30 aprile 2015

PINETINA DI VILLA MASSIMO: A QUANDO L'APERTURA?

 
A due anni dalla chiusura, la Pinetina di Villa Massimo è in completo abbandono.
Alla chiusura del giardino attrezzato a spettacolo viaggiante,si è aggiunta recentemente la chiusura della parte adibita a ristoro.L'immobilismo dell'amministrazione comunale e municipale è sotto gli occhi di tutti:un'area verde sottratta alla cittadinanza per l'ignavia della pubblica ammministrazione, malgrado che gli sforzi della cittadinanza l'abbiano restituita,dopo un'aspra battaglia legale, integralmente al pubblico utilizzo.
Eppure basterebbe poco:mettere in sicurezza le zone pericolose,portare via gli arbusti che si sono accumulati nel tempo,posare a dimora  le alberature che non si sono rovinate,mettere a posto le panchine,dare una bella e energica rassettata e aprirla e chiuderla dall'alba al tramonto.
La redazione di TRE RIGHE si offre volontaria.
Ma è troppo difficile per un'amministrazione che non si sa assumere le proprie responsabilità,che non sa dare risposte ai cittadini,buona soltanto a fare sterili polemiche sui social network e ovviamente promesse in campagna elettorale.Ma fatti zero!
Dovrebbero andare a casa non solo per questa faccenda della Pinetina di Villa Maissimo che sà di scandaloso ma per le altre incompiute nel Municipio II :la palestra nel giardino Fabio di Lorenzo(Villa Narducci),i campi da tennis di Via Como,l'abbattimento delle rampe della Tangenziale sempre annunciato ma mai realizzato,il Centro Ittiogenico abbandonato,l'indecenza nei dintorni della Nuova Stazione Tiburtina,e le scandalose speculazioni a Via de Sabelli,Via de Sardi,Via de Lollis,alla ex Dogana  e l'elenco potrebbe continuare .
Vogliamo  ricordare per finire la vergogna di Villa Blanc 
Villa Blanc,una villa e un parco regalati alla speculazione privata da amministrazioni di centro sinistra attente più alle loro relazioni e al loro tornaconto elettorale che alla qualità della vita dei propri concittadini e un'autorizzazione  a costruire ,in barba ai dettami del Nuovo Piano Regolatore,rilasciata da un'amministrazione di centro-destra.
Insomma una politica bi-partizan alla faccia dei cittadini.Veramente bravi!
 
Domenico Fischetto
 
 
 
Reportage fotografico della Pinetina di Villa Massimo (foto Fischetto)
 
 












 

29 aprile 2015

Il Marnetto quotidiano:L'ARTICOLO 72 DELLA COSTITUZIONE

Il Marnetto Quotidiano
La Costituzione per fortuna è scritta in un italiano chiaro e con una logica piana.
Per la formazione delle leggi, l'articolo 72 detta la procedura normale - la regola - e poi i provvedimenti abbreviati - le eccezioni. Ma lo stesso articolo si chiude affermando una regola che non tollera eccezioni, per la somma importanza dei temi trattati.
Dice infatti l'ultimo comma: "La procedura normale di esame e di approvazione diretta da parte della Camera è sempre adottata per i disegni di legge in materia costituzionale ed elettorale (...)"
Possono dei precedenti difformi dalla Costituzione modificare la chiara indicazione dell'articolo 72 appena citato? Non c'è bisogno di essere esperti per rispondere di no. Eppure, il chiaro italiano della Carta non è stato compreso dalla Camera e - spiace notarlo - neanche dalla Presidente, che nella sua posizione doveva tutelare la propria indipendenza dal Governo, quanto meno chiedendo un giudizio alla commissione del regolamento.
Ma la paura di "andare tutti a casa" fa presa sui parlamentari che - tranne pochi - non hanno un mestiere e molte spese. E così la "Renzi asfalti" ha traforato la Costituzione, in nome della PAV, la Politica ad Alta Velocità, che ha bisogno di un tracciato sgombro da molesti approfondimenti, per far correre il suo turbo-presidenzialismo. Spettinando il capostazione Mattarella che immobile lo vedrà sfrecciare dalla stazione del Quirinale.
Massimo Marnetto

da www.libertaegiustizia.it

PARLANDO DI COMMERCIO NEL CENTRO STORICO CON GLI AMMINISTRATORI

 
Pubblichiamo un commento a caldo di Paolo Salonia sul convegno svoltosi ieri sera 28 aprile presso la  cappella Orsini sul Commercio nel Centro Storico,organizzato dall'associazione CRCS e con la presenza di Sabrina Alfonsi,Presidente del I Municipio,Marta Leonori,Assessore capitolino al commercio,Orlando Corsetti,presidente capitolino della commissione commercio,che si sono sottoposti volentieri alle domande molto dirette e dettagliate dell'Associazione.
Leggiamo quanto scrive  Paolo Salonia,membro di CRCS e di ProgettoRoma.
 
 
 
                                                       Corsetti,Leonori,Alfonsi (da sx)
 
 

Ieri,28 aprile, si è svolto il Convegno sul Commercio a Roma, organizzato dal CRCS
e con la presenza della Alfonsi (Municipio I), della Leonori
(Assessorato Comune) e di Corsetti (Commissione Comunale) come
interlocutori.

Per ProgettoRoma erano presenti Mimmo Fischetto e Paolo Salonia.

La cosa che sento più urgente è la necessità di condividere  alcune riflessioni a valle del convegno stesso di ieri sera.


L'incontro è stato indubbiamente importantissimo, su questo punto non vi sono dubbi.

Noi abbiamo potuto avere tre responsabili fondamentali nel governo dei processi dei quali si è trattato, tutti e tre affiancati sullo stesso tavolo, tutti e tre a dover rispondere agli stessi quesiti.

Loro tre hanno avuto, ancora una volta, la "plastica"dimostrazione che i cittadini stanno loro con il fiato sul collo.

I temi all'odg i più emergenti e rappresentativi dello stato dell'arte della "situazione di Roma Capitale": OSP, Concessioni,Processo sanzionatorio, Decoro, Ambulanti, Attività somministrazione cibo e bevande, PMO, PGTU.

Quindi, ribadisco, incontro fondamentale.

Ma, mentre l'introduzione di Gaia Pallottino (Presidente di CRCS) è stata a dir poco splendida, ampia e soprattutto politica nel porre le diverse e puntuali questioni all'interno di una visione approfondita e consapevole dei mali della città, mentre l'intervento di RobertoTomassi (membro di CRCS e responsabile di un Comitato nel Tridente) per presentare l'elenco dei quesiti è stato anch'esso vasto e problematico, gli interventi di risposta dei nostri tre interlocutori sono stati deludenti, vaghi e, a mio avviso, sfuggenti.

Non sono "scoppiate le contraddizioni" che pure sappiamo bene esistono tra i tre e concorrono a frenare ulteriormente la necessaria e non più procrastinabile inversione di rotta nel governo del commercio (in tutte le sue declinazioni) in questa città.

Soprattutto, sempre secondo il mio punto di vista, quella che è totalmente mancata, o perlomeno è stata deludente, è la risposta sulla loro idea complessiva di città.
Praticamente non c'è, o quantomeno non ce l'hanno fatta capire.

L'elemento comune delle loro risposte, infatti, è stato un lungo inanellamento di "stiamo facendo", "stiamo vedendo", "si sta studiando", "si farà".....(in sostanza "working in progress" o,se preferite, "non disturbate il manovratore")...presentati in modo frammentario e scollegato, senza un seppur minimo tentativo di mettere a fuoco le interrelazioni sistemiche che esistono tra le varie specificità.

Non è emerso uno spirito "coraggioso", un impegno a voler incidere realmente sui fenomeni, anche inventando e proponendo strade innovative, magari studiando le soluzioni intraprese in altri ambiti metropolitani.In sostanza, la grande delusione deriva dalla constatazione - ancora una
volta - che in questa classe dirigente manca totalmente la"vision" e le poche, mal avvertite e incerte azioni che sono in grado di mettere in campo vengono presentate con inutili toni trionfalistici, con foga degna di ben più nobili cause (Sabrina Alfonsi) o con toni dimessi sconfortanti (Marta Leonori), entrambi inutili e niente affatto convincenti.

