“creatività” e nel “culto della bellezza”, vuol dire anche impegnarsi nella
ricerca, nella cultura e nelle attività produttive di beni reali.
Dunque, una volta assicurate in mano
nostra le cosiddette “industrie strategiche”, occorre dedicarsi
all’agricoltura, all’artigianato (protetto dal comma secondo dell’art. 45
Cost.), al turismo, e, come si diceva, cominciare da una grande opera pubblica
di ristabilimento dell’equilibrio idrogeologico della nostra Italia.
In tal modo potremo vincere anche la
pervicace speculazione finanziaria internazionale, e saremo in grado di tornare
al “mercato reale”, rendendo produttivo il nostro impareggiabile territorio
nazionale.
[1] * Relazione al Convegno di studi sul tema “Regole per
il buon governo. La riforma della legge regionale toscana sul governo del
territorio, Firenze, 20 novembre 2013; Relazione al Convegno di studi sul tema
“Il governo del territorio nelle Marche: quali cambiamenti?”, Fermo, 6 dicembre
2013. In corso di pubblicazione sulla Rivista cartacea Diritto e Società.
[1] Queste
considerazioni provengono prevalentemente dalla lettura dei seguenti testi: L.
Gallino, Con i soldi degli altri, Torino, 2010; idem, Il colpo di Stato di
banche e governi, Torino, 2013; V. Giacché, Titanic Europa, Roma, 2012; idem La
fabbrica del falso, Roma, 2011; Associazione “Sbilanciamoci”, trad. dal
francese del Manifesto degli economisti sgomenti, Roma, 2010
[2] L. Gallino, Il colpo di Stato cit., p. 300; L.
Ciarrocca, I padroni del mondo, Milano, 2013, p.7 ss.
[3] L. Gallino, Il colpo di Stato cit., p. 316-317.
[4] L. Gallino, Il colpo di Stato cit., p. 101.
[5] Relazione regio decreto 16 marzo 1942, n. 786.
[6] L. Gallino, Il colpo di Stato cit., p. 99.
[7] L. Gallino, Il colpo di Stato cit., p. 301.
[8] L. Gallino, Il colpo di Stato cit., p. 106.
[9] L. Ciarrocca, I padroni del mondo cit., p.53 ss.
[10] L. Gallino, Il colpo di Stato cit., p. 112
[11] * In corso di pubblicazione sulla Rivista “Il Ponte”
numero novembre-dicembre.
[11]
Sull’argomento: L. Gallino, Il colpo di Stato di banche e governi, Torino,
2013, specie p.251 ss.
[12] Zjgmunt Bauman, “La ricchezza di pochi avvantaggia
tutti. Falso”, Roma-Bari, 2013.
[13] Si tratta degli ambasciatori del Kyrgystan, Antigua e
Barbuda, Lussemburgo e Botswana.
[14] M. Luciani, L’antisovrano e la crisi delle
Costituzioni, in Scritti in onore di Giuseppe Guarino, Padova, 1998, vol. II
p.780 ss.
[15] Importanti sono, al riguardo, le considerazioni di
Giuseppe Guarino, nell’articolo “Il fiscal compact è nullo. Il Governo lo
certifichi”, apparso sul quotidiano Il Foglio del 4 diembre 2013.
[16] A. Lucarelli, La democrazia dei beni comuni, Roma-Bari,
2013.
[17] V. Giacché, Titanic Europa cit., p.137.
[18] A. M. Sandulli, Manuale di diritto amministrativo,
Napoli, 1969, p. 5.
[19] Su questi argomenti è indispensabile leggere le pagine
di C. Schmitt, Il nomos della terra, Milano, 1991, p. 19 ss.
[20] M. Vinci, Fines regere, Milano, 2006.
[21]
P. Catalano, Populus Romanus Quirites, Torino, 1974.
[22] M. Bretone, Storia del diritto romano, Roma-Bari, 1989,
p. 349.
[23] F. P. Casavola, Studi sulle azioni popolari romane. Le actiones populares. , Jovene,
Napoli, 1958.
[24] A. Guarino, Diritto privato romano, Napoli, 2001, p.
491.
[25] Gai Inst., 2, 1.
[26] M.S. Giannini, I beni pubblici, Roma, 1963, rist. 1981,
p. 47.
[27] Sul collegamento tra “proprietà collettiva “ e
“sovranità”, vedi il mio scritto “I beni comuni nel codice civile, nella
tradizione romanistica e nella Costituzione della Repubblica italiana”, in
Giurisprudenza costituzionale, 2011, p.2613 ss., rinvenibile su www.federalismi. It. Tema ripreso, con
dovizia di particolari, S. Settis, in Azione popolare, Torino, 2012, p.79.
[28] Corte costituzionale, sentenze n. 105, del 2008; n. 1,
del 2010; n. 112, del 2011.
[29] N. Capone, Cultura e libertà nel dibattito
all’Assemblea costituente, in Libertà di ricerca e organizzazione della
cultura. Crisi dell’Università e funzione storica delle Accademie, La Scuola di
Pitagora Editrice, Napoli, 2013.
[30] V. Cerulli Irelli parla di “spazi di libertà”, in voce
“Uso pubblico”, cit. p. 967.
[31] Quanto alla tutela del paesaggio, sono fondamentali i
volumi di Salvatore Settis: Paesaggio Costituzione Cemento, Torino, 2010 e
Azione popolare, Torino, 2012; nonché il completissimo articolo di G. Severini,
La tutela costituzionale del paesaggio, in www.giustizia-amministrativa.it,
2005.
[32] Da ultimo, G. Zagrebelsky, Fondata sul lavoro, Torino,
2013.
[33] Quanto alla tutela delle risorse della terra, vedi: G.
Di Marzo, Anatomia di una rivoluzione, Roma, 2012; C. Iannello, Il diritto
all’acqua, Napoli, La scuola di Pitagora editrice, 2012..
[34] Fondamentale, al riguardo il citato volume di S.
Settis, Azione popolare.
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