28 febbraio 2015

Recensione film TIMBUKTU di Abderrahmane SISSAKO

Locandina italiana Timbuktu


TIMBUKTU

(titolo originale Le chagrin des oiseaux)


 

 

Culture a confronto



La vicenda è ambientata nel 2012 quando un gruppo di jiahdisti si impossessa del nord del Mali e di Timbuktu. Ed è proprio questo il brutto titolo italiano di un bel film intenso e impegnativo, in originale Le Chagrin des Oiseaux, appellativo molto più adatto e poetico. Abderrahmane Sissako, il regista e produttore indipendente nato in Mauritania, mette in atto un’inconscia demitizzazione del “luogo” urbano poiché di Timbuktu sono rappresentate solo poche case di terra nel deserto (ma forse è un piccolo villaggio?) e non certo una città vitale come potremmo pensare della cosiddetta “perla del deserto”. Da un lato, il territorio maliano è molto più ricco e variegato e sarebbe riduttivo raffigurarlo solo con una città, dall’altro le vicende raccontate nel film potrebbero svolgersi, purtroppo, in molte altre zone analoghe. In Timbuktu è anche rappresentata la differenza tra culture: quella nera, quella araba e quella tuareg, così come modi diversi di essere religiosi. Non è un caso che ci sia bisogno del traduttore tra le varie persone coinvolte nella vicenda. In contrapposizione al fanatismo jihadista viene descritto il modo di essere religioso di Kidane, pastore tuareg, che vive con la moglie Satima e la loro figlia Toya sotto una tenda nel deserto e che, in un certo senso, accetta con rassegnazione, di pagare il prezzo di una condanna troppo dura. La storia si svolge come in un congegno teatrale, in tre scene che si alternano: la tenda nella duna, l’oasi nel deserto e l’agglomerato urbano. I processi, le lapidazioni, le fucilazioni avvengono tutti attorno a queste quattro case con cinque o sei persone. Qesto film mi ha evocato alcune vecchie pellicole di Pier Paolo Pasolini per l’essenzialità del racconto, per i tempi lenti quasi dilatati, per alcune simbologie e per la durezza, senza mai compiacimento della violenza.
I detentori del potere sono dipinti nelle loro contraddizioni: non si può fumare ma il capo jihadista fuma, è vietato il calcio ma lui parla di Zidane e Messi; fanno pensare alla famosa frase che una volta si attribuiva ai prelati cattolici “fate quello che dico ma non fate quello che faccio”. Molto bella è la scena muta dei ragazzi che giocano una partita di calcio senza pallone. La fotografia di Sofian El Fani è di straordinaria bellezza e il film ha già vinto il Premio della Giuria Ecumenica di Cannes, ha trionfato alla 40ma edizione dei César di Parigi ed è stato candidato all’Oscar come migliore film straniero del 2015 (dove purtroppo non ha vinto).

Vorrei concludere ricordando il progressivo aumento della gravità della situazione femminile. Le donne sono costrette a seguire sempre nuove regole repressive: si vede una donna punita con 40 frustate solo perché cantava, un’altra lapidata perché faceva l’amore senza essere sposata. I jiahdisti arrivano a imporre alle donne (oltre ai noti veli) di indossare sempre scarpe e guanti anche quando queste svolgono lavori manuali fondamentali per la loro sopravvivenza come pulire il pesce destinato alla vendita! In questo contesto ci sono solo due personaggi simbolico-trasgressivi: Zadou, la donna matta con i suoi fiocchetti colorati e soprattutto con la sua gallina-compagna di vita, e il salvatore con il casco che fugge in moto – così come la gazzella che scappa correndo verso la libertà…chissà se si salveranno?

Ghisi Grütter

1 commento:

  1. è un film molto interessante, solo un po' pesante secondo me...

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