Alle sue parole non aggiungiamo altro e ci stringiamo commossi e solidali al popolo palestinese .
D.F.
Data: 28
luglio 2014 23.16.28 GMT+02.00
A: undisclosed-recipients:;
Bcc:
Oggetto: From Palestine with (very
little) love. Gaza Again
Non so bene da dove cominciare.
Perché pensi che dopo 21 giorni, si sia detto tutto. Si sia analizzato tutto.
Si siano viste tutte le foto possibili, si siano lette tutte le cose possibili,
si siano fatte tutte le conversazioni possibili. E c’è solo da aspettare. Senza
aggiungere altra retorica.
Poi ti rendi conto che i livelli,
di conoscenza e di coinvolgimento, sono tanti. C’è chi è dentro, i Gazani, in
primis. Quelli che non sai se domani saranno ancora vivi. Il collega che chiami
tutti i giorni, che abita in Middle Gaza e da giorni non può uscire perché,
oltre a non essere sicuro, non esistono più le strade e si scusa che non può
andare alle riunioni del cluster. Gli amici che almeno una volta al giorno vuoi
sapere se stanno bene. I colleghi rifugiati in ufficio a Gaza da venti giorni.
Perché nel frattempo devi anche lavorare, e per fortuna. I giornalisti, che
dicono che cose così non le avevano mai viste. Poi ci sono i tuoi colleghi a
Gerusalemme, che non hanno mai visto la striscia di Gaza manco in cartolina
perché non ci potranno mai andare. Poi ci sei tu, e la tua combriccola di amici
cooperanti umanitari, che ti assorbi di news, refreshi aljazeera e twitter ogni
5 minuti e piangi ad ogni foto di bambino insanguinato e ad ogni messaggio col
conteggio dei morti e dei bombardamenti non sai più come sentirti. Poi
controlli i dati che arrivano, ogni giorno, da Gaza, dove sono oggi le case
bombardate. Quanti profughi in più. Quanti medicinali in meno. Analizzi e
ricalcoli, perché dobbiamo essere pronti ad entrare appena cessano il fuoco. Ce
lo ripetiamo da venti giorni. Aspettando Godot.
E poi ci sono tutti quelli fuori,
in Italia, nel mondo. A cui forse manca ancora qualche pezzo, nonostante siano tre
settimane che li bombardi di foto tweets articoli e chi più ne ha più ne metta,
evviva facebook.
Si è detto di tutto in questi
giorni. Eppure, dopo venti giorni, non sembra ancora finire. Ci siamo illusi
tutti, nei primi giorni. E poi un altro, e poi un altro. E ogni giorno si
toccava il fondo, e pensavi beh ora basta, non può essere peggio di così.
Putroppo, come scrive l’ottima Amira Hass, in Palestina “domani andrà peggio”.
I quattro bambini uccisi sulla spiaggia. Poi il finto tentativo di accordo egiziano.
Ci siamo cascati tutti, come dei principianti, o forse come degli umani. Poi
l’incursione di terra. Poi Shejaya rasa al suolo. Poi Khuza e Beit Hanoun. La
scuola dell’ONU che ospita rifugiati scappati dai quartieri bombardati. E poi
la pausa “umanitaria”, che ha permesso solo di scoprire altri orrori su orrori.
Per poi ricominciare, sempre peggio. Il quartiere generale di UNRWA, gli
ospedali, le ambulanze con medici e paramedici dentro. Il cortile dove
giocavano dieci bambini, solo oggi pomeriggio.
Non è un giorno della marmotta,
come ha scritto Franceschini qualche giorno fa su Repubblica (che ogni tanto
tocca ancora aprire). È peggio. Ogni giorno è peggio.
È peggio delle ultime due guerre
a Gaza, del Libano del 2006. Scenari da terremoto, da fine del mondo. Una
distruzione immane. fisica e psicologica. I villaggi di “confine”, se possiamo
chiamare pochi km di entroterra su un territorio largo 6 un confine e non circa
il 55% del territorio, sono stati rasi al suolo. Carri armati e buldozer stanno
spianando, stringendo e strozzando ancora di più gli abitanti di Gaza. Un
milione e ottocentomila persone, di cui ottocento mila ragazzi sotto i 14 anni,
vivono da tre settimane senza alcun luogo sicuro dove stare. Non che prima Gaza
fosse un bel posto dove vivere, ma non se lo sono certo scelto. E da tre
settimane nessun luogo è sicuro. Nessuno. Se non fosse ancora chiaro, i Gazani,
Palestinesi di serie D, non possono uscire dalla Striscia. Non possono andare
in Egitto. Non possono andare in Israele. Né chiaramente buttarsi a nuoto nel
Mediterraneo. Lo farebbero, se non avessero le navi israeliane pronte al fuoco.
