Il sale della terra – Film di Wim Wenders e Juliano Ribeiro Salgado –
«Una foto non parla solo di chi è ritratto, ma anche di chi ritrae»: una frase del film che è un po’ la chiave di questo viaggio modellato nella luce e nello spazio. Il regista Wim Wenders con il figlio del famoso fotografo Sebastião Salgado sono coautori di questo documentario sulla sua opera e vita. Un’operazione mastodontica coraggiosa e ambiziosa perché inserire il movimento nello spazio fotografico e raccontare la terza dimensione dell’immagine bidimensionale e statica è sempre un rischio. A mio avviso, Wenders – anch’esso fotografo oltre che regista – riesce a farlo. Wenders è un fotografo di luoghi, di siti desolati, di “rovine urbane” che critica ma ama nello stesso tempo. Ha dichiarato Wenders in un’intervista anni fa: «Se non sentissi affinità con un luogo, sia esso una città o un paesaggio, non potrei mai fotografarlo né prendere in considerazione l’idea di girarvi la scena di un film… Direi che i posti sono importanti quanto le persone: a volte persino più importanti».
In alcuni punti il fim/documentario si presenta come uno sfogliare di fotografie con voce narrante fuori campo che si alterna: una volta è lo stesso Sebastião Salgado (ripreso mentre riprende!), un’altra è Wim Wenders, un’altra ancora è il più giovane Juliano Ribeiro Salgado. In altre parti, specialmente dove c’è un alto punto di vista e dove c’è una visione ampia (ad esempio nelle migrazioni o nei disastri della mano dell’uomo) la telecamera si sostituisce alla camera fissa. Così anche nel ritrarre le popolazioni indigene siano essi gli Awà Guajà in Amazonia o i Nenet in Siberia. A tale proposito Salgado fa un’interessante descrizione del ritratto che per riuscire non può essere una semplice descrizione anaffettiva, ma deve cogliere, in un certo senso, l’anima del soggetto da ritrarre.
Tra le innumerevoli opere che Salgado ha realizzato nel corso della sua carriera, emergono i grandi progetti di lungo periodo: Other Americas, una rassegna della vita delle campagne in America Latina, La mano dell’uomo una pubblicazione di 400 pagine del 1993 sui settori di base della produzione, Workers, che documenta le vite quasi impercettibili dei braccianti di tutto il mondo, Migrations (1993-2000), una rappresentazione delle migrazioni di massa causate dalla carestia, dai disastri naturali, dal degrado ambientale e dalla pressione demografica, e l’ultima opera, Genesis che è il risultato di un’esplorazione durata otto anni alla scoperta di montagne, oceani, deserti, animali e popolazioni con terre e vite incontaminate.
Proprio l’anno scorso si è tenuta a Roma la mostra omonima al Museo dell’Ara Pacis con le immagini dell’ultima decade in cui, dopo una grande crisi, Salgado ha ripreso a fotografare occupandosi di paesaggi prevalentemente naturali e popolazioni indigene. La Terra è vista come una magnifica risorsa da conoscere, contemplare e raccontare, ma anche da salvaguardare in modo più rispettoso nei confronti della natura e dell’ambiente circostante. Genesis è una sorta di grande antropologia planetaria, un omaggio visivo ma anche un grido di allarme: è un viaggio fotografico fatto di oltre 200 immagini – in un lirico bianco e nero – di mondi in cui natura, animali ed esseri viventi vivono ancora in equilibrio con l’ambiente: dalle foreste tropicali dell’Amazzonia, del Congo, dell’Indonesia e della Nuova Guinea ai ghiacciai dell’Antartide, dalla taiga dell’Alaska ai deserti dell’America e dell’Africa fino ad arrivare alle montagne dell’America, del Cile e della Siberia.
