26 marzo 2015

A SINISTRA NEL PD:L'INTERVENTO DI D'ATTORRE





 
 
Il 21 marzo u.s. si è tenuto un incontro, all'Acquario di Piazza Manfredo Fanti a Roma, in cui si sono confrontate le diverse anime che compongono la sinistra interna al PD.Le varie reti televisive hanno dato ampio risalto a questo evento,sottolineando e promuovendo in  molti passaggi e in diverse fasce orarie  l'intervento di Massimo D'Alema,che per i giornalisti equivale sempre ad un personaggio di sicuro effetto mediatico ,facendolo assurgere, per l'occasione, ad antagonista  del premier Renzi,oscurando per un attimo altri antagonisti di peso come  Bersani, o  Cuperlo  Civati.Ma D'Alema ha un audience sicuramente di maggiore effetto.Ha un suo fascino particolare,ha imparato le pause per dare maggiore effetto alle sue battute,è uno showman mancato.Si voleva con questo stuzzicare il premier/segretario ad una reazione/risposta che puntualmente è arrivta.
Così sono stati contenti tutti:giornalisti,D'Alema e Renzi.
E noi ,povero popolo bue? Noi ci prendiamo una pausa di riflessione Ora che i riflettori si sono spenti su questo evento,per un miglior esame dei contenuti svolti in quell'assise,proponiamo ai nostri lettori la relazione introduttiva di Alfredo D'Attorre.Nei prossimi giorni pubblicheremol'intervento di  Alfredo Reichlin.Quello di D'Alema no (sorry).
Dopo queste letture magari ci potremmo fare  un'idea nostra senza essere distratti da qualche spot pubblicitario o da qualche commento "pseudo-intelligente".Allora proviamoci.Buona lettura.
D.F.

A sinistra nel PD. Per la democrazia e il lavoro. L’Italia può farcela

Roma, 21 marzo 2015 - Relazione introduttiva di Alfredo D’Attorre

Cari amici e compagni,

penso che oggi sia una giornata importante, non solo perché per la prima volta dopo il Congresso le diverse aree della sinistra interna del PD decidono di ritrovarsi per discutere assieme, ma anche per la scelta del tema che abbiamo deciso di mettere al centro del nostro confronto.

Che significa per noi discutere di qualità della democrazia? Significa anzitutto credere nella risorsa della partecipazione quale via per restituire all’Italia un senso di sé, della sua identità, della sua missione in Europa, nel Mediterraneo, nel mondo.

Affrontiamo questa discussione in un frangente difficilissimo della vicenda europea e internazionale: la vicenda greca e le contraddizioni irrisolte dell’Unione europea, la drammatica situazione in Libia, la minaccia terroristica con i fatti di Parigi e da ultimo quelli di Tunisi.

Eventi che riguardano Paesi a noi molto vicini, ce lo dicono la geografia, ma anche la storia e la cultura di questi Paesi. Eventi di portata epocale che investono direttamente il destino dell’Italia e che richiederebbero un dibattito pubblico molto più informato e consapevole.

Pensiamo ai caratteri nuovi e inquietanti del terrorismo jihadista e all’enorme accumulo di conoscenza, discernimento, fermezza e insieme equilibrio che una strategia di contrasto davvero efficace richiederebbe.

Una democrazia più forte, una minore distanza tra cittadini e istituzioni, una consapevolezza più condivisa delle nostre responsabilità sarebbero elementi vitali per consentire a un Paese come il nostro di svolgere un ruolo più incisivo nel Mediterraneo, più esigente nei confronti dell’Europa, più in grado di svolgere quella funzione di cerniera fra Occidente e mondo arabo che dal dopoguerra a oggi è stato il tratto più efficace della nostra politica estera.

Anche dal lato della politica europea e internazionale, la qualità e la forza del nostro processo democratico appaiono una condizione importante perché il nostro Paese svolga il proprio ruolo con più fiducia nella sua autonomia e nelle sue possibilità.

Questa fiducia nelle risorse materiali e morali dell’Italia è un tratto importante dell’azione del nostro segretario-premier. Un elemento giusto, da condividere e sostenere. Il punto è in quale direzione pensiamo di dare sostanza e concretezza a questa fiducia nell’Italia. Qui sta, a mio giudizio, il cuore del nostro confronto con Matteo Renzi.

Diciamocelo subito in premessa: la nostra assemblea di oggi sarebbe ben poca cosa se volesse assemblare percorsi e posizioni diverse per costruire un cartello delle opposizioni interne.