Se non fosse che anche il mare gli è negato. Finora qualche centinaio di feriti
gravissimi è riuscito a raggiungere Gerusalemme, Amman, o l’Egitto. Gli altri
sono in attesa di morire per mancanza di cure perché gli ospedali sono al
collasso, o sono già morti sotto le macerie perché nessuno ha potuto
soccorrerli. I medici, come testimonia Mads Gilbert, chirurgo norvegese che da
un mese denuncia gli orrori commessi sugli ospedali di Gaza, sono allo stremo.
Il personale paramedico viene attaccato sulle ambulanze. I bambini di sei anni,
circa il 30% dei Gazani, stanno vivendo la loro terza, e peggiore, guerra. Come
cresceranno? Migliaia di famiglie hanno un mucchio di macerie al posto della
casa. Cosa proveremmo noi al loro posto? Chi sopravvive, come vivrà? La
ricostruzione di Gaza, semmai avverrà, dato che i materiali da costruzione non
possono entrare, sarà una questione di anni. La ricostruzione psicologica di un
milione e ottocentomila individui, ognuno con i suoi morti e la sua
distruzione, non la immagino nemmeno.
I primi giorni i morti erano una
ventina al giorno, colpiti da raid aerei. Già insopportabile per le nostre
coscienze a 60 km di distanza. Da quando sono entrati i carri armati, la media
è salita al 100 al giorno. Intollerabile. Inumano. Ingiustificabile.
“fanno il tiro al bersaglio con
le esche vive”. “è come se per colpire la mafia radessero al suolo la Sicilia,
con tutti i siciliani dentro” (cit).. E’ quasi fin troppo facile massacrare
civili a secchiate a Gaza. Qualcuno parla di Sabra e Chatila, quando racconta
di aver avuto accesso ai luoghi bombardati solo giorni dopo.
Sono giorni che mi chiedo se
avessi avuto qualcosa da scrivere, on the top of tutto quello che è già stato
scritto, detto fatto provato. E ogni giorno penso che magari domani finirà, o
che è già stato scritto tanto. Ma una sera in cui ti senti più anestetizzata,
perché hai fatto yoga e lavorato con tutto il tuo impegno possibile, e domani
sarà un altro giorno uguale a oggi, anzi peggio, ma tu sei pronta (e tu non sei
a Gaza, sei sana e umana e anche lucida) pensi sia ora di buttare giù quello
che è già stato detto, e scritto. E dirlo e scriverlo ancora una volta. Non
quello che penso io, dal mio quartiere dorato e intoccabile di Gerusalemme da
cui di certo non ho la percezione di quello che si vive, e si muore, a Gaza e
da cui un giorno me andrò sana e salva da qualche altra parte. Ma di dire e
scrivere quello che è già stato detto e scritto. Questo non è un articolo, un
saggio su Gaza o uno sfogo.
Questo è un appello alla
conoscenza.
Di buone analisi politiche, sul
gas, sull’Egitto, su questo o su quello, se ne possono leggere tante in giro.
Di foto, più o meno strazianti, professionali e amatoriali, se ne trovano tante
in rete. Di feedback dei vari giornalisti, attivisti, cooperanti, anche se ne
trovano.
E allora io vi chiedo. Leggete,
guardate, ragionate, diffondete. Parlate col vicino, col fruttivendolo, col
fioraio.
La disumanità, la crudeltà a cui
assistiamo in questi giorni, impotenti e umanamente incazzati, non può restare
disconosciuta. Nemmeno dopo ventuno giorni.
Uno per tutti, tra i milioni di
ottimi contributi di questi giorni, e tra le tante persone che raccontano Gaza
in questa guerra, questo. Non perché sia il migliore, ma perché la bambina
“pandasized” non può essere scordata.
From Palestine,
Costanza
da diffondere
se volete.