da ilmanifesto.it
Pd, il partito americano
— Luciana Castellina, 29.5.2014
Dentro il voto. Non più di sinistra, né di centrosinistra. Neanche una
reincarnazione della vecchia Dc
Il risultato italiano del voto del 25 maggio non è di quelli che possono
essere frettolosamente giudicati. Mi limito a qualche considerazione
provvisoria.
Mentre gli spostamenti dell’elettorato negli altri paesi europei appaiono
abbastanza leggibili, i nostri sono più complicati. Per molte ragioni:
innanzitutto perché sono entrate in scena forze che prima non c’erano, e non
solo che si sono ingrandite o rimpicciolite.
Fra queste metterei anche il Pd, che non è più la continuazione dei
partiti che l’hanno preceduto. E’ un’altra cosa, nuova: non più un partito
di sinistra, e nemmeno di centrosinistra. Non direi neppure una reincarnazione
della vecchia Dc: anche in quel partito coesistevano interessi e rappresentanze
sociali molto diverse, ma ciascuna era fortemente connotata ideologicamente,
aveva proprie specifiche culture e leader di storico peso. Anche il partito
renziano è un arcobaleno sociale, ma le sue correnti sono assai meno
chiare, hanno un peso assai minore, scarsi riferimenti nella tradizione di
tutte le formazioni che l’hanno preceduto in questi quasi 25 anni.
Se si dovesse trovare una similitudine direi piuttosto che si tratta
del Partito democratico americano. Che certo non oserebbe mai prendersela
a faccia aperta con i sindacati cui è sempre stato legato, ma certo include
nelle sue file – basti guardare ai finanziamenti che riceve – ceti diversissimi
per censo, potere reale, cultura.
Se dico Partito democratico americano è perché il nuovo partito renziano
segna soprattutto un passaggio deciso all’americanizzazione della vita politica:
forte astensione perché una fetta larga della popolazione è tagliata fuori
dal processo politico inteso come partecipazione attiva e dunque è disinteressata
al voto; assenza di partiti che non siano comitati elettorali; personalizzazione
dettata dalla struttura presidenziale. Il fatto che in Italia ci si stia
avvicinando a quel modello è il risultato del lungo declino dei partiti di
massa, che ha colpito anche la sinistra, e della riduzione della competizione
agli show televisivi dei leaders che tutt’al più i cittadini possono scegliere
con una sorta di twitter: “i piace” o “non mi piace”.
E’ un mutamento credo assai grave: immiserisce la democrazia la cui
forza sta innanzitutto nella politicizzazione della gente, nel protagonismo
dei cittadini, nella costruzione della loro soggettività che è il contrario
della delega in bianco.
Inutile tuttavia piangere di nostalgia, una democrazia forte fondata
su grandi partiti popolari non mi pare possa tornare ad esistere, o almeno
non nelle forme che abbiamo conosciuto. Prima ancora di pensare a come ricostruire
la sinistra dobbiamo ripensare il modello di democrazia, non abbandonando
il campo a chi si è ormai rassegnato al povero scenario attuale: quello che
Renzi ci ha offerto, accentuando al massimo il personalismo, il pragmatismo
di corto respiro, la rinuncia alla costruzione di un blocco sociale adeguato
alle trasformazioni profonde subite dalla società (che è mediazione in
nome di un progetto strategico fra interessi diversi ma specificamente
rappresentati e non un’indistinta accozzaglia unita da scelte falsamente
neutrali.)
Detto questo credo sia necessario evitare ogni demonizzazione di
quel 40 e più per cento che ha votato Pd: non sono tutti berlusconiani o
populisti, e io sono contenta che dalle tradizionali zone di forza della
vecchia sinistra storica siano stati recuperati al Pd voti che erano
finiti a Forza Italia o a Grillo. Perché il voto al Pd per molti è stato un
voto per respingere il peggio, in un momento di grande sofferenza e confusione
della società italiana. Non vorrei li identificassimo tutti con Renzi,
sono anche figli della storia della sinistra.
Tocca a noi adesso convincere che ci sono altri modi per respingere il
peggio: assai più difficili, nei tempi più lunghi, ma ben altrimenti efficaci
per avviare la ricerca di una reale alternativa. E qui veniamo al che fare
nostro, di noi sinistra diffusa o organizzata in precari partiti nati
dalle ceneri di altri partiti. A me l’esperienza della lista Tsipras, nonostante
i tanti errori che l’hanno accompagnata, è parsa positiva. Lo dimostrano
anche i dati elettorali: il risultato è stato ovunque superiore alla somma
dei voti di Rifondazione e di Sel, segno che ci sono forze disponibili che
non vanno sprecate e che i partiti esistenti dovrebbero essere in grado di
associare al processo di ricostruzione della sinistra italiana evitando
di chiudere la ricerca nei rispettivi recinti. Teniamo conto che queste
forze sono molto più numerose dei dati elettori: laddove l’esistenza della
lista di Tsipras era conosciuta (le grandi città) le nostre percentuali
sono state il doppio di quelle raggiunte in periferia dove non è arrivata
alcuna comunicazione.
Fra le forze aggregate alla lista Tsipras ci sono come sappiamo molti di
quei micromovimenti quasi sempre locali, che si autorganizzano ma
restano frammentati. Sono una delle ricchezze specifiche del nostro
paese, dove c’è per fortuna ancora una buona dose di iniziativa sociale. Questa
presenza sul territorio è la base da cui ripartire, intrecciando
l’iniziativa dei gruppi con quella dei partiti e coinvolgendo nella lotta
per specifici obiettivi e nella costruzione di organismi più stabili in
grado di gestire le eventuali vittorie (penso all’acqua, per esempio) anche
chi ha votato Pd. Un partito in cui sono tanti ad essere con noi su molti
obiettivi:il reddito garantito; i diritti civili; la salvaguardia
dell’ambiente; la rappresentanza sindacale,… . Accompagnando questo
lavoro sul territorio con un’analisi, una riflessione comune per combattere
il primitivismo di tanta protesta, il miope basismo spesso anche teorizzato:
la sinistra ha bisogno di rappresentare i bisogni ma, diovolesse, anche
di Carlo Marx per aiutare a capire come soddisfarli.
So, per lunga esperienza, quanto sia difficile, ma penso non si debba
stancarsi di riprovare. Voglio dire che la cosa più grave che potrebbe avvenire
è di limitarsi ad una opposizione declamatoria, o peggio a rifugiarsi
nel calderone del Pd pensando di potervi giocare un qualsiasi ruolo. Il
Pci – consentitemi questo amarcord – è stato per decenni un grande partito
di opposizione, ma ha cambiato in concreto l’Italia ben più di quanto hanno
fatto i socialdemocratici italiani da sempre nel governo. E però perché,
pur stando all’opposizione, ha avuto un’ottica di governo: vale a dire si è
impegnato a costruire alternative, non limitandosi a proteste e denunce.
Ma soprattutto perché non ha ritenuto che le elezioni fossero il solo
appuntamento, e che far politica coincidesse con fare i deputati o i consiglieri
comunali.
E’ possibile, tanto per cominciare, consolidare la rete dei comitati
Tsipras? E’ possibile che Rifondazione e Sel – cui nessuno chiede
nell’immediato di sciogliersi nel movimento – si impegnino però a lavorare
assieme a loro per un più ambizioso progetto di sinistra? E’ possibile
cominciare a creare nuove forme di democrazia che ricostruiscano il rapporto
cittadino-istituzioni?
Vogliamo almeno provarci?