Senza dire, poi, della mancanza di indicazioni relative ad un minimo crono-programma, della mancanza nella comunicazione di poche ma certe scadenze, insomma di qualche data che si fa sempre in tempo poi a giustificarne lo slittamento.

Anche questo dimostra l'assenza di una visione organica del processo da governare, si va a tentoni girando la barra di volta in volta a seconda di come si alza il vento.

Infine, il tema (vergognoso) delle distinte attribuzioni (tutti le cercano, nessuno le trova) tra "Roma Capitale" e "Città Metropolitana" (Comune ed ex-Provincia?), parole vuote, scatoline senza contenuti!

Ma probabilmente, questa è l'anima vera del tempo storico che viviamo....cerchiamo di avere.....FIDUCIA!!!

Chiudo qui la mia lamentazione, per non farla troppo lunga.

Certo, sono molto sconfortato (ma lo ero anche prima).

Ora, si commentava giustamente  ieri sera a margine del convegno , dobbiamo assolutamente "non mollare la presa" e mantenere il morso sui loro polpacci.
Il crono-programma glielo dobbiamo sostanzialmente imporre noi, costringendoli a questi incontri che dovranno diventare sistematici per dare vita ad un vero e proprio monitoraggio del loro operato.

I problemi in campo sono arrivati a punti di vera emergenza, il Giubileo è alle porte, i mali della città sono ormai in fase di sviluppo a progressione geometrica, non possiamo essere più minimamente tolleranti.

Il processo dovrà essere realmente partecipativo.


Paolo Salonia

28 aprile 2015

Il Marnetto Quotidiano:NON CEDIAMO LA NOSTRA SOVRANITA'

Il Marnetto Quotidiano : Non cediamo la nostra sovranità


Data: Mittente:

L'italiano medio non s'intende di politica. Ed è orgoglioso di questa ignoranza.
Questo atteggiamento di fraintesa contrapposizione - estraneità pulita contro politica sporca - è il grande problema nazionale. Perché la partecipazione informata è il principale contrappeso al potere.

Le vicende dell'Italicum dimostrano in modo allarmante questo deficit di consapevolezza democratica, visto che solo un italiano su tre sa che cosa sia questa legge elettorale e le sue conseguenze nefaste sulla concentrazione del potere.

Il rischio è enorme, perché quando non ci sono le nozioni, contano solo le emozioni. Verso chi "non se ne intende di politica" fa più breccia uno slogan, che un ragionamento. Renzi lo sa. E come Berlusconi prima di lui, parla per frasi fatte fino al disprezzo per l'intelligenza del destinatario.

Dobbiamo reagire a questa arroganza manifestando la nostra resistenza all'accentramento di potere (premio di maggioranza ad un unico partito) e allo svilimento del Parlamento (Senato club di immunità per regionali in trasferta a Roma). C'è una petizione per "Arrestare l'Italicum" di tutte le associazioni che hanno a cuore la Costituzione ( link anche su www.libertaegiustizia.it). Firmiamola.

Perché la sovranità ceduta democraticamente, deve essere riconquistata cruentemente.

Massimo Marnetto
Libertà e Giustizia di Roma



DAGLI ORTI URBANI ALLA TANGENZIALE VERDE


 

 

                                        Il senatore Zanda al convegno "Tangenziale Verde"


Il 21 aprile l’Associazione RES ha organizzato un convegno per il lancio di un comitato “Tangenziale verde”.Nella ex mensa dell’Istituto militare del Castro Laurenziano ora trasformato in aula didattica della Facoltà di Medicina,l’infaticabile architetto Grenon ha illustrato il nuovo progetto elaborato dallo studio di cui è associata per la riqualificazione urbana del tratto della vecchia tangenziale che va da Batteria Nomentana a Via Lorenzo il Magnifico.Dagli orti urbani alla tangenziale verde,dai giardini pensili all’affascinante idea di “coltiviamo la città”.Incassata la decisione del Comune di abbattere il tratto sopraelevato della tangenziale fronte la Nuova Stazione Tiburtina,il cui bando ancora non è stato pubblicato,per nulla delusa,l’architetto Grenon ha aggiornato il suo progetto e lo ha presentato coadiuvata dalla presenza di opinion maker dei settori più disparati che ,chi per un verso chi per un altro,hanno appoggiato con dotte argomentazioni il progetto.Padrino del pomeriggio ,un inedito senatore Zanda e il giornalista Fazzuoli,arruolati alla causa della Grenon.Nelle more della presentazione è stato anche ventilato  un appoggio al progetto del Sindaco Marino.
Ora ,senza entrare nel merito della proposta di costituzione del Comitato,ci sembra comunque singolare che sia stato organizzato un evento del genere con tutto questo fuoco di fila ,se l’obiettivo non era impressionare l’interlocutore Sindaco e politica cittadina in primis.Gli amministratori comunali e quelli piccini municipali si sono tenuti lontani da questo convegno,ma,abbiamo  fiutato nell’aria,lo sappiamo che non è molto giornalistico, una certa intesa con l’amministrazione capitolina .Diversamente non si sarebbe spesa l’autorevolezza del senatore Zanda,che ricordiamo attuale capogruppo del PD al Senato e uno degli ex Rutelli boys che  ora vanno per la maggiore dalle parti di Palazzo Chigi.E conosciamo tutti le simpatie di Marino per non sospettare almeno un suo giudizio benevolo nei confronti del progetto.
Inoltre ci continua a sfuggire la posizione dell’Università ,sponsor del pomeriggio.Se da una parte siede in un gruppo di lavoro composto da  Comune , Municipio e cittadinanza che si propone di studiare le possibili soluzioni sia per l’abbattimento che per la risistemazione dell’intera area,dall’altra si fa promotrice di un comitato che smentisce e devitalizza i risultati del gruppo di lavoro.Posizione ambigua che ancora nessuno ci ha spiegato (lo abbiamo chiesto al Municipio  e siamo in attesa di risposta)

I cittadini infine.Pazientemente hanno aspettato la fine del convegno per dire la loro.Ma sono stati ascoltati da un pugno di resistenti e con una certa disattenzione da parte degli organizzatori.

Non vogliamo esprimere un parere sul progetto presentato dall’associazione RES.Riproponiamo però un post dell’architetto paesaggista Monica Sgandurra pubblicato da Tre Righe e ripreso dal sito di Paesaggio critico.

Sebbene del 2014 ,riteniamo l’articolo sempre attuale.
Domenico Fischetto

 

da paesaggiocritico.com

Questa non è l’High Line

di Monica Sgandurra

L’High Line la conosco bene.

Ma molto bene.

Da prima che nascesse, da quando c’erano ancora le erbacce e i suoi “amici” cercavano le modalità di valorizzazione di quello che all’epoca era un piccolo mondo spontaneo, nato sopra ad una infrastruttura abbandonata all’interno del tessuto urbano della città icona della supermodernità, nella quale tutto è possibile.

La conosco bene perché l’ho studiata fin dal principio, è dentro la mia tesi di dottorato di ricerca discussa nel 2001.

Ho partecipato al primo concorso di progettazione che i Friends of the High Line avevano indetto nel 2002 per raccogliere spunti, idee, suggestioni, racconti, intorno a quella che consideravano non solo un potenziale di biodiversità all’interno della città, ma anche un’occasione di riscatto di un luogo abbandonato che poteva trasformare e trascinare con la sua forza un intero quartiere, allora depresso.

Ho seguito tutte le fasi del ragionamento sulla sua ideazione, costruzione, sviluppo con l’attenzione dello studioso che vuole capire e conoscere come è possibile che da un giardino si arrivi alla rigenerazione urbana.

Perché stiamo parlando di un giardino, non di orti urbani, né di vigneti o meleti.

Ho letto tutte le pubblicazioni possibili, ascoltato conferenze, come architetto ho seguito la sua costruzione, studiato i brevetti che sono stati realizzati appositamente per il “pacchetto tecnologico” della sua sovrastruttura, come paesaggista ho studiato le composizioni di perenni, graminacee, biennali e così via.

Ho studiato la capacità sociale ed imprenditoriale di questa operazione, capito i processi e le tappe.

E infine l’ho visitata.

Ho centinaia di fotografie, i miei appunti, che mi servono tutt’ora per continuare a studiare questa meraviglia.

Posso asserire, con una giusta e sacrosanta presunzione, che ho la capacità di tenere lezioni (cosa che ho fatto) e conferenze su tale argomento.

