Avevamo già pubblicato l'opinione di Pierluigi Adami sull'accordo di Parigi.Oggi proponiamo ai nostri lettori una sintesi dell'accordo, sempre a cura di Pierluigi,che ci permette di leggere e capirne meglio i risultati.
da www.ecologistidemocratici.it
L’accordo di Parigi sul clima in 10 punti
Analisi
del testo, delle sue prospettive, di quello che c’è e di quello che
manca. Delle speranze che suscita, e dei nodi irrisolti. 1. La
premessa; 2. Confermato l’obiettivo +2°, anzi di più; 3. La quantità di
emissioni di gas serra; 4. Obiettivi nazionali sulle emissioni più
ambiziosi; 5. Il fattore tempo: o subito o sarà tardi; 6. Sostegno ai
paesi in via di sviluppo; 7. Non solo mitigazione, anche adattamento; 8.
La sfida si vince insieme; 9. Le omissioni più evidenti; 10.
Conclusioni
1.La premessa
Come è noto, nella 21° Conferenza COP21, che ha riunito a Parigi quasi 200 stati, membri della Convenzione Quadro sui Cambiamenti Climatici dell’ONU – UNFCCC, è stato raggiunto un Accordo globale sul clima. L’Accordo è composto da una premessa, 140 punti e 29 articoli. La ratifica formale dei singoli stati dovrà essere depositata auspicabilmente entro il 22 aprile 2016 quando vi sarà la cerimonia ufficiale dell’Accordo presso le Nazioni Unite. L’Accordo sarà formalmente in vigore trenta giorni dopo che almeno gli stati rappresentanti il 55% del totale delle emissioni di gas serra avranno depositato le firme (Art. 21). Per quanto riguarda la riduzione delle emissioni, diventerà operativo solo a partire dal 2020, anche se, come vedremo, sono previste azioni già nel quadriennio 2016-2020.
Nel testo la Parti “riconoscono che i cambiamenti climatici rappresentano una urgente e potenzialmente irreversibile minaccia per l’umanità e per il pianeta. Riconoscono altresì che una profonda riduzione delle emissioni di gas serra è richiesta al fine di raggiungere gli obiettivi dell’Accordo e sottolineano la necessità dell’urgenza nella lotta ai cambiamenti climatici.”
È una premessa importante, se si considera la serie di falliti tentativi, di mancate sottoscrizioni di accordi, avvenute dopo la prima conferenza di Rio del 1992. Con il risultato che, da allora ad oggi, le emissioni di gas serra sono aumentate del 48%, nel disinteresse di molti governi, a iniziare da quello USA al tempo di Bush. La Cina, dal 1992, ha addirittura aumentato le sue emissioni del 240%.
Questa volta l’Accordo di Parigi è stato sottoscritto anche dai paesi più inquinatori, e perciò in molti lo hanno definito “storico”. Suscita molte speranze, ma non mancano le omissioni e i compromessi, che comunque non sminuiscono il valore complessivo dell’intesa raggiunta.
2.Confermato l’obiettivo +2°C, anzi di più
L’Accordo ha l’ambizione di perseguire un “percorso di emissioni aggregate compatibile con l’obiettivo di contenere il riscaldamento globale ben al di sotto dei +2°C rispetto all’era preindustriale, cercando tutti gli sforzi per limitare il riscaldamento a +1,5°C” (Art. 2 dell’Accordo). Questa dizione ha consentito di mediare le posizioni tra chi chiedeva il limite più ambizioso a +1,5°C, come la UE e i paesi insulari, preoccupati per l’innalzamento del livello dei mari, e l’Arabia Saudita, che invece osteggiava il limite a +1,5°C. Si tratta di un punto fondamentale, perché la soglia dei +2°C, secondo gli scienziati, è l’unica che garantisce di contenere gli effetti più gravi dei cambiamenti climatici, e di evitare l’irreversibilità del riscaldamento globale.
Sul piano dell’obiettivo a lungo termine (fine secolo), dunque, l’Accordo di Parigi ha mantenuto le aspettative. Il problema è capire se i mezzi messi in campo saranno sufficienti per raggiungerlo.