Se oggi siamo qui con questa formula a parlare di democrazia, di Italia e di Europa è perché nessuno di noi pensa che la situazione interna del PD si risolva con mosse tattiche o scorciatoie organizzativistiche.2

Nessuna nuova corrente, quindi, ma un campo di confronto aperto in cui diverse sensibilità di sinistra riprendono a ragionare assieme dell’Italia, del perché su alcuni punti la rotta del governo va corretta, del perché alcune delle scelte e delle risposte in campo non ci paiono all’altezza della profondità dei problemi e della radicalità delle soluzioni richieste.

Un confronto per aiutare il PD e l’Italia.

Dire ‘l’Italia può farcela’ significa però davvero credere nell’autonomia e anche nell’originalità dell’Italia, nel fatto che dobbiamo trovare una nostra strada per uscire dalla recessione, creare lavoro, ridurre le diseguaglianze, ricostruire la struttura dello Stato, tornare a investire nel Mezzogiorno, senza continuare ad applicare ricette sbagliate e a eseguire compiti imposti dall’esterno.

Da Maastricht in poi, lungo tutto l’arco della cosiddetta Seconda Repubblica, l’aggrapparsi al vincolo esterno dell’Europa come unica ancora di salvezza è stato il segno di una sostanziale sfiducia nelle potenzialità dell’Italia e della sua democrazia.

Ecco perché porre il tema della democrazia significa anche interrogarci sui nostri errori degli anni passati e farlo in una maniera più rigorosa rispetto al metodo della 'rottamazione'. Questa ha indubbiamente riempito un vuoto di credibilità della politica, ma, dietro la sostituzione di pezzi di ceto politico e il riposizionamento più o meno opportunistico di altri, rischia di riproporre in maniera perfino radicalizzata la stessa lettura della società e le stesse politiche che hanno portato alla crisi.

Allora, certo, giusto affrontare il tema di ammodernamento del nostro sistema istituzionale, le famose riforme. Ne parleremo diffusamente oggi.

Ma dobbiamo anche riconoscere che abbiamo commesso un errore nell’immaginare che le riforme istituzionali bastassero per condurre in porto la transizione italiana, cominciata con Tangentopoli e il crollo della classe dirigente dei primi anni ’90.

L’inseguire astrazioni politologiche, peraltro fondate spesso su approssimativi scimmiottamenti di modelli anglosassoni in cui essenziali elementi di equilibrio e di contrappeso venivano elisi, non ha risolto i problemi di efficienza del sistema e di rappresentanza dei cittadini.

La domanda di partecipazione non è stata soddisfatta da maggiori dosi di investitura diretta e da uno spostamento di poteri dal Parlamento al governo. Abbiamo assecondato l’illusione di una decisione politica che potesse rafforzarsi in un vuoto di rappresentanza, l’idea che concentrare e personalizzare il potere, dal livello locale a quello nazionale, fosse di per sé garanzia di stabilità e trasparenza.

In questo ventennio non sono certo mancati i tentativi di riforma della Costituzione e anche le riforme andate in porto, almeno sul piano parlamentare (titolo V nel 2001, riforma costituzionale del centrodestra nel 2005 poi bocciata dal referendum popolare, modifica dell’articolo 81 nel 2012). Il problema è che queste riforme si sono rivelate alla prova dei fatti riforme sbagliate.

Tutto ciò mentre settori sempre più ampi della società, e soprattutto di disagio sociale, uscivano dal circuito della rappresentanza politica. La torsione ‘direttista’ del modello democratico, l’idea 3

della delega in bianco al decisore hanno spinto i ceti più svantaggiati ai margini della dinamica politica. La competizione al centro alla ricerca della benedizione dell’establishment e della sua copertura mediatica e finanziaria ha lasciato intere fasce della società prive di voce nella competizione politica.

Sta qui l’intreccio fra crisi della rappresentanza e questione sociale e del perché oggi per tornare a essere davvero dalla parte del lavoro e dei ceti popolari bisogna sconfiggere questo modello di 'democrazia escludente' che si è imposto nel trentennio dell’egemonia neo-liberale.

A ciò si lega la questione decisiva del rapporto con l’Europa e dei caratteri dell’attuale assetto dell’euro. Ne parlerà diffusamente dopo uno dei nostri ospiti, Vladimiro Giacché, e posso perciò limitarmi a qualche cenno, anche se si tratta del vero punto nodale, non solo dal punto di vista economico, ma anzitutto dal punto di vista democratico.