Detto ciò posso asserire che l’High Line è un GIARDINO.

Se a qualcuno è sfuggito, se qualcuno ha un po’ di confusione al riguardo, se qualcuno non sa qual è la differenza tra un orto ed un giardino, allora è il momento di allontanare le incertezze di chiarirvi le idee e dirvi che l’High Line è un meraviglioso, costoso, superbo GIARDINO contemporaneo.

Questa introduzione per arrivare al cuore di questo post, all’argomento che tratterò.

Parleremo finalmente del progetto per la riqualificazione del primo tratto, oggi parzialmente in disuso, della Tangenziale Est di Roma.

Questo inverno, quasi dal nulla, è apparso un progetto, una ipotesi di struttura verde ideata dallo studio romano Sartogo & Grenon associati.

Il progetto, presentato in fase embrionale, o così ci sembrava, si mostrava come un sistema di coltivazioni agricole poste sopra la copertura del primo tratto della infrastruttura viaria, quello che da ponte Lanciani arriva alla Stazione Tiburtina.

Il progetto non mi convinceva da molti punti di vista. Come paesaggista leggevo delle forzature lessicali e di senso fin troppo evidenti tanto da persuadermi che non era importante parlarne qui, su Paesaggiocritico.

Ma le domande che questa operazione porta in se fin dal principio si sono nel frattempo moltiplicate, come anche le perplessità sia sull’oggetto (il progetto), sia sulle modalità di conduzione dell’operazione.

La mia disamina sarà quindi articolata in tre parti.

Prima parte.

Come è nato questo progetto? Qual è la sua genesi?

Tutto nasce dall’Associazione RES Ricerca Educazione Scienza, una “Associazione [...] apartitica, non ha fini di lucro ed è costituita per operare nella società con il proprio apporto manuale e intellettuale, per una crescita armonica della vita sociale, culturale, comunitaria ed economica, per una educazione innovativa e per la diffusione di una cultura scientifica e tecnologica, nel rispetto e nella tutela dell’uomo e dell’ambiente”.

L’architetto Nathalie Grenon Sartogo è il Segretario generale di questa associazione.

Leggendo i vari articoli sulla stampa nazionale pubblicati al riguardo si fa fatica a capire la genesi di questa operazione e quindi, onde evitare equivoci al riguardo, riportiamo la descrizione della nascita di questa operazione descritta sul sito dell’associazione dal suo presidente Raffaella Morichetti:

“Dal 2005 RES sostiene varie iniziative sul tema della città sostenibile, in particolare il Progetto Pilota “Coltiviamo la città”, che prende forma nel quadro dell’Agenda 21 dopo gli Stati Generali di Roma Capitale.

A una prima conferenza urbanistica sul futuro della nostra città, tenuta l’8-9 aprile 2010, fa seguito l’invio di un progetto RES a Roma Capitale per la partecipazione della società civile alla città sostenibile.

Non ricevendo risposta, nel quadro dell’Agenda 21 l’iniziativa viene sviluppata con l’arch. Nathalie Grenon, Segretario Generale dell’Associazione, nel Progetto “Coltiviamo la città” per intervenire in punti critici del territorio nell’ottica della riqualificazione ambientale e con il beneficio della massima sinergia in ogni Municipio. Nel 2011, in riferimento all’adesione del Comune di Roma all’Agenda 21, il III Municipio (ora II) condivide all’unanimità in una seduta di Giunta il Progetto Coltiviamo la città elaborato avvalendosi della consulenza a titolo gratuito dello studio Sartogo, in quanto finalizzato al recupero di aree degradate e/o in stato di abbandono da trasformare in aree verdi a servizio della qualità della vita dei cittadini”. (tratto da http://www.associazioneres.org)

Ricapitoliamo.

Un progetto RES viene mandato a Roma Capitale nel 2010 che non ottiene nessuna risposta, nessun seguito.

In virtù di ciò viene sviluppata ulteriormente l’iniziativa (seguendo i dettami dell’Agenda 21) dall’architetto Grenon.

Nel 2011 a seguito dell’adesione da parte del Comune di Roma all’Agenda 21 il progetto “Coltiviamo la città” (realizzato con la consulenza a titolo gratuito dello studio Sartogo) viene presentato ad una seduta della Giunta del III Municipio, oggi II.

Nel febbraio 2014 inizia il battage pubblicitario di questo progetto che all’apparenza non esce come una consulenza, ma come un progetto redatto dallo Studio Sartogo & Grenon associati, perché quella è la firma unica in calce ai disegni che sono diffusi sulla stampa.

Si tratta quindi di un progetto o di una proposta fatta a titolo gratuito per l’Associazione RES che sta cercando dei finanziamenti e la possibilità di essere recepito (questa volta come incarico professionale) dal Comune di Roma?

E cosa farà il Comune di Roma e la sua Giunta?

Continuerà la meravigliosa attività del suo predecessore nel dare incarichi (consulenze, progettazioni?) per realizzare opere pubbliche a professionisti a titolo gratuito?

Il progetto, nel frattempo è uscito dallo studio di architettura Sartogo-Grenon e da fonti giornalistiche, sembra debba costare la bellezza di 21 milioni di euro di cui 4,5 milioni a carico di Roma Capitale.

E qui iniziano le domande, tante.

C’è stata effettivamente una vera partecipazione cittadina alla costruzione di questo progetto o invece la partecipazione è stata solo quella della presentazione del lavoro in alcuni incontri post progetto?

Insomma, mi piacerebbe almeno vedere e leggere i documenti relativi al processo partecipativo della cittadinanza e di come è stato portato avanti il progetto di ascolto (così come è stato, ad esempio, per il progetto della piazza di Testaccio) in modo da arrivare al perché di questa scelta.

E l’incarico a chi andrebbe, all’Associazione Res (associazione senza fini di lucro) o ai due professionisti? Oppure ad un certo punto il Comune con il suo ufficio tecnico farà un progettino con la consulenza (a titolo gratuito, ben inteso) dei due progettisti romani?

Questa è la prima domanda sul senso e le modalità dell’operazione che ci viene spontaneamente di formulare.

In tutto questo c’è un’altra questione che si intreccia, e a volte sfuma nell’altra, in modo poco chiaro: quella dell’abbattimento del tratto sopraelevato davanti alla Stazione Tiburtina: 450 metri di infrastruttura con relative rampe.

Il progetto della Stazione prevedeva la realizzazione di una piazza antistante e lo spostamento dei capolinea dei pullman sull’altro lato della stazione. Questo significa che la Stazione deve essere liberata, prima o poi, dal passaggio aereo del tratto antistante, una volta completato il passante sotterraneo della nuova Tangenziale.

Il Comune di Roma, sul suo sito istituzionale annuncia a febbraio 2014 l’avvio del processo partecipativo per l’abbattimento (denominato primo lotto) da iniziare nel prossimo gennaio 2015.

Dal sito si annuncia anche un’altra cosa, ossia che il progetto che dovrà uscire da questa operazione di partecipazione cittadina, dovrà anche prevedere: “il restyling complessivo della zona: il tratto della tangenziale tra Batteria Nomentana e la Stazione diventerà una strada di quartiere con due corsie (più una complanare), tre rotatorie, parcheggi a raso, un parco lineare attrezzato per i bambini e lo sport e una pista ciclopedonale fino a ponte Lanciani. Per la sistemazione definitiva del piazzale saranno coinvolti i privati”.

(tratto da: http://www.comune.roma.it/wps/portal/pcr?contentId=NEW593754&jp_pagecode=newsview.wp&ahew=contentId:jp_pagecode).

Comune di Roma – Piano di assetto per la riqualificazione dell’area della Stazione Tiburtina, 1999.

Non si fa riferimento allo stanziamento, ma gli articoli usciti in quell’epoca parlavano di cifre intorno ai 6-9 milioni di euro già stanziati per questa prima demolizione.

Oggi si apprende, inoltre, sempre dai giornali, che “ha aggiunto Grenon – a maggio abbiamo incontrato l’esecutivo del sindaco, e gli assessori Masini e Caudo ci hanno detto che sono riusciti a bloccare gli appalti per la demolizione delle rampe a Ponte Lanciani e Tiburtina. Ora facciamo l’ultimo passo”. (tratto da IL TEMPO, 29 luglio 2014).

L’ultimo passo per cosa? Per questo progetto?