3.La quantità delle emissioni di gas serra
Al di là della condivisione degli obiettivi di lungo termine, della comprensione dell’urgenza degli interventi, della consapevolezza dei rischi, l’Accordo di Parigi non ha potuto imporre dei limiti quantitativi vincolanti alle emissioni di gas. Ad oggi, i contributi sin qui determinati dai singoli paesi (“intended nationally determined contributions”, INDC), aggregati sul totale, non sono affatto sufficienti a mantenere l’obiettivo dei +2°C. Se non ci saranno azioni di maggiore impegno, peraltro previste nell’Accordo, l’aumento di temperatura a fine secolo potrebbe raggiungere o superare i +3°C. Questa grave mancanza è esplicitamente riconosciuta già nella premessa: “(le Parti) Enfatizzano con seria preoccupazione l’urgente necessità di intervenire per colmare la significativa lacuna” ossia la non compatibilità degli impegni presi dagli stati con l’obiettivo di restare “ben al di sotto” dei +2°C. La preoccupazione è ribadita anche nel punto 17: “(le Parti) Notano con preoccupazione che il livello aggregato stimato di gas serra nel 2025 e 2030, risultante dai contributi nazionali INDC, non ricade entro gli scenari a 2°C, ma piuttosto conduce ad un livello previsto di 55 miliardi di tonnellate di CO2 nel 2030” mentre, per mantenere almeno l’obiettivo dei +2°C, bisognerebbe giungere “a ridurre le emissioni sino a 40 miliardi di tonnellate di CO2” (secondo l’IPCC tale limite è 38 miliardi, ndr). I sottoscrittori dell’Accordo pertanto riconoscono che “uno sforzo di riduzione molto maggiore delle emissioni sarà richiesto, rispetto a quanto determinato nei contributi nazionali INDC, al fine di contenere il riscaldamento al di sotto dei +2°C rispetto all’era pre-industriale.”
4.Obiettivi nazionali sulle emissioni più ambiziosi
C’è piena consapevolezza che, ad oggi, l’accordo di Parigi non è sufficiente. Per questo, al punto 20, l’Accordo “Decide” di raccogliere gli “sforzi collettivi” espressi in nuovi contributi dagli stati, al fine di raggiungere l’obiettivo a lungo termine (di 2° o 1,5° entro il 2100). Verranno definiti dei criteri molto stringenti, sia nel metodo sia nei contenuti, che gli Stati dovranno seguire nel sottomettere i nuovi contributi nazionali INDC, da presentare almeno ogni 5 anni a partire dal 2023 (Art. 4, Art. 6, Art. 14). I prossimi meeting annuali COP serviranno come momento di verifica del progresso, suffragato dai dati aggiornati sulle emissioni forniti dagli Enti Sussidiari Tecnici e Scientifici. Anche i report dell’IPCC (il prossimo, AR6 sarà pubblicato nel 2018-19) serviranno a delineare il quadro aggiornato. Entro il 2020, quando entreranno in vigore gli impegni di riduzione delle emissioni di gas serra, tutti gli stati dovranno fornire i loro obiettivi di emissioni sia al 2050 sia al 2100. Pertanto, l’attuale definizione dei contributi nazionali è solo il primo passo di un percorso che dovrebbe portare a impegni più forti, compatibili con l’obiettivo 2°C. La data della prima revisione, prevista solo nel 2023, lascia tuttavia forti perplessità.
5.Il fattore tempo: o subito o sarà tardi
Non è solo una questione di quantità di emissioni, anche il fattore tempo è critico. Più tardi si ridurranno le emissioni, più si allontana la possibilità di contenere il surriscaldamento entro i +2°C. Secondo i modelli climatici compatibili con l’obiettivo dei +2°C, servono riduzioni immediate delle emissioni da parte dei paesi industrializzati e riduzioni da subito nel tasso di crescita delle emissioni dei paesi in via di sviluppo, Cina, India e Iran compresi. Questi paesi dovrebbero raggiungere il loro picco di emissioni non oltre il 2025. Nell’Accordo manca proprio una data precisa nel picco di emissioni dei paesi in via di sviluppo (la Cina ha proposto “non oltre il 2030”, comunque tardi), ma all’Art. 4 dell’Accordo le Parti si impegnano a cercare di raggiungere il picco delle emissioni “il più presto possibile”. L’obiettivo di medio termine è di raggiungere entro il 2050 un sostanziale equilibrio tra le emissioni di gas serra per effetto antropico e la capacità di assorbimento di CO2 degli ecosistemi terrestri (oceani e foreste in particolare) per ottenere poi una progressiva rimozione di CO2 dall’atmosfera (ossia si assorbe anidride carbonica più di quanta se ne emette). Secondo i dati scientifici, ciò vuol dire far scendere le emissioni entro il 2050 sotto i 20 miliardi di tonnellate di CO2 all’anno. Livello ottenibile solo con riduzioni molto drastiche e immediate delle emissioni.
