21 luglio 2015

Recensione film:BABADOOK di Jennifer Kent

 Locandina Babadook
Amore di mamma
 
In generale non sono un’appassionata di film dell’horror ma ho voluto vedere BABADOOK perché mi sono incuriosita per l’ottima recensione che Roberto Nepoti ha scritto su “La Repubblica” citando perfino Shining, (il film di Kubrick che, comunque, ho amato di meno).
Amelia (una molto brava Essie Davis) vive sola con Samuel, il figlio di sei anni (uno strepitoso Noah Wiseman). Il marito è morto in un incidente d’auto proprio per accompagnare Amelia a partorire: una triste storia di solitudine che il bambino vive come diversità.
Il film è girato prevalentemente nell’interno - come molti di questi film tra l’horror e lo psicologico - di una casetta minimalista della suburbia dove, presumibilmente, vive la midlle-class australiana. L’inizio è molto promettente, gli interni arredati con cura, la fotografia ben studiata: tutto è giocato su allusioni e sono mostrate solo le stranezze del bambino affascinato più dai giochi di prestigio e dalle bizzarre armi che crea lui stesso, piuttosto che da giochi con altri bambini (ricordate le stranezze che faceva Harold per attrarre l’attenzione della madre in quel delizioso film di Hal Ashby Harold e Maude del 1971?). Il thriller psicologico è impostato così bene che la mia compagna di cinema, molto più preparata ed esperta di me, ha addirittura evocato Repulsion di Polanski del 1965, con una giovanissima e affascinate Catherine Denevue.
La regista Jennifer Kent in BABADOOK man mano accelera fino a farci perdere il senso del dramma delle difficoltà e delle proiezioni psicologiche di una vita a due sempre più emarginata (lui lascia la scuola, lei si dà malata al lavoro…) per esagerare con la spettacolarizzazione di figure grottesche (Nosferratu con gli artigli) nelle scene horror, dove sembra che l’urlo sia sempre più forte un po’ come i fuochi d’artificio che aumentano in crescendo. E qui giù con tutto  il repertorio: il coltellone da macellaio, le lotte, le fughe, i ripostigli, l’innocente cagnolino…
Le parti quindi si ribaltano: è il bambino adesso a “prendersi cura” della madre malata che fa e dice cose strane. Alla fine invece dell’esorcismo sarà l’amore di mamma a vincere sul mostro! Mi chiedo perché la malattia psichiatrica – se questo era l’intento della Kent - debba per forza assomigliare all’“essere posseduti” dal demonio.


Ghisi Grütter

Nessun commento:

Posta un commento