26 giugno 2014

ARCHEOLOGIA ED URBANISTICA,PER SALVARE IL PATRIMONIO DI ROMA

 
 
Tre Righe pubblica oggi il bellissimo intervento su Archeologia ed Urbanistica presentato alla conferenza tenutasi il 23 giugno al Campidoglio "8 domande per 8 risposte".
Sottolineamo che alla conferenza nessuno che si occupi di cultura nella giunta Marino era presente.Un'assenza a dir poco imbarazzante e irrispettosa nei confronti di quanti hanno lavorato alla Conferenza.
Ma si sa che i politici guardano con una certa diffidenza i "professoroni" di qualunque materia.Loro sono i possessori del verbo e guai a dare consigli,indicazioni,suggerimenti.
VADE RETRO!!!!.
Si spera soltanto che qualcuno nella penombra della propria stanzetta si legga questi atti e perchè no,tanto non si offende nessuno,faccia propri i suggerimenti ivi contenuti.
Per salvare Roma questo e altro
Domenico Fischetto
 
 
Archeologia e urbanistica, un rapporto fecondo
che può produrre inedite sinergie rinnovative per
Roma


Enzo Scandurra

Docente universitario


PREMESSA: DUE O TRE COSE INTORNO AL SINDACO

Che cosa mi aspetto dal Sindaco Marino e dalla sua Giunta? E cosa vorrei che facesse?
Cercherò di porre le domande così come è nello spirito del convegno. Ma prima una
premessa indispensabile e mi si scusi la schematicità con la quale la espongo dovuta al
limite di righe (e di tempo) assegnatomi.
Marino ha sconfitto, a Roma, i suoi sfidanti per quella sua aria di
estraneo ai fatti: un
chirurgo prestato alla politica, uno che ha studiato negli Stati Uniti. Refrattario alle
consorterie del Pd romano, egli è apparso addirittura “ingenuo” come il principe
Myskin,
“un uomo positivamente buono”, per usare direttamente l’espressione di Dostoevskij (da
notare che in russo l’espressione

prekrasnyi (tradotto in “buono”) indica lo splendore della
bellezza).
Da più parti (e anche dalla sua stessa parte politica) si chiede a Marino di essere più
concreto, più comunicativo con i romani e più deciso a perseguire e, conseguentemente, a
mostrare i segni del rinnovamento che invece fanno fatica a emergere anche quando ci
sono. Qualcuno propone (e anche tenta) di metterlo sotto tutela. Tuttavia proprio questa
sua estraneità al condominio della gretta politica romana è stata la principale caratteristica
che ha conquistato gli indolenti e disincantati romani. Ora questa sua caratteristica rischia
di trasformarsi in un deficit pericoloso che fa di lui facile preda di chi, da destra quanto da
sinistra, intende attaccarlo.
Io non chiederò mai a Marino di “tradire se stesso”, di normalizzarsi allo standard politico.
Quella di Marino è una virtù che in politica viene considerata una debolezza, proprio come
quegli uomini che dimostrando una sensibilità acuta, finiscono per essere bollati come
“femminucce” (con tanto di buon servito al sesso femminile). A Marino chiederei al
contrario proprio di far diventare un’arma potente questa sua “inadeguatezza” senza
inseguire il canto delle sirene della politica politichese.
Roma ha bisogno anche di sognare, di sperare, di credere che questa sua storica
indolenza possa avere un sussulto, una smentita. Non un illusionistico orizzonte di finta
modernità, ma uno scatto di orgoglio per essere all’altezza di se stessa. E Marino può fare
questo se riuscisse a rivolgersi direttamente ai romani, cercare di parlarne la lingua,
intercettare le loro speranze e le attese che qualcuno possa risollevarli da questo oblio
passato che ancora produce una ingannevole rendita (come i finti centurioni romani
davanti il Colosseo).