Il testo dell’Accordo di Parigi riconosce la criticità del fattore tempo, e richiede su base volontaria un’accelerazione della riduzione delle emissioni di gas serra già nel periodo 2016-2020 (punti 106 e segg.). È prevista l’attivazione di una serie di strumenti (informativi, organizzativi, tecnologici, finanziari, amministrativi) che facilitino agli stati gli sforzi per mettere in atto politiche innovative, buone pratiche per accelerale la mitigazione delle emissioni. Una prima verifica sullo stato di applicazione di questi strumenti sarà fatta già nel 2017.
6.Sostegno ai paesi in via di sviluppo
Fondamentale è il sostegno ai paesi più poveri, che non hanno mezzi né per mitigare le emissioni né per implementare strumenti di adattamento agli effetti del riscaldamento globale. La questione è già presente nella premessa: “(le Parti) Riconoscono l’urgente necessità di aumentare il sostegno finanziario, tecnologico e realizzativo verso i paesi in via di sviluppo, fornito in modo chiaro per abilitare azioni migliorative già pre-2020.” Nel testo dell’Accordo, al punto 115 c’è la decisione di sostenere gli sforzi di mitigazione delle emissioni e di adattamento dei paesi in via di sviluppo con un finanziamento di 100 miliardi di dollari l’anno (quota da ricalcolare prima del 2025), a fronte della presentazione di specifici piani di azione e chiari obiettivi, con modalità di erogazione fondi “sulla base dei risultati”. Gli interventi sono in particolare rivolti alla limitazione della deforestazione e al contenimento del degrado del territorio boschivo (punto 55).
I criteri specifici per i finanziamenti saranno presentati nella COP24 del 2018. A gestire i finanziamenti (punto 59) sono incaricati il Green Climate Fund e la Global Environmant Facility, insieme con il Fondo per i paesi in via di sviluppo e il Fondo speciale sui Cambiamenti Climatici.
L’Accordo prevede anche un trasferimento tecnologico, di ricerca, di strumenti e conoscenze, in grado di rafforzare le capacità (“capacity-building”), le competenze tecnologico-realizzative, ottimizzare i processi di questi paesi, migliorare lo scambio di informazioni, aumentare la pubblica consapevolezza, la trasparenza, anche promuovendo attività didattiche e formative. I paesi più sviluppati sono tenuti a inviare un report biennale sullo stato della cooperazione con i paesi in via di sviluppo, riportando le azioni fatte in merito al trasferimento tecnologico e di competenze (Art. 9 e 10).
Viene istituito un Comitato per il Capacity-building (punto 75), che ogni anno fornirà report sullo stato di attuazione della collaborazione tecnologico-scientifica; nella conferenza COP25 (2019) saranno raccolti i primi risultati dell’attività e saranno verificate eventuali necessità ulteriori.
7.Non solo mitigazione, anche adattamento
In parallelo con la mitigazione delle emissioni di CO2, saranno condotte attività di adattamento agli effetti più severi del riscaldamento globale, come gli eventi meteorologici estremi, a cui sono più esposti soprattutto i paesi più poveri. Le attività di adattamento sono in particolare rivolte a rafforzare la resilienza, ridurre le vulnerabilità dei territori e aumentare la comprensione dei fenomeni, puntando anche sulle conoscenze delle comunità locali (punto 123, Art. 7). Viene istituito un Fondo per l’Adattamento, mentre i criteri generali saranno affidati a un Comitato per l’Adattamento, che produrrà strategie, linee guida e piani di implementazione triennali (punto 43), fermo restando che, viste le specificità del problema sui vari territori, l’approccio sarà comunque delineato da ogni singolo stato. Ogni stato dovrà fornire, e aggiornare periodicamente, un Piano Nazionale di Adattamento ai cambiamenti climatici, nel quale descrivere le proprie priorità, i criteri, le azioni implementate, eventuali richieste di supporto (Art. 7).
8.La sfida si vince insieme
Nel punto 134 e segg. l’Accordo sottolinea l’importanza del contributo che possono fornire alla riduzione delle emissioni di gas serra altri soggetti non statali, come i membri della società civile, del settore privato, di istituzioni finanziarie, di città e altre istituzioni locali. Queste ultime possono giocare un ruolo importante sia nella mitigazione dei gas serra – si pensi al Patto dei Sindaci europei del 2010, nel quale le città s’impegnano a ridurre le emissioni del 20% entro il 2020 – sia nell’adattamento ai cambiamenti climatici, per ottenere maggiore resilienza e ridurre la vulnerabilità dei territori. Tali azioni dovranno essere inserite nell’Area Non-statale della Piattaforma di Azione Climatica[1] (punto 118).