E questo progetto dove troverà i finanziamenti e come?

E chi li chiederà?

E dove andranno a finire i soldi già stanziati per la demolizione? E quei soldi già stanziati sono delle casse del Comune o fanno parte del progetto FS della Stazione Tiburtina?

E gli appalti bloccati per la demolizione sono stati già aggiudicati? Perché se così fosse forse il Comune dovrà iniziare a pagare delle penali e questi si che sarebbero soldi pubblici persi per annullare una decisione presa (bene, male, non è importante in questo passaggio), dopo anni di riflessioni e che viene buttata all’aria per non si sa bene cosa.

Insomma, l’operazione è confusamente complessa, ha bisogno di chiarimenti, di prese di posizioni chiare, di risposte limpide e precise, soprattutto da parte del Comune e del II Municipio.

Seconda parte.

Il progetto.

Partiamo dalla sua descrizione.

Il “tema” affrontato è quello di “Coltiviamo la città”, ossia la moda imperante in Italia di coltivare, nei luoghi più inquinati del nostro territorio, ossia al centro delle nostre città, orti e frutteti.

E qui inizio a fare delle riflessioni generali sull’argomento.

Con lo slogan che “coltivare è bello” perché è utile, si fa passare l’idea che gli spazi verdi possibili oggi per le nostre città possano essere solo quelli di carattere produttivo. Quindi il destino delle nostre città è quello di fornire insalate e pomodori coltivati ad altezza tubo di scappamento, o giù di lì, come se fossimo assediati dal nemico e ridotti ad una condizione di assedio e quindi di autoproduzione per sopravvivere. Assedio da cosa? Dalla campagna esterna che è al di fuori della città?

Ormai la risposta è univoca, se non si fanno orti non si può più pensare il verde urbano.

E noi italiani che siamo scappati dalle campagne perché la condizione di contadini non volevamo più sostenerla, ci ritroviamo come cittadini a zappare qualche centimetro di terra su una soletta di cemento armato.

Perché?

Le città sono per loro costituzione luoghi artificiali, non sono luoghi naturali, né luoghi da rinaturalizzare (è un controsenso) perché ciò significherebbe radere al suolo tutto, togliere le macerie e piantare le foreste.

Le città sono luoghi artificiali che hanno bisogno di altri luoghi artificiali che si chiamano GIARDINI.

La città ha bisogno di giardini, di luoghi dell’ozio, di bellezza, non di standard urbanistici o di operazioni che possono benissimo essere fatte in situazioni più consone. E qui mi riferisco alle frange urbane, a quei luoghi di nessuno dove la campagna arriva o si arresta e dove potrebbe avere un senso coltivare il cavolfiore.

La città ha altresì bisogno di strutture verdi che in qualche modo abbiano anche una rilevanza sul comfort ambientale. Un vigneto messo sul bordo di una ferrovia, per esempio, non ha nessuno impatto circa la possibilità di attenuare l’inquinamento che il passaggio di centinaia di treni al giorno provoca nell’ecosistema locale. Forse un filare di Tigli (alberi resistenti allo smog) con le loro chiome compatte e le foglie larghe si, può avere una piccola rilevanza nel protezione dell’immediato fronte urbano.

L’ultima considerazione generale è quella che mi porta a dire che vorrei che chi ha l’impellente bisogno di coltivare qualche cosa, andasse a coltivare le campagne, quelle vere, quelle che hanno reso famosi i nostri paesaggi, nella considerazione che forse un’operazione del genere sarebbe più rivoluzionaria, più potente perché andrebbe ad operare e mantenere e rigenerare e riproporre e trasformare e controllare il nostro territorio e soprattutto il nostro Paesaggio, famoso in tutto il mondo. Sarebbe una vera e propria rivoluzione paesaggistica.

Questo per esplicitare la mia posizione circa il progetto che prevede la realizzazione di orti, vigneti, frutteti, un mercato a chilometro zero ed altre attrezzature.

In effetti nel leggere le didascalie dei disegni pubblicati questo progetto sembra, oltre ad un catalogo di soluzioni molto diffuse, un decalogo del perfetto coltivatore urbano. Una sorta di spazio agronomico dove coltivare meli, ortaggi, viti ed altro.

Insomma una passeggiata in mezzo ad una “spiga di grano” (questa era l’immagine-suggestione del progetto) dove far passeggiare i nonni con i nipoti. Ma li avete visti i nonni di oggi? Agili e scattanti se ne vanno in palestra o in viaggio di piacere con le loro badanti del momento, dei nipoti non ne vogliono proprio sapere nulla ……

L’elenco continua con un meleto (meli a Roma? per esperienza personale ho provato a piantarli nel punto più freddo della città e vi assicuro che l’operazione è stata fallimentare – i meli hanno bisogno di freddo, non di isole di calore), un fruttaio con auditorium per conferenze, orti per le scuole, un parco per skate in mezzo all’area dove piantare gli alberi per i neonati, una operazione di rutelliana memoria (e qui l’immagine prodotta di questo ambito è abbastanza inquietante e scarna nei suoi risvolti espressivi).

Insomma tutto un elenco di interventi dal linguaggio orticolo-sostenibile.

Descritto in questo modo sembra quasi una meraviglia se vi piace l’approccio, ma in realtà l’esito formale è un po’ debole, ha molte incertezze che lascio al vostro giudizio.

Viene da domandarsi come sono stati risolti i problemi di viabilità di questo quartiere, come sono stati studiati i flussi del traffico e tutto ciò che riguarda proprio il funzionamento del tessuto urbano in relazione alla viabilità e sosta.

Mi permetto solo di fare un appunto, dei tanti possibili che mi saltano agli occhi: possibile che da un punto di vista espressivo si sia fatto riferimento, quasi da “copia ed incolla” ad una realizzazione che per noi paesaggisti è un pezzo di storia moderna, e non si sia fatto lo sforzo di ideare, realizzare un’idea formale diversa, personale?

 

Perché Roma dovrebbe avere una copia allungata, “strecciata”, di quello che è il Naerum Allotment Gardens di Carl Theodor Sørensen, nei pressi di Copenaghen, progettato nel lontano 1952?

E’ corretto, questo va detto, nella progettazione fare riferimento, studiare, proporre forme analoghe a esperienze passate che hanno avuto un certo successo, ma riproporre una struttura formale senza un passaggio critico di elaborazione è abbastanza discutibile. Forse bisognerebbe avere ben altre visioni che ti portano ad essere ricordato non come quello degli orti romani alla Sørensen.

Forse Roma meriterebbe progetti con capacità espressive originali, così come è successo dall’altra parte dell’Oceano con il lavoro di Piet Oudolf per quel meraviglioso giardino tanto evocato da tutti.

E qui veniamo alla terza ed ultima parte.

L’informazione.

A febbraio scorso, e poi a fine maggio, e adesso a fine luglio, i quotidiani nazionali hanno accolto nelle loro pagine di cronaca la notizia di questo progetto.

Se si leggono tutti di seguito gli articoli, anche quelli di testate on line, sembra che questo progetto sia stato ampiamente discusso, approvato, visto, digerito, finanziato, e soprattutto che la sua realizzazione è imminente, con il taglio del nastro prima dell’Expo’ di Milano 2015.

Un delirio.

Un delirio di parole, tanto che mi viene da pensare che ormai i progetti non si facciano più negli studi, ma che si sia prodotta un’altra possibilità del progetto, ossia quella che passa e viene costruita e realizzata quasi esclusivamente attraverso l’informazione.

Quindi la battuta che circola riguardo il fatto che ormai la politica non la fanno più i politici ma la fa l’informazione, la fanno i giornalisti, mi fa pensare che la stessa cosa può essere in qualche modo applicata al mondo della progettazione.

Un progetto potrebbe essere, per assurdo, svuotato di tutto: di iter, di discussioni e dibattiti pubblici, di approvazioni, di documenti, di passaggi tecnico-istituzionali ed essere catapultato direttamente nella realizzazione attraverso il passaggio nei media. Basta trovare delle parole ricorrenti, delle parole chiave tormentone e politicamente corrette, e qualche rendering, qualche immagine accattivante, fare l’elenco delle facilities, con appelli alla sostenibilità e al miglioramento della vita comune e il gioco è fatto: pubblichi il risultato, realizzi e costruisci.