SULLA SEPARAZIONE DELL’ARCHEOLOGIA DALL’URBANISTICA



Fatta questa premessa entro nel merito del tema che mi è stato assegnato, quello del
rapporto tra lo stato di crisi dell’archeologia e l’urbanistica (che pure gode tutt’altro che di
buona salute)
Provo a fare una semplificazione. L’archeologia corrisponde alla memoria di una civiltà o
di una città, le tracce sedimentate, la storia evolutiva, i segni, le testimonianze, i successi


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così come i fallimenti. Possiamo assumere l’urbanistica come invece il presente di questa
città, ciò che noi vorremmo fosse. Se tale semplificazione mi è concessa e se essa regge,
allora il rapporto tra le due discipline diventa il rapporto che lega passato e presente.
Comincerò dunque dalla memoria, dal passato e dal lascito che ci perviene ai nostri giorni.
Per farlo utilizzo sin da subito alcune affermazioni del noto antropologo Ernesto De
Martino, tratte dal suo libro “

La fine del mondo”.” [] il mondo è familiare perché la
famiglia culturale umana vi ha lasciato tracce di sé, vi documenta la sua storia. Il mondo è
la storia vivente degli altri in noi, e non importa se questa vita si muove in noi ora come
abitudine [
]. Quando l’uomo esperisce davvero il limite del suo mondo e si affaccia sul
nulla perché non sa più trascenderlo (il campanile di Marcellinara), quando l’ordine delle
sue memorie culturali si dilegua, è il mondo che sprofonda

” (pp. 528/9).
E’ un’affermazione efficace a rappresentare l’importanza del “passato storico” (senza
concedere nulla alla retorica del “passato”) e il ruolo che l’archeologia può svolgere nei
confronti dell’urbanistica ad evitare quella che De Martino chiama apocalisse, ovvero il
“vuoto della storia”.
Il “Progetto Fori” elaborato dall’Assessore Caudo, ad esempio, ha una straordinaria spinta
propulsiva volta ad affrontare i problemi del presente (spazio pubblico, traffico, stare
insieme) attraverso il recupero della memoria storica (i passaggi, la centralità dell’area,
ecc.). Qui archeologia e urbanistica possono incontrarsi e generare forme inedite di
rinascimento urbano conferendo senso a quelle soluzioni che si riallacciano al “mondo
domestico”. Il passato perduto costituisce in tal senso una indispensabile fonte di
informazione che illumina il presente, fornisce i punti di riferimento urbanistico cui orientare
il progetto, ovvero “per promuovere la prassi umana nel presente”.
In tal senso questo passato inerte ci consente un doppio movimento: orientare la prassi
urbanistica a segni che hanno organizzato il mondo domestico e “liberare” questa
memoria racchiusa in ognuno degli abitanti della città anche quando essi ne sono
depositari inconsapevoli. Al contrario, la separazione tra archeologia e urbanistica
costituisce la perdita di questo sfondo che ha una valenza collettiva e il rischio dello
sradicamento del mondo nuovo senza più riferimenti. Marcello Massenzio nel suo saggio
su De Martino afferma: “
Noi possiamo sostenere, a differenza del vecchio pastore di
Marcellinara, l’esperienza dello spaesamento, purché questa sia temporanea, a
condizione che il viaggio che ci conduce fuori dall’orizzonte consueto comporti il momento
del ritorno (all’universo) che ci è familiare, al patrimonio simbolico che fonda la domesticità
del nostro mondo

” (Roma, io aggiungo).
Queste riflessioni di (e su) De Martino dovrebbero metterci in guardia da facili suggestioni
urbane come la celebrazione di eventi straordinari, l’imitazione di effimeri modelli
internazionali, la distrazione simbolica prodotta da illusionistiche architetture che
celebrano solo se stesse, e tanti altri canti di sirene come ad esempio quelle straordinarie
fantasticherie urbane che vanno sotto il nome di
smart cities così tecnologicamente
seducenti che le stesse persone appaiono antiquate.
La domanda che pongo è la seguente: vuole il Sindaco Marino dare seguito al Progetto
Fori così come ci è stato (avaramente) illustrato in convegni quasi clandestini
dall’assessorato alla Rigenerazione Urbana? Vuole il Sindaco avviare una discussione
pubblica di tutta la città su questo cambiamento che segnerebbe una inversione di
tendenza rispetto alla prassi (internazionale) di inseguire i miti e i riti del cambiamento
continuo e della santa Innovazione che producono quella che De Martino chiama
apocalissi e fine del mondo familiare e domestico?