9.Le omissioni più evidenti
Le omissioni più rilevanti riguardano l’assenza di un limite quantitativo vincolante alle emissioni, di un tempo massimo per il picco delle emissioni, e il mancato obbligo sanzionatorio per gli stati inadempienti. Omissioni previste già prima della Conferenza, perché in alcuni paesi, a iniziare dagli USA, non c’erano le condizioni politiche per sottoscrivere accordi quantitativi vincolanti. Tuttavia l’Accordo di Parigi è ricco di vincoli, almeno sulle modalità di applicazione dell’Accordo stesso, di revisione periodica, e mette in campo una serie di strutture di controllo – il “Meccanismo di facilitazione dell’applicazione dell’ Accordo” – che avrà la forma di un Comitato e, sia pur non sanzionatorio ma “facilitativo, non oppositivo” (Art. 15) invierà report annuali e permetterà verifiche puntuali sul livello di applicazione delle azioni previste.
Altra omissione: le fonti fossili non sono mai citate nel testo. È del tutto evidente che sono le grandi accusate in questo Accordo, essendo le principali responsabili delle emissioni di gas serra. Nel testo c’è piena consapevolezza del disastro a cui si andrebbe incontro se non si ridurranno drasticamente le emissioni. Eppure le parole “fonti fossili”, “petrolio”, “carbone” o “gas” non sono presenti nel testo. L’Accordo è severo nel condannare le emissioni, ma non dice i colpevoli. In modo quasi sommesso, però, apre a una carbon tax: “(le Parti) riconoscono il ruolo importante di fornire incentivi per la riduzione delle emissioni, includendo strumenti quali politiche nazionali e di prezzo del carbonio” (punto 137).
Analogamente, la medesima omissione nell’articolato riguarda le fonti rinnovabili, che però – almeno – sono citate nella premessa: “(le Parti) Comprendono il bisogno di promuovere l’accesso universale alle energie sostenibili nei paesi in via di sviluppo e in particolare in Africa, attraverso un’aumentata installazione di energie rinnovabili.” Le rinnovabili escono comunque rafforzate da questo Accordo, in quanto strumento principale di mitigazione delle emissioni di gas serra. Negli impegni nazionali formalizzati negli INDC, le energie pulite hanno un ruolo di primo piano anche per i paesi più inquinatori (ad esempio, Cina +20% fonti non fossili al 2030, India +40% di quota rinnovabile nei consumi elettrici al 2030).
10.Conclusioni
L’Accordo di Parigi è di per sé un accordo storico. La firma unanime ha richiesto una faticosa opera di mediazione, il cui merito va alla presidenza francese della COP21, ma anche all’attivismo e alla disponibilità di paesi prima oppositori di accordi sul clima, come la Cina. L’entusiasmo e le lacrime di gioia scaturiti al raggiungimento dell’accordo testimoniano i timori e lo sforzo per evitare un nuovo fallimento (dopo Copenaghen 2009) questa volta davvero irreparabile. Tuttavia l’Accordo di per sé ancora non basta. È l’inizio – un buon inizio – di un percorso ancora lungo e pieno di ostacoli. Anche dopo Parigi non abbiamo certezza che l’obiettivo del contenimento del riscaldamento globale a 2°C potrà essere raggiunto o no. Le quantità di riduzione delle emissioni sin qui indicate dagli stati non sono sufficienti e manca un tempo massimo di raggiungimento del picco oltre il quale le emissioni globali dovranno diminuire. Non aiuta né l’inizio di applicazione dell’Accordo, posto al 2020, né la prima verifica al 2023, quando eventuali interventi correttivi potrebbero essere fuori tempo massimo. Tuttavia gli stati hanno sottoscritto che faranno di tutto per aumentare le quote di riduzione dei gas serra e accelerare “al più presto possibile” il picco delle emissioni. L’Accordo spinge molto su azioni aggiuntive, ma queste sono affidate all’iniziativa volontaria degli stati, soggetta alla mutabilità del contesto politico. È comunque imponente l’architettura dei sistemi di controllo, valutazione e monitoraggio periodico dello stato di applicazione dell’Accordo, che certamente solleciterà gli stati a produrre azioni concrete. Se si aggiunge il contributo dei soggetti non statali (cittadini, enti locali, imprese) nella riduzione delle emissioni e il progresso tecnologico che va nella direzione della sostenibilità ambientale, incentivato anche da questo Accordo globale, si può ritenere che a Parigi sia stato delineato un percorso virtuoso che potrà dare i suoi frutti, ma solo se resteranno alte l’attenzione e la consapevolezza collettiva sulla criticità della questione climatica.