Facile, no? Pensiamoci!

E poi perché, mi chiedo, generare confusione pubblicando a corollario degli articoli usciti non le immagini del progetto Sartogo-Grenon, ma le foto della High Line di New York, come se fosse la stessa cosa.

Non è la stessa cosa, l’operazione romana non è il giardino realizzato da Diller e Scofidio + Refro con Corner Field Operations e il paesaggista Oudolf per la famosa passeggiata verdeggiante.

E allora la cosa diventa forviante, l’informazione da’ una notizia raccontandola formalmente in un altro modo e chi non sa, chi non conosce, crede di ritrovarsi, un domani, a passeggiare a Roma su una cosa simile alla High Line. NO.

Al termine di questo lungo post voglio ricordare una cosa, ossia che una città come Roma non può fare progetti a singhiozzo, non può produrre risposte parziali che non tengono conto dell’organismo, che non tengono conto del funzionamento e del destino futuro di una infrastruttura urbana così importante. Il pensiero e la risposta non può essere il progetto di un piccolo tratto di un organismo che prima o poi sarà dismesso, ma c’è bisogno di un progetto articolato che per fasi restituisca alla città un altro luogo.

In tutte le più grandi città mondiali il tema della riconversione delle infrastrutture è molto sentito e studiato sempre nella sua complessità, non in una sezione così parziale (1700 metri su circa 7000), come nel caso della nostra Tangenziale.

Per anni, come ci ricorda un pezzo scritto sulla PresS/Tletter del 28 febbraio 2014 da Massimo Locci, sono stati fatti studi, progetti, tesi di laurea e convegni sul destino della Tangenziale, attraverso l’associazione “Amici del Mostro”. Un lavoro serio, a “cui hanno aderito numerosi architetti e intellettuali, per sollecitare un dibattito senza pregiudizi sul futuro della tangenziale. Proprio sulla scorta di positive esperienze internazionali, a Parigi e New York, di riuso di viadotti ferroviari e carrabili avevano proposto di realizzare un parco lineare e attivato un processo partecipativo con i residenti, con happening urbani, laboratori didattici nelle scuole, incontri all’In/Arch, esposizioni di progetti e tesi di laurea degli studenti di architettura, fino all’ottenimento nel 2007 di un parere positivo sull’ipotesi di un Parco Urbano da parte della Commissione Cultura del Comune di Roma”. (tratto da http://presstletter.com/2014/02/sopraelevata-di-san-lorenzo-di-massimo-locci/)

Locci si domanda alla fine dell’articolo, perché siamo il paese che deve azzerare le cose, perché dobbiamo sempre e comunque ripartire da zero e non fare tesoro delle esperienze effettuate e invece sprecare continuamente il lavoro intellettuale già in parte svolto?

E io domando, perché dobbiamo accettare un progetto simile che non è il risultato di un concorso, che non è emerso da una sana dialettica, che non è frutto di una giusta interrogazione sociale e culturale, ma è invece posto come unica possibilità di trasformazione di questo pezzo di città?

Perché il Comune non fa, come sarebbe normale che fosse, un concorso, magari internazionale, di progettazione?

Perché l’Ordine degli Architetti di Roma non dice nulla al riguardo?

Perché l’AIAPP (l’Associazione italiana degli architetti del paesaggio) tace, non si esprime, nel bene o nel male, al riguardo?

Sembra come se questo progetto sia la cosa migliore che Roma può avere e che tutti siano entusiasti e pronti a prendere la zappa in mano per realizzarlo.

Ma siamo proprio sicuri che sia così? Perché se così è, allora alzo le mani e mi congratulo con Sartogo e Grenon, pur rimanendo della mia opinione e con le mie perplessità.

Chiudo ritornando all’inizio di questo lungo articolo: questa non è l’High Line, purtroppo.

Cari lettori, colleghi, “cultori della materia”, appassionati, io ho detto la mia, ora sta’ a voi dire la vostra, perché in Italia, vi ricordo, vige il “silenzio assenso” e quindi non vi meravigliate se domani davanti alla vostra finestra appare inspiegabilmente qualche cosa di strano.

Sarà troppo tardi per parlare, per chiedere spiegazioni.

La parola perciò passa a voi.

p.s. l’articolo, per scelta, non pubblicherà le immagini del progetto recensito, ma vi invitiamo caldamente a prenderne visione per una completa informazione sul sito del quotidiano La Repubblica, nell’articolo pubblicato il 28 luglio 2014. Il link è

http://roma.repubblica.it/cronaca/2014/07/28/news/ex_tangenziale_ecco_il_progetto_dell_orto_urbano-92597847/

 

27 aprile 2015

I TESORI DI CIPRO RUBATI DALLA TURCHIA

Pubblichiamo questo articolo apparso sul sito thepostinternazionale,che  riprende l'argomento invasione della Turchia della Repubblica di Cipro dal punto di vista dell'arte.
Nel 1974 la Turchia duante l'invasione dell' isola di Cipro,membro dell 'Unione Europea,non solo si è macchiata di crimini contro l'umanità ma si è resa complice di mercanti d'arte senza scrupoli che hanno letteralmente saccheggiato le chiese dell'isola dei loro tesori per rivenderli sul mercato internazionale.
E la Turchia con queste premesse vorrebbe entrare nell'Unione Europea!!!!
D.F.
 
 
Sabato 25 aprile 2015

I tesori rubati di Cipro

Quarant'anni dopo l'invasione turca e il saccheggio di chiese e monasteri, Cipro combatte per riprendersi i suoi capolavori artistici
I tesori rubati di Cipro



