17 settembre 2014

L'approfondimento:REFERENDUM IN SCOZIA

Domani si terrà in Scozia il referendum che dovrebbe sancire,nella speranza dei promotori, l'indipendenza della Scozia dal Regno Unito.Possiamo definirlo un passaggio epocale che avrà ripercussioni,se il si all'indipendenza vincerà,non solo sulla Scozia e sul Regno Unito ma anche sull'Europa e soprattutto su quelle regioni che da tempo reclamano l'indipendenza, Catalogna in testa.
Approfondiamo l'argomento riportando un articolo pubblicato nella newsletter di  Affarinternazionali a firma di David Ellwood.
D.F.
 
 
 

 
Referendum in Scozia
Regno dis-Unito?
David Ellwood
16/09/2014
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L’intensità della partecipazione popolare al referendum sull’indipendenza scozzese è mostrata dalla percentuale di persone che si è iscritta alle liste per partecipare al voto: il 97%. Il già caldo dibattito è diventato scottante il 7 settembre, quando un sondaggio ha mostrato il sorpasso degli indipendentisti sul fronte degli unionisti.

Il potere politico a Westminster si è finalmente svegliato: il rischio che il vecchio, glorioso Regno Unito potesse sciogliersi da un giorno all’altro è diventato improvvisamente una minaccia immensa. Per Lord Robertson, scozzese, laburista, ex- segretario generale della Nato, sarebbe un ‘cataclisma’.

Se Salmond polverizza le previsioni di Cameron
Due fattori contingenti hanno prodotto questa situazione. Nel 2011 il Partito nazionale scozzese (Snp) ha ottenuto la maggioranza assoluta nelle elezioni al Parlamento scozzese.

Il sistema elettorale misto inventato nell’occasione della rinascita di questo parlamento nel 1999 avrebbe dovuto rendere impossibile un risultato del genere. Il trionfo del leader nazionalista Alex Salmond, che si è impegnato formalmente nella campagna elettorale ad indire un referendum sull’indipendenza, ha invece reso quasi inevitabile la prova che ora incombe.

Ma nel sottoporre a Londra la sua richiesta formale di consultazione popolare, Salmond aveva lasciato aperto la possibilità di una terza opzione oltre il secco “si’ o ‘no’, cioè una radicale spinta verso la devolution dei poteri dello stato di Westminster a favore della Scozia.

Il primo ministro inglese David Cameron ha però respinto questa ‘terza via’, convinto che il ‘no’ avrebbe trionfato facilmente e la presunzione scozzese sarebbe stata umiliata dagli elettori. La campagna di Salmond, il più abile operatore politico del Regno, ha invece polverizzato questa illusione.

Le origini dell’onda separatista
In realtà l’onda separatista che sostiene il ‘sì’ è profonda e popolare. Anche se dovesse vincere il ‘no’, questa non si spegnerebbe. Solo un establishment politico e mediatico così concentrato su se stesso come quello londinese ha potuto non accorgersene fino all’ultimo momento.

Come generale reazione alle forze scatenate dalla globalizzazione, il separatismo è di moda nel mondo, non solo in Europa. La Londra che negli anni della Thatcher ha inventato la liberalizzazione dei mercati finanziari, il meccanismo scatenante della globalizzazione, non ha voluto rendersi conto che per questa rivoluzione ci sarebbe stato un prezzo da pagare in casa propria.

Più che ogni parte della Regno, gli scozzesi non hanno accettato l’idea del libero mercato come dogma, del ‘privato=bene, pubblico=male’ applicato a ogni possibile funzione pubblica, una tendenza che loro hanno associato con il thatcherismo in tutte le sue forme.

Il declino del laburismo versione Tony Blair - così affascinato dai successi da lady di ferro - ha lasciato ampio spazio politico al Snp, che in realtà si presenta assai simile al vecchio laburismo: statalista, welfarista, verticistica. Un laburismo senza sindacati o passato operaio, inter-classista. E come il laburismo vecchio e nuovo, condivide l’allergia alle idee. Un rifiuto sì delle ideologie, ma anche di qualsiasi discussione concettuale o di cultura politica.

Il risultato si è visto nell’intensissimo, ma poverissimo dibattito della campagna elettorale referendaria che si è concentrato sul destino delle pensioni, dei posti di lavoro, del sistema sanitario, della moneta e del petrolio del Mare del nord.

Nessuna discussione ha toccato il rapporto stato-mercato, la globalizzazione, l’Europa, la geopolitica e la struttura di un’economia in cui dominano banche e imprese finanziari, comprese la Royal Bank of Scotland e la Bank of Scotland - che tanto hanno contribuito alla grande crisi del 2008.

La strategia della paura
Alla fine, sono scesi in campo anche i grandi delle banche, delle compagnie di assicurazione, delle grandi catene dei supermercati che si sono uniti nel mettere in guardia gli scozzesi contro i rischi di fuga dei capitali e delle imprese medesime, dei probabili aumenti dei prezzi, dell’impossibilità per un piccolo paese di chiedere il divorzio pur mantenendo tutti i vantaggi del matrimonio, compreso il conto insieme in banca. Il fronte del ‘sì’ ha parlato di ‘una strategia della paura’.

Intanto il governo di Londra, con le spalle al muro, ha cominciato a parlare più precisamente dei poteri che potrebbe spostare verso Edimburgo dopo il voto. Questo discorso si è sentito solo dopo la deposizione dei primi voti, quelli espressi per posta.

Vittoria di Pirro degli unionisti
Il progetto dell’indipendenza probabilmente non trionferà. Quella del no, sarà però una vittoria di Pirro. Devasterà il partito laburista - che si è scisso in Scozia sulla questione separatista - indebolirà la coalizione conservatrice-liberali a Westminster, e rafforzerà l’ascesa dell’Ukip, il partito populista che vuole l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea.

I separatisti non hanno però espresso una classe dirigente capace di portare avanti per anni un negoziato di divorzio complicatissimo con un avversario agguerrito, e allo stesso tempo ricostruire l’economia e il sistema finanziario, dotandosi di un sistema di difesa alternativo, un ruolo nell’Unione europea e nella Nato. Non sembrano rendersi conto che il mondo delle relazioni internazionali è brutalmente gerarchico e che le piccole nazioni vengono progressivamente marginalizzate e provincializzate.

Il confronto ha aperto una discussione più generale sul funzionamento della democrazia in Gran Bretagna a livello locale. Questo è il frutto più positivo della vicenda. Per il resto, anni di sussulti e confusione sembrano attendere il disorientato elettore delle isole britanniche, così allergico a discussioni politiche di prospettiva.

David Ellwood è Senior Adjunct Professor, Johns Hopkins University, SAIS Europe, Bologna.
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