di Pierluigi Adami, coordinatore scientifico Ecologisti Democratici
1.La premessa
Come è noto, nella 21° Conferenza COP21, che ha riunito a Parigi quasi 200 stati, membri della Convenzione Quadro sui Cambiamenti Climatici dell’ONU – UNFCCC, è stato raggiunto un Accordo globale sul clima. L’Accordo è composto da una premessa, 140 punti e 29 articoli. La ratifica formale dei singoli stati dovrà essere depositata auspicabilmente entro il 22 aprile 2016 quando vi sarà la cerimonia ufficiale dell’Accordo presso le Nazioni Unite. L’Accordo sarà formalmente in vigore trenta giorni dopo che almeno gli stati rappresentanti il 55% del totale delle emissioni di gas serra avranno depositato le firme (Art. 21). Per quanto riguarda la riduzione delle emissioni, diventerà operativo solo a partire dal 2020, anche se, come vedremo, sono previste azioni già nel quadriennio 2016-2020.
Nel testo la Parti “riconoscono che i cambiamenti climatici rappresentano una urgente e potenzialmente irreversibile minaccia per l’umanità e per il pianeta. Riconoscono altresì che una profonda riduzione delle emissioni di gas serra è richiesta al fine di raggiungere gli obiettivi dell’Accordo e sottolineano la necessità dell’urgenza nella lotta ai cambiamenti climatici.”
È una premessa importante, se si considera la serie di falliti tentativi, di mancate sottoscrizioni di accordi, avvenute dopo la prima conferenza di Rio del 1992. Con il risultato che, da allora ad oggi, le emissioni di gas serra sono aumentate del 48%, nel disinteresse di molti governi, a iniziare da quello USA al tempo di Bush. La Cina, dal 1992, ha addirittura aumentato le sue emissioni del 240%.
Questa volta l’Accordo di Parigi è stato sottoscritto anche dai paesi più inquinatori, e perciò in molti lo hanno definito “storico”. Suscita molte speranze, ma non mancano le omissioni e i compromessi, che comunque non sminuiscono il valore complessivo dell’intesa raggiunta.
2.Confermato l’obiettivo +2°C, anzi di più
L’Accordo ha l’ambizione di perseguire un “percorso di emissioni aggregate compatibile con l’obiettivo di contenere il riscaldamento globale ben al di sotto dei +2°C rispetto all’era preindustriale, cercando tutti gli sforzi per limitare il riscaldamento a +1,5°C” (Art. 2 dell’Accordo). Questa dizione ha consentito di mediare le posizioni tra chi chiedeva il limite più ambizioso a +1,5°C, come la UE e i paesi insulari, preoccupati per l’innalzamento del livello dei mari, e l’Arabia Saudita, che invece osteggiava il limite a +1,5°C. Si tratta di un punto fondamentale, perché la soglia dei +2°C, secondo gli scienziati, è l’unica che garantisce di contenere gli effetti più gravi dei cambiamenti climatici, e di evitare l’irreversibilità del riscaldamento globale.
Sul piano dell’obiettivo a lungo termine (fine secolo), dunque, l’Accordo di Parigi ha mantenuto le aspettative. Il problema è capire se i mezzi messi in campo saranno sufficienti per raggiungerlo.