Le forme più crudeli di oltraggio indirizzate a un popolo e al suo patrimonio artistico e culturale non hanno luogo solo in Cina, in Africa o nel centro America.
Anche in Europa si possono riscontrare casi di questo tipo, spesso ancora aperti e irrisolti.
Nello specifico, basta spostarci nella parte nord di Cipro, dal 1974 occupata dai soldati di Ankara, che si è unilateralmente proclamata Repubblica Turca di Cipro del Nord.
Questa regione dell'isola è stata la culla di gran parte del patrimonio storico-artistico cipriota, del periodo bizantino (dalla fine dell'Impero Romano al 1192), lusignano (dal 1192 al 1489) e veneziano (dal 1489 al 1570).
Fino a che, in meno di 30 anni, le chiese e i monasteri sono stati demoliti o adibiti a stalle, magazzini, pollai. Lo scempio non si ferma qui: le opere d’arte sono state trafugate e rivendute a mercanti e collezionisti senza scrupoli.
Uno dei mercanti turchi più noti e criticati è Aydin Dikmen, conosciuto per aver venduto, alla fine degli anni Ottanta, gli affreschi del XIII secolo della chiesa di Sant'Eufemiano a Lysi, ritrovati poi presso la Menil Foundation, una collezione privata in Texas, e i mosaici della chiesa della Vergine Kanakaria a Lythrangomi, del VI secolo.
Dikmen, insieme all’olandese Michel van Rijn e a Robert Fitzgerald, riuscì a vendere a Peg Goldberg questo patrimonio artistico per un milione di dollari.
La donna cercò di farli acquistare dal J.Paul Getty Museum in California, che però prese contatto con le autorità cipriote. Ciò portò l’Interpol sulle tracce del mercante turco e dei suoi appartamenti a Monaco di Baviera.
Proprio nei lussuosi appartamenti di Dikmen, nel 1997, gli agenti trovarono, nascoste nelle intercapedini tra le pareti e il pavimento, 300 opere d’arte provenienti, secondo le autorità cipriote, da almeno 50 chiese situate nel nord dell’isola.
Tra le opere ritrovate, alcune erano le pitture a muro della chiesa della Vergine Pergaminiotissa, che risalivano al XII secolo d.C. Altre, come quelle provenienti dalla chiesa di Santa Solomone, erano datate IX secolo d.C. Il valore di altri capolavori sottratti, come icone, mosaici, pergamene, manoscritti, non è di certo degno di minore considerazione.
All'epoca, Aydin Dikmen fu sottoposto alla custodia della polizia, in attesa che il processo avesse inizio. Tuttavia, il traffico di opere d’arte non è regolato adeguatamente dagli statuti e dagli accordi internazionali, e i vuoti legislativi nella disciplina di questo tema sono ancora numerosi.
Un altro, enorme ostacolo si è presentato con l'inizio del processo: la Germania aveva firmato la Convenzione contro il traffico illecito di beni culturali, senza però averla mai ratificata.
Per tutte queste ragioni, le accuse contro Dikmen decaddero formalmente, e dopo circa un anno l'uomo venne rilasciato. La richiesta di estradizione del mercante da parte di Cipro rimase inascoltata.
Secondo lo storico bizantinista tedesco Johannes Deckers, la maggior parte dei reperti conservati negli appartamenti di Monaco, era di provenienza cipriota.
Tuttavia, la conferma dell’origine delle opere incontrò innumerevoli ostacoli e richiese molto tempo per venire alla luce. In base alla sentenza, arrivata solo nel marzo 2013, e di natura esclusivamente nazionale, solo 170 opere furono riconosciute di sicura provenienza cipriota.
La delibera dei giudici considerò illecita la proprietà di Dikmen e obbligò il collezionista a favorire il ritorno in patria delle opere, pena il pagamento di una somma fino a 7,3 milioni di euro.
Eppure, come dimostrato nel processo, il suo modus operandi era molto preciso: il mercante registrava e catalogava tutto ciò di cui entrava in possesso, fotografando e disegnando le opere prima, durante e dopo il furto.
La sua attività non si fermava qui: l’uomo produceva falsi certificati e vendeva come originali le copie dei mosaici, servendo il mercato nero. Facile immaginare che non potesse agire da solo, ma attraverso una tela ben organizzata e intessuta nel mondo nascosto dei ricettatori e dei mercanti d’arte di tutto il mondo.
Infatti, non è un caso che l’olandese Van Rijn, pentito, fu minacciato di morte se avesse deciso di collaborare con la polizia. Ciò condizionò in modo significativo lo svolgimento del processo. Aydin Dikmen, oggi, è libero.
L’elemento più paradossale è che Dikmen si sia rivolto alla Corte d’Appello tedesca, affermando che le opere fossero il patrimonio della moglie, e ha chiesto un sostanzioso risarcimento alla chiesa cipriota.
Il 16 marzo scorso la Corte di Appello ha preso posizione sulla sorte delle ultime 83 opere d’arte trovate a Monaco: è stato ordinato il rimpatrio per 34 reperti, mentre, per gli ultimi 49 capolavori, Cipro non è riuscita a provare al di là del ragionevole dubbio che anche questi le appartenessero.
Porfirio, il vescovo di Neapolis, ha definito questa battaglia artistica una “lotta continua”, suggellando il fatto che la Repubblica cipriota sia fermamente intenzionata a rientrare in possesso dei capolavori sottrattigli nel momento in cui le opere verranno messe all’asta dalla Corte Municipale di Monaco.
Tuttavia, la Repubblica cipriota non intende riacquistare le opere, sostenendo che il mancato pagamento nello svolgimento dell’asta compenserebbe i 500.000 euro con cui Dikman dovrebbe risarcire la Repubblica.
La situazione non può non incidere sulla fragilità politica del paese: sebbene siano passati 40 anni dall’invasione turca di Cipro, le speranze di rivedere la nazione unita si affievoliscono sempre di più.
Ioannis Eliades, direttore del Museo Bizantino di Nicosia, che nel 1974 era appena un ragazzo, mi attende davanti al museo, contento di poter esporre al mondo la difficile questione cipriota.
Il curatore del museo mostra orgoglioso icone e dipinti splendidi, del IX, X e XI secolo, pur riservando per la fine del tour l’opera principale, quasi a volerne sottolineare, con l’attesa, l’importanza.
È l’affresco della cupola che sovrasta la chiesa di Sant’Eufemiano, quell’affresco venduto molti anni fa da Aydin Dikmen, scovato poi negli Stati Uniti e trasferito in patria dopo un lungo e delicato lavoro di restauro.
Eliades quasi si commuove, mentre illustra le peripezie di quello che adesso è il simbolo dell’identità nazionale del suo popolo. Le sue parole commosse danno voce al valore degli affreschi, delle icone, dei manoscritti e dei mosaici da cui si è circondati nel museo.
Queste opere d’arte, però, non godono dell’importanza che meriterebbero: esse sono ancora conservate nel cellophane e in capienti cartoni di polistirolo.
Sono centinaia, e sono tutte quelle meraviglie recuperate fino adesso dal traffico illegale, capolavori con cui i ciprioti recuperano la propria memoria, troppo a lungo dimenticata.

24 aprile 2015

Recensione film: MIA MADRE regia di Nanni MORETTI

Anticipiamo a venerdì la consueta recensione del sabato regalataci da Ghisi.Domani,25 aprile ,ricorre il 70° anniversario della Liberazione e la redazione di Tre Righe parteciperà alle iniziative organizzate per celebrare questo gran giorno.
Spiace ricordare che L'ANPI abbia cancellato la manifestazione di Porta S.Paolo non avendo saputo gestire e controllare  dissapori interni ad alcuni gruppi di manifestanti che sarebbero potuti sfociare in veri e propri incidenti durante il corteo.
Una festa dela Repubblica Italiana  guastata dall'intolleranza  e dall'odio tra due popoli.
 
D.F.
 
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MIA MADRE
 
di Nanni Moreti
 
 
 
 
 
Un pò vintage?
 
 


Locandina Mia madre

 
 
Con tutto il battage pubblicitario, le interviste nei settimanali, le recensioni nei quotidiani e la partecipazione di Moretti nell’immancabile studio televisivo di Fazio, era prevedibile che il film di Moretti potesse deludere. La storia, per chi ancora non lo sapesse, è di due fratelli (Nanni Moretti e Margherita Buy) che vivono la fase terminale della malattia della madre con reazioni leggermente diverse. Lui è un ingegnere alle dipendenze di un’azienda e lascia il lavoro; prima si mette solo in aspettativa per qualche mese per accudire meglio la madre - poi si licenzia definitivamente. Lei invece nel film che sta girando da regista, si occupa di chi il lavoro lo ha perso in una fabbrica comprata da un imprenditore americano (John Turturro). È come se Nanni Moretti si fosse divertito a invertire i tradizionali ruoli maschio-femmina: da sempre sono le donne che si prendono “cura” delle madri anziane e delle vicende di famiglia in genere rinunciando spesso anche al lavoro remunerato fuori casa, mentre sono gli uomini a portare avanti il lavoro come “realizzazione di sé”.
Le due parti della storia – quella pubblica e quella privata – si alternano con un montaggio non del tutto armonico conferendo al film un tono un pò frammentario, come talvolta succede nelle pellicole di Moretti.  Si apprezza il film prevalentemente per la grande bravura di Giulia Lazzarini e per l’esuberante simpatia di John Turturro mentre i fratelli Margherita e Giovanni non riescono a convincere. Margherita (nel film come nella vita) Buy non è mai stata la mia attrice preferita: mi sembra che quell’aria un po’ stonata – “inadeguata” dice Moretti – l’abbia sempre in quasi tutti i suoi ultimi film. Sempre sciatta, dimessa, mal pettinata e vestita è rigida - direi meglio impalata - e se avesse dovuto esprimere il disagio, in effetti, lo ha ben comunicato.
Ho la sensazione che, a parte il racconto toccante dell’accompagnamento della madre alla morte dopo una lunga malattia - evento che moltissimi spettatori in qualche modo hanno vissuto - Moretti abbia messo insieme qualche piccola riflessione sul cinema neanche tanto originale e che le sue citazioni qua e là siano piuttosto degli ammiccamenti. Che dire della scelta della canzone di Leonard Cohen (ricordate I compari di Robert Altman del 1971?) come colonna sonora nella osannata scena della fila al cinema Capranichetta dove proiettano Il Cielo sopra Berlino (Wim Wenders 1987)? E la trovata di lei che vede e ascolta una se stessa giovane nella fila non ricorda un’idea simile di Woody Allen in Annie Hall del 1977? E ancora dello stesso regista una Mia Farrow che entra ed esce dallo schermo nella Rosa purpurea del Cairo del 1985 non è forse evocata da John Turturro che urla “sono stufo del cinema, voglio rientrare nella realtà…”?
Quello che però distanzia Moretti dai grandi che ama citare è la poca cultura visiva che ha. Le sue scene sono estremamente scarne. Non saprei neanche dire se è un difetto o un pregio: sicuramente è una sua prerogativa. In un mondo dove vige la spettacolarizzazione – del dolore, della violenza, delle architetture ridondanti – Nanni Moretti si pone controcorrente politicamente e poeticamente.  La matrice neo-realista italiana, a mio avviso, è prevalente così come la messa in scena di una certa media borghesia romana con i suoi luoghi urbani poco spettacolari (quartieri di Monteverde e del Flaminio) ma che bene la rappresentano.