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La tela del patrimonio archeologico tra memoria
collettiva ed urbanistica contemporanea


Manlio Lilli

Archeologo – FORUM Salviamo il Paesaggio



Era il 1975 quando Alberto Moravia pubblicava “Contro Roma”, una raccolta di saggi di
intellettuali scandalizzati dalle condizioni nelle quali si trovava la Città. Solo un anno prima
il Vicariato aveva promosso un convegno sui mali di Roma che non passò certo
inosservato. Da quella stagione sono trascorsi quasi quarant’anni. Nei quali la città si è
allargata verso l’esterno, ma anche condensata, saturando tanti spazi al suo interno.
Scoprendo parti, anche considerevoli, delle sue fasi più antiche. Urbanistica e archeologia,
dopo decenni di lotte fratricide, hanno iniziato a confrontarsi. Purtroppo, troppo spesso, in
maniera sbagliata. Forse anche perché ognuna delle due parti ha ritenuto di inseguire il
modello “migliore” per la città. Gli uni convinti che Roma sarebbe potuta crescere,
svilupparsi, soltanto attraverso nuove costruzioni. Ovunque. Gli altri certi che la città non
potesse rinunciare a nessuna delle sue parti più antiche. Per questi motivi Roma continua
ad essere una città “sbagliata”, utilizzando la celebre definizione di Insolera. Una città
urbanisticamente disordinata, nella quale l’archeologia continua ad essere una questione
marginale. Nella quale i monumenti, le piccole e grandi aree archeologiche, sono quasi
“funghi pittoreschi”, fossili avulsi dal contesto. Spazi che quasi naturalmente, considerate
le sistemazioni nelle quali si offrono, appaiono votati al degrado.
Su questo Patrimonio agiscono, con competenze diverse, non sempre in perfetta
condivisione, attori differenti. Le due Soprintendenze archeologiche, quella Statale e
quella Comunale, l’Amministrazione comunale e quindi quelle municipali. Dalle loro
politiche evidentemente dipendono, in vario modo, le sorti di Monumenti ed aree
archeologiche. Il loro ruolo all’interno della Città.
Dei due elementi che contribuiscono alla definizione non solo spaziale della Città, cioè
urbanistica e archeologia, solo la prima si presenta con accezioni differenti, nei diversi
quadranti. Fino a mutare, anche radicalmente, spostandosi dal Centro alle Periferie. Se il
dissennato consumo di suolo ha potuto realizzarsi quasi senza contrasto al difuori della
città storica, anzi si è sviluppato progressivamente di più allontanandosi dal centro, al suo
interno si è necessariamente contenuto.

PARCO ARCHEOLOGICO CENTRALE E METRO C


Così di fronte ad un’urbanistica “variabile”, c’è stata, direi c’è, un’archeologia “costante”.
Cioè sempre relegata ad un ruolo secondario. Di contorno. Che continua ad avere.
Nonostante il progetto del parco archeologico nell’area centrale. Progetto che ha avuto il
merito di riaccendere i riflettori su una questione antica. Ma in realtà mai affrontata. Uno
dei temi, il tema, di Marino in campagna elettorale diventato uno dei progetti del nuovo
sindaco. E del nuovo assessore alla Cultura Barca. A Luglio e poi ad Agosto ed anche a
Settembre le cronache romane anche dei maggiori quotidiani nazionali hanno contribuito a
dare il giusto risalto alla questione. Che continua ad articolarsi in una serie di successive
pedonalizzazioni. E sull’intenzione di smantellamento della fettuccia di via dei Fori
imperiali. Sfortunatamente con l’aggiunta della Metro C. Dei cantieri in via Sannio,
piazzale Ipponio, largo Celimontana e via dei Fori imperiali. Cantieri invasivi che a dispetto
delle rassicurazioni, hanno provocato l’abbattimento di numerosi alberi, la distruzione
almeno del belvedere Cederna. Oltre che la messa in pericolo di tanti monumenti antichi.
Dalle mura aureliane al tempio di Venere e Roma. Dalle sostruzioni del tempio di Claudio
alla Basilica di Massenzio. Ora, in attesa che si chiarisca quale sia il progetto del parco

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archeologico, che cosa preveda la sua realizzazione e quali siano le modalità con le quali
si pensa di portarlo a compimento, rimane incerta la sorte dei resti evidenziati nei
sondaggi preventivi. A partire da quelli rilevati nei cantieri di via La Spezia e di piazza San
Giovanni.