3.La quantità delle emissioni di gas serra
Al di là della condivisione degli obiettivi di lungo termine, della comprensione dell’urgenza degli interventi, della consapevolezza dei rischi, l’Accordo di Parigi non ha potuto imporre dei limiti quantitativi vincolanti alle emissioni di gas. Ad oggi, i contributi sin qui determinati dai singoli paesi (“intended nationally determined contributions”, INDC), aggregati sul totale, non sono affatto sufficienti a mantenere l’obiettivo dei +2°C. Se non ci saranno azioni di maggiore impegno, peraltro previste nell’Accordo, l’aumento di temperatura a fine secolo potrebbe raggiungere o superare i +3°C. Questa grave mancanza è esplicitamente riconosciuta già nella premessa: “(le Parti) Enfatizzano con seria preoccupazione l’urgente necessità di intervenire per colmare la significativa lacuna” ossia la non compatibilità degli impegni presi dagli stati con l’obiettivo di restare “ben al di sotto” dei +2°C. La preoccupazione è ribadita anche nel punto 17: “(le Parti) Notano con preoccupazione che il livello aggregato stimato di gas serra nel 2025 e 2030, risultante dai contributi nazionali INDC, non ricade entro gli scenari a 2°C, ma piuttosto conduce ad un livello previsto di 55 miliardi di tonnellate di CO2 nel 2030” mentre, per mantenere almeno l’obiettivo dei +2°C, bisognerebbe giungere “a ridurre le emissioni sino a 40 miliardi di tonnellate di CO2” (secondo l’IPCC tale limite è 38 miliardi, ndr). I sottoscrittori dell’Accordo pertanto riconoscono che “uno sforzo di riduzione molto maggiore delle emissioni sarà richiesto, rispetto a quanto determinato nei contributi nazionali INDC, al fine di contenere il riscaldamento al di sotto dei +2°C rispetto all’era pre-industriale.”
4.Obiettivi nazionali sulle emissioni più ambiziosi
C’è piena consapevolezza che, ad oggi, l’accordo di Parigi non è sufficiente. Per questo, al punto 20, l’Accordo “Decide” di raccogliere gli “sforzi collettivi” espressi in nuovi contributi dagli stati, al fine di raggiungere l’obiettivo a lungo termine (di 2° o 1,5° entro il 2100). Verranno definiti dei criteri molto stringenti, sia nel metodo sia nei contenuti, che gli Stati dovranno seguire nel sottomettere i nuovi contributi nazionali INDC, da presentare almeno ogni 5 anni a partire dal 2023 (Art. 4, Art. 6, Art. 14). I prossimi meeting annuali COP serviranno come momento di verifica del progresso, suffragato dai dati aggiornati sulle emissioni forniti dagli Enti Sussidiari Tecnici e Scientifici. Anche i report dell’IPCC (il prossimo, AR6 sarà pubblicato nel 2018-19) serviranno a delineare il quadro aggiornato. Entro il 2020, quando entreranno in vigore gli impegni di riduzione delle emissioni di gas serra, tutti gli stati dovranno fornire i loro obiettivi di emissioni sia al 2050 sia al 2100. Pertanto, l’attuale definizione dei contributi nazionali è solo il primo passo di un percorso che dovrebbe portare a impegni più forti, compatibili con l’obiettivo 2°C. La data della prima revisione, prevista solo nel 2023, lascia tuttavia forti perplessità.
5.Il fattore tempo: o subito o sarà tardi
Non è solo una questione di quantità di emissioni, anche il fattore tempo è critico. Più tardi si ridurranno le emissioni, più si allontana la possibilità di contenere il surriscaldamento entro i +2°C. Secondo i modelli climatici compatibili con l’obiettivo dei +2°C, servono riduzioni immediate delle emissioni da parte dei paesi industrializzati e riduzioni da subito nel tasso di crescita delle emissioni dei paesi in via di sviluppo, Cina, India e Iran compresi. Questi paesi dovrebbero raggiungere il loro picco di emissioni non oltre il 2025. Nell’Accordo manca proprio una data precisa nel picco di emissioni dei paesi in via di sviluppo (la Cina ha proposto “non oltre il 2030”, comunque tardi), ma all’Art. 4 dell’Accordo le Parti si impegnano a cercare di raggiungere il picco delle emissioni “il più presto possibile”. L’obiettivo di medio termine è di raggiungere entro il 2050 un sostanziale equilibrio tra le emissioni di gas serra per effetto antropico e la capacità di assorbimento di CO2 degli ecosistemi terrestri (oceani e foreste in particolare) per ottenere poi una progressiva rimozione di CO2 dall’atmosfera (ossia si assorbe anidride carbonica più di quanta se ne emette). Secondo i dati scientifici, ciò vuol dire far scendere le emissioni entro il 2050 sotto i 20 miliardi di tonnellate di CO2 all’anno. Livello ottenibile solo con riduzioni molto drastiche e immediate delle emissioni.
Il testo dell’Accordo di Parigi riconosce la criticità del fattore tempo, e richiede su base volontaria un’accelerazione della riduzione delle emissioni di gas serra già nel periodo 2016-2020 (punti 106 e segg.). È prevista l’attivazione di una serie di strumenti (informativi, organizzativi, tecnologici, finanziari, amministrativi) che facilitino agli stati gli sforzi per mettere in atto politiche innovative, buone pratiche per accelerale la mitigazione delle emissioni. Una prima verifica sullo stato di applicazione di questi strumenti sarà fatta già nel 2017.