Ghisi Grütter

23 aprile 2015

L'APPROFONDIMENTO: LE RELAZIONI TRA ITALIA E TURCHIA

La Turchia è stata sotto i riflettori dell'opinione pubblica mondiale dopo le forti parole di condanna di Papa Francesco per il genocidio del popolo armeno.Ma l'Italia cosa fa?Qual'è la sua politica estera nei confronti dello stato turco?Pubblichiamo questo articolo apparso sulla newwsletter di affari internazionali che esamina la storia delle relazioni italo-turche e ne traccia un giudizio concreto ,realistico.Solo un appunto:L'autore dell'articolo dimentica, che la Turchia si è macchiata, ,oltre che  nei confronti del  popolo armeno e quello curdo ,quarant'anni fa di crimini orrendi invadendo la Repubblica di Cipro e che questa situazione permane tuttora.E da questa dimenticanza traiamo un segnale molto importante e pericoloso nello stesso tempo:la pubblica opinione ha rimosso questa ennesima violenza perpetrata dal governo turco nei confronti di un altro paese membro della comunità europea,lo ha metabolizzato,digerito quando invece la ferita sanguina ancora.

DA http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=3035

Turchia, armeni e Italia
Indignarsi non è (ancora) una politica estera
Riccardo Perissich
19/04/2015
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Le parole del Papa sul massacro degli armeni, come sempre succede quando parla il Pontefice, hanno suscitato un vivo dibattito anche in Italia. Non sono in grado di valutare la ragione specifica per cui sono state pronunciate. Papa Francesco è persona accorta e un buon motivo deve esistere.

Più interessante, perché a noi più vicino, è l’immediata ondata d’indignazione che ha scosso l’Europa e l’opinione pubblica italiana con diffuse accuse al governo di essere silenzioso e imbelle.

Italia-Turchia: schizofrenia politica e mediatica
Noi non siamo un’autorità morale ma una nazione. Tutto ciò sembra dimostrare che quello della politica italiana verso la Turchia è da molto tempo un caso emblematico di schizofrenia dei media e in parte anche della classe politica; con buona pace della conclamata volontà di essere in prima linea fra i partigiani dell’ingresso del paese nell’Unione europea.

Se si trattasse di un paese lontano il cui comportamento non ci tocca più di tanto e su cui abbiamo poca influenza, poco male. Invece è uno dei nostri principali partner economici nel Mediterraneo, membro della Nato, candidato a far parte dell’Ue; è anche uno dei pochi paesi che, se volesse, potrebbe avere un ruolo determinante per promuovere una maggiore stabilità nel Medio Oriente e nell’Africa del Nord.

Eppure in pochi altri casi la nostra politica è stata trattata con maggior leggerezza. L’Italia e tutti i governi che si sono succeduti, è sempre stata in prima linea nel sostenere l’ingresso della Turchia nell’Ue.

Chi scrive sostiene invece da molto tempo che il momento in cui ciò sarebbe stato possibile è passato; sia l’Europa, sia la Turchia hanno preso strade troppo diverse. Non lo dicevo per sminuire l’importanza di quel paese; al contrario, perché ritenevo che il negoziato d’adesione fosse ormai un ostacolo e non un elemento di convergenza. Con altri che sostenevano la stessa tesi, fui accusato d’insensibilità verso una importante nazione amica.

Nel 1998 con incredibile leggerezza il Parlamento italiano votò una risoluzione di appoggio alla causa dei curdi. Su quella base un parlamentare di estrema sinistra portò in Italia il leader curdo Öcalan, che fu accolto con grande simpatia.

La reazione turca fu violenta, con ritorsioni diplomatiche, minacce sui rapporti economici e diffuse manifestazioni nel paese promosse, con sorpresa della nostra politica, soprattutto dai partiti turchi di sinistra. Il governo D’Alema fece rapidamente marcia indietro e Öcalan si trova ora in una prigione turca.

L’avvento di Erdoğan fu salutato come la prova che una vera democrazia islamica è possibile sull’esempio della nostra Democrazia Cristiana; i rapporti con Berlusconi erano particolarmente amichevoli e stretti.

Negli ultimi anni Erdoğan ha messo in atto una svolta autoritaria e le simpatie nei suoi confronti si sono molto affievolite. Ciò non ha comunque impedito all’Italia di continuare a sostenere la candidatura turca nell’Ue, nella proclamata illusione che l’Europa potesse influenzare l’evoluzione della politica interna del paese.

Malgrado la diminuita simpatia, quando Erdoğan mandò una flottiglia di palestinesi sulle coste di Israele con evidente intento provocatorio e ne seguì un incidente cruento, le simpatie italiane andarono ai turchi; forse perché in quel momento Israele era meno popolare.

Turchia-armeni: genocidio ed emozioni
Ora è esploso il dramma degli armeni durante la prima guerra mondiale. Nessuno nega che ci sia stato un massacro; nemmeno i turchi, anche se cercano di ridimensionarne la portata, le cause e il contesto. Il problema politico insorge quando qualcuno usa la parola genocidio, di cui peraltro non esiste una precisa definizione nel diritto internazionale.

Che l’uso di questa parola faccia esplodere tutte le emozioni non deve sorprendere, soprattutto in Europa. Per noi genocidio è in primo luogo legato al ricordo dell’Olocausto, evento che tocca da vicino le nostre coscienze perché europee (non solo tedesche) furono le responsabilità; chiunque sia accusato di un simile crimine è implicitamente associato ai nazisti. Questo solo fatto dovrebbe incitare a una certa prudenza.

Un altro motivo per cui la parola è così esplosiva è che in molti paesi europei la negazione del genocidio degli ebrei è passibile di sanzioni penali; se veramente volessimo seguire questa strada con la Turchia, dovremmo essere coscienti delle conseguenze.

La Francia l’ha fatto cedendo alla pressione politica della più grande comunità armena d’Europa. Puntualmente si è ripresentato anche il Parlamento europeo mai avaro di risoluzioni, prive di effetti giuridici e politici ma di sicura risonanza mediatica.

Le autorità americane sono più accorte; pur invitando laTurchia a un esame di coscienza, evitano di usare la parola genocidio. Su questa vicenda, come pure sul problema curdo, l’opinione pubblica turca sta lentamente maturando, ma le accuse provocano ancora una reazione nazionale molto forte che non si limita a chi sostiene l’attuale governo.

La Turchia, ha certo interesse a fare chiarezza sugli aspetti più torbidi del suo passato; tuttavia non è certo l’indignazione, peraltro priva di conseguenze, dell’Europa che l’aiuterà a farlo.

Buone ragioni per criticare le scelte turche
Ci sono altre buone ragioni, più urgenti e attuali, per criticare la Turchia. In primo luogo, la svolta non positiva della sua politica interna e della gestione dell’economia.

Inoltre l’ambiguità della loro politica in Siria e verso il sedicente Stato islamico, la loro visione strategica verso il Medio Oriente e l’Asia centrale, e il ruolo che intendono avere nell’approvvigionamento energetico dell’Europa. Sono questioni di interesse immediato che toccano da vicino i nostri interessi strategici nella regione più critica del pianeta.

Avere una politica estera richiede essere capaci di combinare principi e interessi. Spesso non è facile. Lord Palmerston disse che l’Inghilterra non aveva amici permanenti, ma solo interessi. Il generale de Gaulle, un altro che d’interessi se ne intendeva, disse che la politica della Francia non è dettata dalla borsa. Di sicuro, né l’uno né l’altro avrebbero tollerato che fosse dettata dalle emozioni e dall’indignazione suscitate dal telegiornale della sera.

Ora è il caso degli armeni, ma secondo i media dovremmo passare la vita a indignarci: per il Tibet, per il trattamento delle donne in Arabia Saudita, per la pena capitale in Iran (meno per quella negli Usa), per il rifiuto del Giappone di riconoscere i suoi crimini di guerra, per i massacri dello Stato islamico, per la tragedia degli emigranti nel Mediterraneo, per il dramma dei palestinesi, ma subito dopo anche per le minacce che gravano su Israele; la lista è lunga.

