15 ottobre 2014

KOBANE COME FAMAGUSTA?

 
Il sacrificio dei curdi di Kobane,che in questi giorni ,in queste ore stanno immolando la loro vita ,nell' indifferenza dell'opinione pubblica mondiale e italiana in particolare (a proposito c'è qualcuno che si è accorto che la Presidenza dell’Unione Europea è dell'Italia?),contro le armate dell'IS (Stato Islamico) ha qualcosa di mistico,di eroico ,di sovrannaturale.

Le mogli che imbracciano i fucili dei mariti morti o che si improvvisano kamicaze,per impedire che le orde dei fanatici islamisti invadano la loro città,i combattimenti strada per strada,palazzo per palazzo ,esaltano il coraggio e il sacrificio dei curdi di Kobane.Le notizie riportate dai tg e dai media locali sono scarne. Non si comprende come mai le truppe turche schierate ad un tiro di schioppo da Kobane non intervengano,malgrado la forte protesta dei curdi turchi che chiedono a gran voce un intervento che potrebbe salvare la città e il martirio finale dei propri eroici combattenti.

Perchè la sorte di questi uomini e donne è segnata. La storia purtroppo si ripete tragicamente:il martirio dei curdi di Kobane ci riporta alla mente quella dei veneziani che difesero fino all'ultimo la città di Famagusta contro l'avanzata dell'orda turca e una volta caduta la città furono tutti decapitati.
Ci chiediamo se veramente il mondo occidentale,cd.civilizzato,può ancora continuare ad assistere passivamente a questo massacro ed  non intervenire in maniera più decisa per evitare un martirio finale annunciato?

Qui di seguito riportiamo un articolo di approfondimento pubblicato nella newsletter di AffarInternazionali,per capire il motivo per cui la Turchia non interviene in difesa della città di Kobane.

Raffaele Fischetto
Medio Oriente
La Turchia osserva il massacro dei curdi di Kobane
Marco Guidi
09/10/2014
più piccolopiù grande
Trattare con i curdi, diffidare dei curdi, aver bisogno dei curdi. E al tempo stesso sostenere i sunniti, ma diffidare, finalmente, dei sunniti estremisti, senza però favorire il regime di Bashar al-Asad sul cui abbattimento si continua a contare.

I resti di quella che fu definita la politica neottomana della Turchia sono lì visibili a tutti, ma il presidente Recep Tayyip Erdoğan e il suo primo ministro Ahmet Davutoglu non sanno apparentemente che pesci pigliare, paiono quasi ottemperare al famoso verso dantesco “che pentere e volere insiem non puossi, per la contraddizion che nol consente”.

E di contraddizioni la politica estera turca ne annovera ormai molte, troppe forse. Dai tempi in cui Davutoglu, allora ministro degli Esteri, sosteneva con decisione il tema di “nessun problema con vicini” a quelli di oggi pare passato un secolo. Ma forse sono proprio le contraddizioni, le volontà inespresse (o espresse solo in parte) che condizionano e riducono praticamente all’immobilismo, almeno fino a ora, la Turchia.

Erdoğan ha bisogno dei curdi turchi
Da tempo Erdoğan sta conducendo trattative con i curdi del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (Pkk), per arrivare a una qualche forma di accordo e in queste trattative è coinvolto in prima persona il leader del Pkk Abdullah Öcalan, rinchiuso nel carcere dell’isola-fortezza di Imrali nel Mar di Marmara.

Al contempo però, le visite al prigioniero da parte soprattutto degli uomini del Mit, il servizio segreto turco, ma anche di avvocati e politici ormai non si contano.

Il fatto è che Erdoğan ha bisogno dei curdi di Turchia. Ne ha bisogno per arrivare finalmente a una pacificazione, ma anche perché per il suo progetto di cambio della costituzione in senso gollista - o forse putiniano - gli servono i voti del partito dei curdi dal momento che né il vecchio partito di Ataturk né la destra dura che originò il fenomeno dei lupi grigi (do you remember Mehemet Alì Agca?) voteranno a favore della sua riforma costituzionale.

Legami con i curdi iracheni
Erdoğan ha stabilito legami anche con i curdi iracheni di Erbil, di fatto indipendenti, almeno fino a prima dello scoppiare del conflitto con l’autoproclamatosi stato islamico (Is).

