27 novembre 2013

L’urlo silenzioso e le brioches di Maria Antonietta di G.Pagliarulo

da Caratteri Liberi

L’urlo silenzioso e le brioches di Maria Antonietta

di Gianfranco Pagliarulo
novembre 26, 201

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di Gianfranco Pagliarulo
L’attacco alla sede del Pd di via dei Giubbonari a Roma e il giorno successivo a quella di via Archimede a Milano. Lo sciopero selvaggio dei mezzi pubblici a Genova e la violenta contestazione del sindaco Marco Doria. L’affluenza alle urne alle recenti elezioni regionali in Basilicata, che ha raggiunto il record (negativo) del 47.57%; oltre il 7% di questa percentuale di elettori ha poi votato scheda bianca o nulla.
Nel primo caso – le aggressioni alle sedi Pd – le reazioni prevalenti, peraltro giustissime, sono state di sdegno e condanna; nel secondo – il blocco dei trasporti pubblici a Genova – la contromossa è stata la precettazione dei lavoratori; nel terzo – il crollo dei votanti in Basilicata – non si è registrato alcun significativo commento, se si esclude la dichiarazione del neopresidente, che ha affermato di essere “profondamente preoccupato e rammaricato”.
C’è qualcosa che accomuna tre eventi diversissimi per la loro natura e per i luoghi dove sono avvenuti: il crescente sfinimento della rappresentanza politica e sociale e la conseguente deriva, che sembra irrefrenabile, dei meccanismi democratici tramite cui si concretizza e si compie la sovranità popolare.
Lo spettacolo della politica è devastante; l’opposizione parlamentare, come ha giustamente notato di recente Curzio Maltese, non esiste, limitandosi all’irrilevanza delle azioni dei parlamentari a cinque stelle, e, da parte dei suoi due guru, al “no” all’abolizione del reato di immigrazione clandestina e all’accantonamento della riforma della legge elettorale; il governo galleggia sul nulla, nell’inconsistente tentativo di aggiustamenti congiunturali della crisi e nell’inesistenza della critica ad una politica economica europea a trazione tedesca che sta portando al disastro l’intero mezzogiorno del continente; il Pd è impegnatissimo nella sua autorappresentazione attraverso un dibattito fra gli aspiranti segretari che è sempre meno in sintonia con la spietatezza della realtà sociale del Paese e interessa una percentuale sempre inferiore e sempre più sfibrata di cittadini; Alfano & company sono impegnati nel tentativo di costruzione di un grande centro che guardi a destra dopo il goffo flop e la conseguente evaporazione del partito di Monti che cinguettava col Pd; Berlusconi, in attesa del cartellino rosso, si prodiga nell’ennesima e sempre meno credibile performance anti istituzionale, promettendo valanghe di testimonianze e prove che lo scagionerebbero dai reati per cui è stato condannato in via definitiva; va avanti, sostenuta dalla maggioranza di governo, la macchina della “riforma” costituzionale, che sta già stravolgendo la natura della Carta del 1948 cambiando l’art. 138, che disciplina le modalità di revisione della Costituzione.
L’opposizione sociale è limitata a singoli movimenti tematici; manca cioè, sia sulla questione del lavoro che su quella dei diritti, un movimento di massa organizzato, permanente e presente sul territorio nazionale.
L’unico che coglie qualche aspetto fondamentale di questo scenario lunare è Fabrizio Barca che, in recente articolo su Repubblica, proprio a partire dall’aggressione alle sedi Pd, lancia l’allarme sulla crescente distanza fra “il 99% dei cittadini, il popolo che si sente fuori del potere” e quel restante 1% delle varie caste. Barca utilizza correttamente il linguaggio (“il 99%”) di Occupy Wall Street e degli Indignados. Ma, dato che nessuno di questi movimenti è presente in Italia, rifugia le sue speranze nell’auspicio di una rigenerazione del Pd che avverrebbe grazie all’unilaterale passo indietro degli attuali gruppi dirigenti, a un balsamico dibattito fra i tre candidati Civati, Cuperlo e Renzi, alla trasformazione del Pd, come da tempo Barca sostiene, in un “partito palestra”, schiodato dallo Stato e aperto alla società. Ipotesi tanto nobile quanto, a mio avviso, del tutto inverosimile (detto in parole più grevi: una pia illusione), perché, nella ruvida concretezza quotidiana del Pd, continua ad avvenire l’esatto contrario; basti pensare alla parte più “avanzata” del partito, per esempio una Laura Puppato che, dopo aver partecipato alla manifestazione del 12 ottobre a difesa della Costituzione e contro la legge costituzionale che stravolge l’art. 138, vota in Parlamento a favore della legge medesima, definendo il suo voto “un sì critico”; o un Pippo Civati che, dopo tanto inveire contro la Cancellieri, ne vota la fiducia. Se questi sono “i giovani del Pd”, ridateci Matusalemme.
Immanuel Kant parlava di “insocievole socievolezza degli uomini”, cioè “la loro tendenza a unirsi in società, congiunta però con una generale riluttanza, che minaccia continuamente di disunire questa società”. Se questa definizione di sapore antropologico del filosofo ha un fondamento, oggi in Italia prevale certamente l’aggettivo sul sostantivo. L’“insocievole” vince perché queste dinamiche dei partiti attuali ne conclamano la devastante lontananza dalla vita e perché la mutazione genetica del partito contemporaneo ne riduce in modo radicale le capacità di rappresentanza. Certo, c’è gente a cui piace Renzi, perché spiega l’idea del Pd in tre spot, ed altra gente a cui piace (ancora) Berlusconi, perché mette a valore il mister Hyde che serpeggia dentro ciascuno di noi. Ma questa è rappresentazione, spettacolo, pubblicità, in qualche caso psicoterapia, non rappresentanza. Nel vuoto di rappresentanza – un vento che sferza l’Italia, ma spira in tutta Europa – da un lato crescono a dismisura i poteri di quella che l’economista e sociologa Susan George chiama l’“autorità illegittima”, e cioè il consorzio mondiale di multinazionali, finanziarie e lobby, dall’altro prevale il sistema oligarchico, la deriva autoritaria, l’affermazione populista, o, sempre più spesso, un misto di queste tre patologie. In questo scenario la sovranità popolare è sempre più un guscio vuoto.
Prevalendo “l’insocievole”, si possono generare mostri. L’assalto alle sedi Pd ne è un segnale. Ma non basta, anzi, è del tutto errato ridurre la vicenda a una questione di ordine pubblico. Ha scritto Barca: “La mano di chi aggredisce e imbratta un circolo di partito è sempre di pochissimi. Ma parla della sfiducia assoluta di moltissimi”. Da una parte c’è un urlo silenzioso che sale dalla società, dall’altra una politica-Maria Antonietta che parla di brioches.
Il senso delle parole è sempre il suo interfaccia reale. Fermare, o quanto meno, frenare questa deriva parte dalla ricostruzione di senso di alcune parole chiave, a cominciare da rappresentanza, sovranità popolare, democrazia, lavoro, dignità. E dalla nascita di una forza organizzata che restituisca tale senso alle parole. Oggi questa forza non esiste. Sarebbe bene darsi una mossa.

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