In fondo, cosa vorremmo? Che i colpevoli smettano di comportarsi così o, se i fatti appartengono al passato, riconoscano i torti e facciano pubblica ammenda.

Combinare principi e interessi
La richiesta è spesso giustificata, almeno secondo i principi che reggono la società in cui viviamo. Spesso, agire così converrebbe anche ai presunti colpevoli; se il Giappone seguisse l’esempio della Germania nel riconoscere i suoi crimini durante la seconda guerra mondiale, sarebbe meno isolato in Asia.

Il problema dell’indignazione è doppio. Essendo un fenomeno di narcisismo morale, evita la sgradevole domanda: quindi cosa facciamo? Domanda giudicata inopportuna perché ci richiederebbe di fare la guerra o di imporre sanzioni a metà dell’umanità.

I governi, su cui pesa la responsabilità dei destini del paese, a volte agiscono, a volte no. Se lo fanno, è perché ritengono minacciati i loro interessi o gravemente violati alcuni principi su cui si basa l’ordine mondiale: il diritto internazionale, la sovranità e la pacifica convivenza degli Stati, con più difficoltà e cautela il rispetto dei diritti umani.

Lo fanno soprattutto perché, avendo valutato rischi e opportunità, ritengono di poter ottenere un risultato; è il caso delle sanzioni contro la Russia, della guerra che si sta combattendo contro lo Stato islamico e delle iniziative che quasi sicuramente saranno necessarie in Libia.

Ovviamente gli indignati non sono mai soddisfatti, salvo rifiutare le conseguenze economiche, politiche o militari delle proprie emozioni.

Il secondo problema è che l’indignazione è in genere di breve durata; ci s’indigna per una causa per volta e non bisogna assolutamente perdere l’appuntamento con il nuovo orrore; i governi che si lasciano guidare da essa rischiano di essere sempre in ritardo di un telegiornale.

La patria di Machiavelli dovrebbe sapere che la morale disgiunta dalla ragione, dalla valutazione delle conseguenze dei propri atti e dei propri interessi può essere cattiva consigliera. In realtà l’indignazione è l’arma degli impotenti, il supporto della politica estera di chi non riesce ad averne una.

Riccardo Perissich, già direttore generale alla Commissione europea, è autore del volume “L'Unione europea: una storia non ufficiale”, Longanesi editore.

22 aprile 2015

"LA SCRITTURA CHE SALVA "Alla sala cittadina in via Boemondo

Riceviamo e volentieri pubblichiamo l'invito di Gian Carlo Marchesini

Giovedì 23 aprile alle ore 17.30, alla sala cittadina del Campo sportivo Artiglio di Via Boemondo, ragazzi e adulti insieme, faremo un incontro e un consulto su " La scrittura che salva".
Chi viene viene, passeremo un'ora insieme, racconteremo la nostra esperienza della scrittura, parleremo di sogni e speranze in un mondo che fa paura.
Gian Carlo



Riproponiamo la recensione scritta da Domenico Fischetto l'11 dicembre 2014

Recensione del libro:LA SCRITTURA CHE SALVA di G.C.Marchesini


E’ stata pubblicata l’ultima fatica di Gian Carlo Marchesini:LA SCRITTURA CHE SALVA,edizioni Agra

Abbiamo imparato a conoscere l’autore attraverso i suoi interventi nel nostro giornale e,per chi ne ha avuto la possibilità attraverso la lettura delle sue precedenti opere .Citiamo solo le ultime due:Io sono la Villa e Diario Militante.

Di cosa parla quest’opera?Certamente della scrittura ,ma perché salva?

L’esperienza dell’autore come volontario in due strutture pubbliche,una scuola media e una casa famiglia,lo mette in contatto con realtà differenti ma per certi versi simili.E questo libro ne è risultato e testimonianza insieme di questa esperienza .
Da un lato degli adolescenti di famiglie piccolo-medio borghesi che frequentano una scuola media di quartiere,dall’altra degli adolescenti che provengono da famiglie con problemi affidati alle cure di una casa famiglia. Un mix molto differente ma con molti punti in comune per via dell’età, messi insieme,quasi legati,che porta il lettore a riflessioni e comparazioni continue,dal minimo comune denominatore rappresentato dall’amico, dal fratello maggiore, dal complice,ma mai percepito come insegnante o espressione dell'Autorità, Marchesini.

Non crediamo che l’autore sia in possesso di particolari titoli accademici o vincitore di concorsi tali da poterlo accreditare in strutture pubbliche ,secondo lo schema classico.Può anche darsi. Riteniamo piuttosto che nel suo caso valga il metodo a qualcosa molto vicino alla “chiara fama” e al pubblico apprezzamento.

Marchesini presta la sua opera ,volontariamente e a titolo gratuito, in due strutture pubbliche così differenti occupandosi nelle ore extrascolastiche di adolescenti che hanno sete di apprendere,al di fuori dalle ore canoniche di insegnamento strutturato e ufficiale,di crescere,di essere amati da un adulto percepito come uno di loro,solo un po’ più grande, e con un bagaglio di conoscenze e di sensibilità (non di nozionismo) da cui attingere e imparare per conoscere meglio sé stessi e il mondo che li circonda .

L'autore in entrambe le situazioni mette a disposizione le sue qualità,la sua esperienza umana e di scrittore,la sua sensibilità,la sua generosità,il suo tempo e in definitiva il suo amore per il prossimo al servizio di giovani adolescenti fortunati o meno per accrescere la propria fiducia in se stessi e nelle proprie qualità, “insegnando”loro come sapersi leggere dentro,come far emergere i sentimenti spesso inespressi o soffocati dai dubbi propri dell'età , dalle difficoltà del quotidiano o creati artatamente da falsi modelli di riferimento .E ancora ,come sapersi confrontare con il prossimo e non vergognarsi di manifestare quello che si è in realtà senza finzioni, quello che si prova,quello che si sente ,a viso aperto senza nascondersi,perché le manifestazioni d’amore sono una prova di forza e non di debolezza anche se esse avvengono sotto forma di poesia, del testo di un rap o di un piccolo saggio o piuttosto con un abbraccio spontaneo o con un sguardo complice sorseggiando una cioccolata calda, in silenzio.

Insomma bisognerebbe leggersi il libro per apprezzare tutto questo.
Domenico Fischetto

PERCHE' NON ANDREMO A VEDERE "I BAMBINI SANNO" DI W.VELTRONI


 

Ci risiamo.Lo zuccherosso Veltroni,dopo il lacrimevole  docu-film su Berlinguer,adesso ce ne propina un’altra delle sue storie strappa-lacrime e cogitabonde“I bambini sanno”.
Il titolo non è scelto a caso. Uno dei  padri fondatori nonché primo segretario  del Partito Democratico, in questa sua nuova fatica intervista 39 bambini, con storie e classi sociali differenti, ponendo loro domande semplici su temi ad oggi molto attuali : la Crisi, l’Amore, l’Omosessualità, Dio, la Vita, la Famiglia e le loro Passioni. Queste parole d’ordine diventano i capitoli del lungometraggio.
Poveri bambini :”strumentalizzati” da un uomo che quanto ricopriva cariche pubbliche di un certo rilievo dei bambini non è che gliene fregasse più di tanto.
E sarebbe stato interessante che qualche bambino avesse rivolto a lui invece qualche domanda del tipo:
-quando governavi tu Roma che cosa hai fatto per renderla a misura di bambino?
-che cosa hai fatto per rendere la città più vivibile e meno congestionata e non farci respirare aria puzzolente ed inquinata?
-quanti spazi verdi pubblici ,i punti verdi per l’infanzia,sono stati ceduti senza controllo alla speculazione privata?
-come mai non ti sei accorto che accanto a te sedeva un uomo al servizio del malaffare?
E soprattutto
-perché non hai esercitato il diritto di prelazione per Villa Blanc regalandola praticamente alla LUISS,quando proprio di fronte alla Villa,c’è un complesso scolastico con 1350 bambini stipati  in  spazi angusti ?
I cittadini,i romani, non dimenticano .Non si lasciano incantare dalle tardive conversioni e soprattutto non accettano   lezioni di morale da chi la morale l'ha spesso piegata agli interessi di parte.  
Domenico Fischetto