6.Sostegno ai paesi in via di sviluppo
Fondamentale è il sostegno ai paesi più poveri, che non hanno mezzi né per mitigare le emissioni né per implementare strumenti di adattamento agli effetti del riscaldamento globale. La questione è già presente nella premessa: “(le Parti) Riconoscono l’urgente necessità di aumentare il sostegno finanziario, tecnologico e realizzativo verso i paesi in via di sviluppo, fornito in modo chiaro per abilitare azioni migliorative già pre-2020.” Nel testo dell’Accordo, al punto 115 c’è la decisione di sostenere gli sforzi di mitigazione delle emissioni e di adattamento dei paesi in via di sviluppo con un finanziamento di 100 miliardi di dollari l’anno (quota da ricalcolare prima del 2025), a fronte della presentazione di specifici piani di azione e chiari obiettivi, con modalità di erogazione fondi “sulla base dei risultati”. Gli interventi sono in particolare rivolti alla limitazione della deforestazione e al contenimento del degrado del territorio boschivo (punto 55).
I criteri specifici per i finanziamenti saranno presentati nella COP24 del 2018. A gestire i finanziamenti (punto 59) sono incaricati il Green Climate Fund e la Global Environmant Facility, insieme con il Fondo per i paesi in via di sviluppo e il Fondo speciale sui Cambiamenti Climatici.
L’Accordo prevede anche un trasferimento tecnologico, di ricerca, di strumenti e conoscenze, in grado di rafforzare le capacità (“capacity-building”), le competenze tecnologico-realizzative, ottimizzare i processi di questi paesi, migliorare lo scambio di informazioni, aumentare la pubblica consapevolezza, la trasparenza, anche promuovendo attività didattiche e formative. I paesi più sviluppati sono tenuti a inviare un report biennale sullo stato della cooperazione con i paesi in via di sviluppo, riportando le azioni fatte in merito al trasferimento tecnologico e di competenze (Art. 9 e 10).
Viene istituito un Comitato per il Capacity-building (punto 75), che ogni anno fornirà report sullo stato di attuazione della collaborazione tecnologico-scientifica; nella conferenza COP25 (2019) saranno raccolti i primi risultati dell’attività e saranno verificate eventuali necessità ulteriori.
7.Non solo mitigazione, anche adattamento
In parallelo con la mitigazione delle emissioni di CO2, saranno condotte attività di adattamento agli effetti più severi del riscaldamento globale, come gli eventi meteorologici estremi, a cui sono più esposti soprattutto i paesi più poveri. Le attività di adattamento sono in particolare rivolte a rafforzare la resilienza, ridurre le vulnerabilità dei territori e aumentare la comprensione dei fenomeni, puntando anche sulle conoscenze delle comunità locali (punto 123, Art. 7). Viene istituito un Fondo per l’Adattamento, mentre i criteri generali saranno affidati a un Comitato per l’Adattamento, che produrrà strategie, linee guida e piani di implementazione triennali (punto 43), fermo restando che, viste le specificità del problema sui vari territori, l’approccio sarà comunque delineato da ogni singolo stato. Ogni stato dovrà fornire, e aggiornare periodicamente, un Piano Nazionale di Adattamento ai cambiamenti climatici, nel quale descrivere le proprie priorità, i criteri, le azioni implementate, eventuali richieste di supporto (Art. 7).
8.La sfida si vince insieme
Nel punto 134 e segg. l’Accordo sottolinea l’importanza del contributo che possono fornire alla riduzione delle emissioni di gas serra altri soggetti non statali, come i membri della società civile, del settore privato, di istituzioni finanziarie, di città e altre istituzioni locali. Queste ultime possono giocare un ruolo importante sia nella mitigazione dei gas serra – si pensi al Patto dei Sindaci europei del 2010, nel quale le città s’impegnano a ridurre le emissioni del 20% entro il 2020 – sia nell’adattamento ai cambiamenti climatici, per ottenere maggiore resilienza e ridurre la vulnerabilità dei territori. Tali azioni dovranno essere inserite nell’Area Non-statale della Piattaforma di Azione Climatica[1] (punto 118).