MONUMENTI LIMITROFI AL PARCO ARCHEOLOGICO CENTRALE


Segnalo a questo proposito come le attenzioni che si promettono per i Fori, non sembrino
riguardare le aree immediatamente vicine. Per le quali sarebbero indispensabili interventi
di vario impegno. In alcuni casi improcrastinabili. Come nel caso della
Meta Sudans, la
monumentale fontana di età flavia di forma conica i cui resti sono visibili tra il Colosseo e
l’arco di Costantino. Monumento di straordinaria rilevanza ma sostanzialmente ignoto a
turisti e passanti. Mancando perfino di un cartello che ne fornisca almeno le formazioni
primarie. Come nel caso delle Terme di Tito, i cui resti sono visibili lungo la scarpata,
affacciata su via dei Fori imperiali, che dall’altezza della fermata della metro B raggiunge
piazza del Colosseo trovano nel piazzale del Colosseo. Anche qui manca qualsiasi tipo di
indicazione sulla loro esistenza. Non solo. Il loro stato di conservazione è quanto mai
precario. Continui sono i distacchi di muratura delle strutture ed il loro scivolamento verso
il marciapiede.
L’impressione è che la gran parte dei monumenti si trovi in un limbo infinito, nel quale si
oscilla tra l’”invisibilità” e il suo connubio con l’abbandono e il degrado. Non poche volte
causato da una assoluta mancanza di decoro. Il timore è che a poter salvare l’uno
piuttosto che l’altro sia l’intervento speciale, piuttosto che una politica complessiva nella
quale si sono stabilite priorità. Si sono programmate scadenze.
E’ sufficiente dilatare il campo di osservazione, “uscendo” appena dal perimetro del più
grande parco archeologico del mondo, per verificare lo stato di conservazione del
Patrimonio archeologico romano. I resti delle terme di Traiano e il cantiere della Domus
aurea al Colle Oppio, sono luogo di sosta di senza tetto. E’ stato documentato più volte
anche negli ultimi mesi. Il parco che “lega” i monumenti, ormai da anni è un luogo di
abbandono. Gli importanti lavori di restauro che riguardano parti dell’impianto termale e la
residenza neroniana, per la quale come ha dichiarato il ministro Franceschini sono
necessari ulteriori 31 milioni di euro, restituiranno ambiti antichi sofferenti. Ma di certo non
contribuiranno a sanare quel vuoto esistente. Soprattutto non potranno offrire quel senso
d’insieme, necessario anche alla comprensione dei monumenti, che manca. Che continua
a mancare. L’ex assessore Barca agli inizi dello scorso marzo presentò un progetto che
riguardava anche quest’area del Colle Oppio. L’idea centrale era quella di (ri)creare una
sorta di Grand Tour. Il Grande Programma europeo Roma Grand Tour. Con l’obiettivo di
“ricucire, ricomporre e riunificare la tela del Patrimonio archeologico di Roma Capitale in
un percorso unitario di fruizione e di conoscenza”. Un progetto che prevedeva, oltre a due
siti periferici, otto centrali. Parco del Celio, Colle Oppio, Tor de Conti, Mercati di Traiano,
Campidoglio, Teatro Marcello, via dei Cerchi e Circo Massimo. L’elemento qualificante per
la Barca? Il fatto che ogni luogo avrebbe simboleggiato un tema. Così il Campidoglio la
vita pubblica, il teatro di Marcello l’arte, il Colle Oppio il benessere, il Celio gli stili di vita, i
Mercati di Traiano il progresso e il Circo Massimo il tempo libero. Non credo che quello
fosse l’approccio migliore a problemi anche contrapposti tra loro. Sono convinto che i
simboli finiscano per produrre l’effetto opposto rispetto a quello sperato. Non
identificazione, ma genericità. Confusione. In ogni caso sarebbe utile sapere se quel
progetto è ancora in itinere.

