TIMBUKTU
(titolo originale Le chagrin des oiseaux)
Culture a confronto
La vicenda è ambientata nel 2012 quando un
gruppo di jiahdisti si impossessa del nord del Mali e di Timbuktu. Ed è proprio questo il brutto titolo italiano di un bel film
intenso e impegnativo, in originale Le
Chagrin des Oiseaux, appellativo molto più adatto e poetico. Abderrahmane Sissako,
il regista e produttore indipendente nato in Mauritania, mette in atto
un’inconscia demitizzazione del “luogo” urbano poiché di Timbuktu sono
rappresentate solo poche case di terra nel deserto (ma forse è un piccolo
villaggio?) e non certo una città vitale come potremmo pensare della cosiddetta
“perla del deserto”. Da un lato, il territorio maliano è molto più ricco e
variegato e sarebbe riduttivo raffigurarlo solo con una città, dall’altro le
vicende raccontate nel film potrebbero svolgersi, purtroppo, in molte altre zone
analoghe. In Timbuktu è anche
rappresentata la differenza tra culture: quella nera, quella araba e quella
tuareg, così come modi diversi di essere religiosi. Non è un caso che ci sia bisogno del traduttore tra le
varie persone coinvolte nella vicenda. In contrapposizione al fanatismo
jihadista viene descritto il modo di essere religioso di Kidane, pastore tuareg, che vive con la moglie Satima e la loro figlia Toya sotto una tenda nel
deserto e che, in un certo senso, accetta con rassegnazione, di pagare il
prezzo di una condanna troppo dura. La storia si svolge come in un congegno
teatrale, in tre scene che si alternano: la tenda nella duna, l’oasi nel
deserto e l’agglomerato urbano. I processi, le lapidazioni, le fucilazioni
avvengono tutti attorno a queste quattro case con cinque o sei persone. Qesto
film mi ha evocato alcune vecchie pellicole di Pier Paolo Pasolini per
l’essenzialità del racconto, per i tempi lenti quasi dilatati, per alcune simbologie
e per la durezza, senza mai compiacimento della violenza.
I detentori del potere sono dipinti nelle
loro contraddizioni: non si può fumare ma il capo jihadista fuma, è vietato il
calcio ma lui parla di Zidane e Messi; fanno pensare alla famosa frase che una
volta si attribuiva ai prelati cattolici “fate quello che dico ma non fate quello
che faccio”. Molto bella è la scena muta dei ragazzi che giocano una partita di
calcio senza pallone. La fotografia di Sofian El
Fani è di
straordinaria bellezza e il film ha già
vinto il Premio della Giuria
Ecumenica di Cannes, ha trionfato alla 40ma edizione dei César di Parigi ed è
stato candidato all’Oscar come migliore film straniero del 2015 (dove purtroppo
non ha vinto).
Vorrei concludere ricordando il progressivo
aumento della gravità della situazione femminile. Le donne sono costrette a
seguire sempre nuove regole repressive: si vede una donna punita con 40
frustate solo perché cantava, un’altra lapidata perché faceva l’amore senza
essere sposata. I jiahdisti arrivano a imporre alle donne (oltre ai noti veli) di
indossare sempre scarpe e guanti anche quando queste svolgono lavori manuali
fondamentali per la loro sopravvivenza come pulire il pesce destinato alla
vendita! In questo contesto ci sono solo due personaggi simbolico-trasgressivi:
Zadou, la donna matta
con i suoi fiocchetti colorati e soprattutto con la sua gallina-compagna di
vita, e il salvatore con il casco che
fugge in moto – così come la gazzella che scappa correndo verso la libertà…chissà
se si salveranno?
Ghisi Grütter
è un film molto interessante, solo un po' pesante secondo me...
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