9.Le omissioni più evidenti
Le omissioni più rilevanti riguardano l’assenza di un limite quantitativo vincolante alle emissioni, di un tempo massimo per il picco delle emissioni, e il mancato obbligo sanzionatorio per gli stati inadempienti. Omissioni previste già prima della Conferenza, perché in alcuni paesi, a iniziare dagli USA, non c’erano le condizioni politiche per sottoscrivere accordi quantitativi vincolanti. Tuttavia l’Accordo di Parigi è ricco di vincoli, almeno sulle modalità di applicazione dell’Accordo stesso, di revisione periodica, e mette in campo una serie di strutture di controllo – il “Meccanismo di facilitazione dell’applicazione dell’ Accordo” – che avrà la forma di un Comitato e, sia pur non sanzionatorio ma “facilitativo, non oppositivo” (Art. 15) invierà report annuali e permetterà verifiche puntuali sul livello di applicazione delle azioni previste.
Altra omissione: le fonti fossili non sono mai citate nel testo. È del tutto evidente che sono le grandi accusate in questo Accordo, essendo le principali responsabili delle emissioni di gas serra. Nel testo c’è piena consapevolezza del disastro a cui si andrebbe incontro se non si ridurranno drasticamente le emissioni. Eppure le parole “fonti fossili”, “petrolio”, “carbone” o “gas” non sono presenti nel testo. L’Accordo è severo nel condannare le emissioni, ma non dice i colpevoli. In modo quasi sommesso, però, apre a una carbon tax: “(le Parti) riconoscono il ruolo importante di fornire incentivi per la riduzione delle emissioni, includendo strumenti quali politiche nazionali e di prezzo del carbonio” (punto 137).
Analogamente, la medesima omissione nell’articolato riguarda le fonti rinnovabili, che però – almeno – sono citate nella premessa: “(le Parti) Comprendono il bisogno di promuovere l’accesso universale alle energie sostenibili nei paesi in via di sviluppo e in particolare in Africa, attraverso un’aumentata installazione di energie rinnovabili.” Le rinnovabili escono comunque rafforzate da questo Accordo, in quanto strumento principale di mitigazione delle emissioni di gas serra. Negli impegni nazionali formalizzati negli INDC, le energie pulite hanno un ruolo di primo piano anche per i paesi più inquinatori (ad esempio, Cina +20% fonti non fossili al 2030, India +40% di quota rinnovabile nei consumi elettrici al 2030).
10.Conclusioni
L’Accordo di Parigi è di per sé un accordo storico. La firma unanime ha richiesto una faticosa opera di mediazione, il cui merito va alla presidenza francese della COP21, ma anche all’attivismo e alla disponibilità di paesi prima oppositori di accordi sul clima, come la Cina. L’entusiasmo e le lacrime di gioia scaturiti al raggiungimento dell’accordo testimoniano i timori e lo sforzo per evitare un nuovo fallimento (dopo Copenaghen 2009) questa volta davvero irreparabile. Tuttavia l’Accordo di per sé ancora non basta. È l’inizio – un buon inizio – di un percorso ancora lungo e pieno di ostacoli. Anche dopo Parigi non abbiamo certezza che l’obiettivo del contenimento del riscaldamento globale a 2°C potrà essere raggiunto o no. Le quantità di riduzione delle emissioni sin qui indicate dagli stati non sono sufficienti e manca un tempo massimo di raggiungimento del picco oltre il quale le emissioni globali dovranno diminuire. Non aiuta né l’inizio di applicazione dell’Accordo, posto al 2020, né la prima verifica al 2023, quando eventuali interventi correttivi potrebbero essere fuori tempo massimo. Tuttavia gli stati hanno sottoscritto che faranno di tutto per aumentare le quote di riduzione dei gas serra e accelerare “al più presto possibile” il picco delle emissioni. L’Accordo spinge molto su azioni aggiuntive, ma queste sono affidate all’iniziativa volontaria degli stati, soggetta alla mutabilità del contesto politico. È comunque imponente l’architettura dei sistemi di controllo, valutazione e monitoraggio periodico dello stato di applicazione dell’Accordo, che certamente solleciterà gli stati a produrre azioni concrete. Se si aggiunge il contributo dei soggetti non statali (cittadini, enti locali, imprese) nella riduzione delle emissioni e il progresso tecnologico che va nella direzione della sostenibilità ambientale, incentivato anche da questo Accordo globale, si può ritenere che a Parigi sia stato delineato un percorso virtuoso che potrà dare i suoi frutti, ma solo se resteranno alte l’attenzione e la consapevolezza collettiva sulla criticità della questione climatica.
di Pierluigi Adami, coordinatore scientifico Ecologisti Democratici
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