A tenerli vicini è una relazione che va dal petrolio alla richiesta di controllo dei guerriglieri del Pkk rifugiati in territorio curdo-iracheno. E poi c’è l’opinione pubblica turca (quella non curda, quella non alevita, quella di destra, comunque una maggioranza anche se meno grande di quello che Erdoğan afferma spesso) da tenere tranquilla.

Insomma, la Turchia, da cui, non dimentichiamolo, sono passate migliaia di volontari che sono andati a ingrossare non solo le fila dell’Is ma anche dei qaidisti tipo Al-Nusra, deve cercare di far quadrare un cerchio, cosa notoriamente impossibile in geometria e difficilissima in politica.

Battaglia di Kobane
C’è poi il problema attuale dei curdi di Siria, i quali sono in gran parte aderenti all’Unione democratica curda (Pyd), partito legatissimo al Pkk. I soldati turchi stanno lì, con le armi al piede, a osservare la disperata battaglia di Ayn al-Arab, in curdo Kobane, assalita dai militanti fondamentalisti.

Però i militari della mezzaluna non stanno affatto fermi quando si tratta di bloccare i curdi che vogliono accorrere in aiuto dei loro fratelli a poche centinaia di metri al di là della frontiera e bloccano uomini, armi, viveri e medicinali.

Il perché è chiaro: Erdoğan teme la sola idea di una zona autonoma curda in Siria in corrispondenza della frontiera turca, di una zona autonoma federata con il Pkk, con i combattenti dell'unità di difesa del popolo (Ypg), a far causa comune con quelli del Pkk e, in futuro, chissà a unirsi anche territorialmente con i peshmerga di Erbil e ormai anche di Kirkuk.

È davvero strano che i commentatori non abbiano colto che in tutto questo caos i curdi iracheni sono riusciti a riconquistare quella che loro giudicano la loro vera capitale con buona pace di Erbil e di Suleyimayiah, capitale oltretutto ricchissima di petrolio.

Zona cuscinetto lungo la frontiera turco-siriana
In questa confusione, in queste opposte tensioni a dire il vero la Turchia un piano ce l’ha e l’ha esposto al leader del Pyd, Salih Muslim. Si tratta della richiesta che i curdi di Siria rinunciano a ogni idea di autonomia, che appoggino la coalizione (laica?) anti Asad e combattano al suo fianco contro il regime di Damasco fino alla cacciata del regime alawita.

E, infine, che accettino la creazione di una zona-cuscinetto che corra lungo tutta la frontiera turco-siriana con l’eccezione di Bab el-Awa e Yayladagi, che sono più a ovest fuori dalla zona curda. Una zona cuscinetto che ufficialmente dovrebbe estendersi solo in territorio turco, ma che in realtà dovrebbe sconfinare anche in Siria, cioè in territorio curdo.

In questo quadro si capisce benissimo perché i turchi assistano senza far nulla, anzi ostacolando chi vorrebbe fare, al massacro di Kobane e a prossimi futuri massacri di curdi, limitandosi ad accogliere le decine e decine di migliaia di profughi in fuga.

In attesa dell’arrivo della commissione Usa che dovrà definire modi e mezzi (e magari tempi) dell’azione congiunta di americani, inglesi, francesi, turchi, sauditi, giordani, iracheni, qatarioti, bahireniti, emiratini e chi più ne ha più ne metta.

Intanto però i curdi di Turchia manifestano e muoiono sotto il fuoco della polizia turca. Una situazione questa che potrebbe portare non solo alla fine delle trattative con il Pkk, ma anche con i partiti politici curdi. Il che per Erdoğan e i suoi fedeli potrebbe rappresentare un grave problema.

Anche se forse l'opera di Macchiavelli non è molto diffusa in lingua turca, qualcuno dovrebbe spiegare al presidente turco che l’incertezza sulla via da seguire è a volte peggio del seguire una via sbagliata. Il che potrebbe essere un insegnamento buono anche per un certo inquilino di una casa Bianca a Washington.

Marco Guidi è giornalista esperto di Medio Oriente e Islàm.

Nessun commento:

Posta un commento