Personalmente sono rimasta molto colpita dalle foto degli anni ’90 (alcune già in mostra alle Scuderie del Quirinale nel 2000) dove Salgado, attraverso la sua macchina fotografica, porta alla ribalta la vastità del fenomeno delle migrazioni d’intere popolazioni in Africa. Sono veramente impressionanti le immagini dei rifugiati in Congo così come i cadaveri accatastati in Rwanda. Vedere la fuga d’interi popoli, osservarli morire di stenti o di malattie in modo così massiccio è proprio ciò che ha portato Salgado a non voler più fotografare e a cadere in uno stato di depressione che supererà solo con l’intervento della vera eroina del film (della vita?) e cioè Lelia Wanick la geniale e collaborativa moglie di Sebastião. Da lei parte l’idea di riforestare la fazenda familiare ereditata dai genitori di Salgado (saranno piantati sei milioni di alberi in dieci anni!) che gli darà di nuovo linfa vitale e il desiderio di ricominciare a fotografare la Natura.
In alcuni punti il fim/documentario si presenta come uno sfogliare di fotografie con voce narrante fuori campo che si alterna: una volta è lo stesso Sebastião Salgado (ripreso mentre riprende!), un’altra è Wim Wenders, un’altra ancora è il più giovane Juliano Ribeiro Salgado. In altre parti, specialmente dove c’è un alto punto di vista e dove c’è una visione ampia (ad esempio nelle migrazioni o nei disastri della mano dell’uomo) la telecamera si sostituisce alla camera fissa. Così anche nel ritrarre le popolazioni indigene siano essi gli Awà Guajà in Amazonia o i Nenet in Siberia. A tale proposito Salgado fa un’interessante descrizione del ritratto che per riuscire non può essere una semplice descrizione anaffettiva, ma deve cogliere, in un certo senso, l’anima del soggetto da ritrarre.
Tra le innumerevoli opere che Salgado ha realizzato nel corso della sua carriera, emergono i grandi progetti di lungo periodo: Other Americas, una rassegna della vita delle campagne in America Latina, La mano dell’uomo una pubblicazione di 400 pagine del 1993 sui settori di base della produzione, Workers, che documenta le vite quasi impercettibili dei braccianti di tutto il mondo, Migrations (1993-2000), una rappresentazione delle migrazioni di massa causate dalla carestia, dai disastri naturali, dal degrado ambientale e dalla pressione demografica, e l’ultima opera, Genesis che è il risultato di un’esplorazione durata otto anni alla scoperta di montagne, oceani, deserti, animali e popolazioni con terre e vite incontaminate.
Proprio l’anno scorso si è tenuta a Roma la mostra omonima al Museo dell’Ara Pacis con le immagini dell’ultima decade in cui, dopo una grande crisi, Salgado ha ripreso a fotografare occupandosi di paesaggi prevalentemente naturali e popolazioni indigene. La Terra è vista come una magnifica risorsa da conoscere, contemplare e raccontare, ma anche da salvaguardare in modo più rispettoso nei confronti della natura e dell’ambiente circostante. Genesis è una sorta di grande antropologia planetaria, un omaggio visivo ma anche un grido di allarme: è un viaggio fotografico fatto di oltre 200 immagini – in un lirico bianco e nero – di mondi in cui natura, animali ed esseri viventi vivono ancora in equilibrio con l’ambiente: dalle foreste tropicali dell’Amazzonia, del Congo, dell’Indonesia e della Nuova Guinea ai ghiacciai dell’Antartide, dalla taiga dell’Alaska ai deserti dell’America e dell’Africa fino ad arrivare alle montagne dell’America, del Cile e della Siberia.
Personalmente sono rimasta molto colpita dalle foto degli anni ’90 (alcune già in mostra alle Scuderie del Quirinale nel 2000) dove Salgado, attraverso la sua macchina fotografica, porta alla ribalta la vastità del fenomeno delle migrazioni d’intere popolazioni in Africa. Sono veramente impressionanti le immagini dei rifugiati in Congo così come i cadaveri accatastati in Rwanda. Vedere la fuga d’interi popoli, osservarli morire di stenti o di malattie in modo così massiccio è proprio ciò che ha portato Salgado a non voler più fotografare e a cadere in uno stato di depressione che supererà solo con l’intervento della vera eroina del film (della vita?) e cioè Lelia Wanick la geniale e collaborativa moglie di Sebastião. Da lei parte l’idea di riforestare la fazenda familiare ereditata dai genitori di Salgado (saranno piantati sei milioni di alberi in dieci anni!) che gli darà di nuovo linfa vitale e il desiderio di ricominciare a fotografare la Natura.
Ghisi Grütter
Un gigante della nostra epoca, Sebastiano Salgado.
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