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I CASI DEL CIRCO MASSIMO E DELL’ANTIQUARIUM COMUNALE DEL CELIO


Quel che è certo è che tra gli otto luoghi scelti dall’ex assessore alla Cultura, almeno due
presentano caratteri di così evidente urgenza da sembrare improcrastinabile un intervento
risolutore.
Il primo luogo sul quale sembra doveroso un intervento è il Celio. Più propriamente il
vecchio Antiquarium, abbandonato nel 1939 a seguito delle lesioni provocate dalla
realizzazione dei lavori della Metro B. Recentissimamente il Sovrintendente comunale ai
Beni Culturali, Presicce, ha parlato di un progetto da 25 milioni di euro per la struttura
pericolante intorno alla quale anche quest’anno si svolgerà “All’ombra del Colosseo”, uno
degli eventi dell’Estate Romana. L’ambizione di recuperare quell’edificio per farne ”una
sorta di terrazza sovrastante ad una delle zone più importanti del centro”, legittima. La
necessità di strapparlo al degrado, un’urgenza. Sapere quanto il progetto di riutilizzo sia
avanzato, utile.
Il secondo è costituito dal Circo Massimo che continua ad essere per almeno due terzi del
suo ingombro uno spazio “per tutto”. Per concerti. Per festeggiare vittorie sportive. Per
eventi di ogni tipo. Oltre che per fare footing, passeggiare, giocare a pallone. Insomma
uno spazio multifunzionale nel senso deteriore dell’accezione, del quale sembra essersi
quasi persa l’”antichità”. A meno che non si raggiunga l’estremità dell’invaso, verso la Fao.
Definirne la funzione, recuperandone quella originaria, è un’operazione che necessita di
attenzione. Comunque un’operazione da farsi.
In ogni caso la sensazione è che Roma sia ancora incapace di legare il tessuto urbano
con i tanti buchi del presente come del passato. Dall’area sacra di Largo Argentina ai resti
del cd. Auditorium di Adriano in Piazza Venezia.

LA QUESTIONE “BUCHI”


Inizio con quello di Piazza Venezia, come lo definì il sindaco Alemanno. Il buco, realizzato
nell’ambito dei lavori per la Metro C, che ha permesso la scoperta dei resti del cd.
Auditorium di Adriano. Resti di grandissima rilevanza. A lungo rimasti invisibili, perimetrati
da una recinzione che non lasciava quasi vedere dentro. A lungo, anche questi, rimasti
senza alcuna indicazione. Nel novembre del 2013 la Soprintendenza archeologica ha
bandito un concorso di idee che prevedeva la valorizzazione e la fruizione dell’area.
Sembrava l’avvio di un esito finalmente felice. Invece il 25 febbraio la sospensione del
procedimento. E’ così che l’area archeologica continua ad essere un buco.
Da un buco all’altro. Da Piazza Venezia a piazza della Moretta. Dove tra via Giulia e il
Liceo Virgilio, nel 2009, nell’ambito della risistemazione del “buco”, nel corso delle indagini
preliminari alla realizzazione di un parcheggio multipiano interrato, con annessi albergo,
ristorante e un “urban center”, si rinvengono gli stabula augustei. “Una scoperta
importantissima per la topografia di Roma”, come affermarono dalla Soprintendenza
archeologica di Roma. Tanto importanti da comportare la loro musealizzazione e quindi
una modifica al progetto. Sembra che si stia scrivendo una nuova storia nella quale il
nuovo non debba comportare l’obliterazione dell’antico. Non è così. In un‘intervista al
Corsera del 1 giugno il direttore generale del Mibac, Federica Galloni dichiara che “il
rinterro è necessario per proteggere i resti, qualsiasi cosa si realizzi sopra”. Mancando le
risorse necessarie, sembra l’unica soluzione praticabile. Dunque area di sosta più piccola
e resti rinterrati. In attesa di una progettazione condivisa degli spazi pubblici. Il dubbio che
non si tratti della soluzione migliore per la città esiste.
Le risposte a questi quesiti, alcuni tra i tanti a dire il vero, avranno il merito di fare
chiarezza. Di rassicurare e rasserenare. Di far capire che la Città non può fare a meno del
suo patrimonio storico-archeologico. Non vuole rassegnarsi alla conservazione di tanti

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“buchi”. Come recita lo slogan sulla recinzione del cantiere di via della Moretta, le scelte
che si faranno serviranno “Per fare Roma più bella”. Per riuscire a farlo ascolterà chi ha
idee. Franco Purini teorizza che “le città sono individui portatori di un’intenzione”. In fondo
quel che si chiede oggi, con questo incontro a più voci, è proprio questo. A prescindere
dalle singole criticità. Dalle domande e dalle risposte. Capire quale sia questa intenzione.

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