Per come è stato costruito e gestito in questi anni (senza un governo federale, senza una Camera parlamentare coincidente con l’eurozona, senza un’autonoma capacità fiscale gestita da un organo legittimato democraticamente), l’euro non è stato evidentemente solo una moneta, ma un vero e proprio sistema di governo, un sistema purtroppo in buona sostanza post-politico e post-democratico. I Paesi aderenti hanno rinunciato a elementi essenziali della loro sovranità (controllo della moneta, regolazione del tasso di cambio, autonomia della politica fiscale e di bilancio) senza conferirli a un’istanza democratica sovraordinata e in condizioni di profonda asimmetria tra di loro.

Proprio chi è un sincero europeista e vuole sconfiggere derive nazionaliste e xenofobe deve riconoscere che l’attuale costituzione materiale dell’euro, ad esempio, purtroppo non rispetta più neppure l’articolo 11 della nostra Costituzione, quello che ci dice che limitazioni di sovranità necessarie a un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni sono consentite "in condizioni di parità con gli altri Stati".

Nell'immediato le decisioni della BCE sono utili per fronteggiare l’emergenza e impedire l’ulteriore avvitamento del circolo vizioso recessione-austerità-deflazione, ma, come lo stesso Draghi non si stanca di ripetere, non bastano ad affrontare i nodi irrisolti della costruzione europea sul piano istituzionale.

Senza affrontare il tema di come recuperiamo spazi di decisione a livello nazionale, in attesa di un’eventuale futura democratizzazione dei processi di governo dell’eurozona, ogni discorso sulla democrazia e sulla possibilità di far decidere i cittadini su piattaforme realmente alternative rischia di restare un’illusione. Il caso della Grecia è estremo, ma allo stesso paradigmatico, perché indica un problema molto più profondo, che i governi di Italia e Francia stanno sbagliando a non sollevare. Un’enorme questione democratica e di rispetto dell’autonomia e della dignità nazionale, che rischia di spianare la strada alla destra nazionalista, consegnando definitivamente nelle sue mani il vessillo della sovranità popolare.4

Come alimentare dal basso questo recupero di autonomia e di forza del processo democratico? Qui c’è la domanda di come si ricostruisce un tessuto vitale di partiti, di soggetti collettivi e di corpi intermedi. Ne parleranno più diffusamente Carlo Galli e Mario Dogliani.

Deperimento dei partiti e svuotamento della democrazia nazionale sono due facce di un unico processo, tra le quali non è semplice capire quale sia la causa e quale l’effetto.

Non possiamo ormai rimpiangere il vecchio partito di massa, il partito-apparato, di cui la Seconda Repubblica ci ha consegnato solo l’estenuazione burocratica e autoreferenziale. Questo problema onestamente preesiste all’attuale gestione del PD.

Il problema è se ne usciamo consegnandoci alla tesi che non c’è alternativa all’organizzazione di un seguito più o meno inerte di un capo carismatico, o se abbiamo bisogno di partiti di tipo nuovo, più leggeri e aperti dal punto di vista della struttura burocratica, ma più solidi dal punto di vista del pensiero e del radicamento sociale.

Se dobbiamo rassegnarci a una deriva personalistica del sistema politico italiano, accettando che anche il PD smetta di essere un’eccezione, o se dobbiamo aiutare anche con strumenti legislativi l’organizzazione di partiti più democratici, trasparenti, contendibili.

Se dobbiamo rassegnarci alle cene da mille euro a commensale come unica forma di finanziamento o iniziare a riflettere sul fatto che siamo l’unico Paese tra le grandi democrazie europee che ha abbandonato qualsiasi forma di finanziamento pubblico della politica e si è consegnato al modello americano (senza peraltro le leggi sulle lobby e sulla trasparenza dei processi legislativi che ci sono negli Stati Uniti).

Come pure è evidente la necessità di un processo di rinnovamento dei sindacati e dei corpi intermedi. Ma un partito di sinistra può favorire questo processo con la delegittimazione e con lo scontro frontale? Quale modello di società si ha in testa se le organizzazioni intermedie non vengono aiutate a modernizzarsi e a svolgere in maniera più inclusiva il loro ruolo, ma vengono contestate alla radice nella loro funzione sociale? Proprio chi ha a cuore la reciproca autonomia di politica e sindacati dovrebbe riconoscere che c’è uno spazio che la politica partitica, anche quella a più alto tasso di leaderismo e di presa carismatica, non può occupare.

La società degli individui atomizzati, sciolti da ogni legame, del cittadino monade sempre più solo davanti alla burocrazia pubblica e al mercato, è il terreno ideale per affermare il primato non della politica, ma dell’autoregolazione degli interessi economici più forti, a cui il leader di turno può offrire al più una copertura mediatica.

L’altro lato del deperimento della forza di decisione della democrazia è l’attacco allo Stato e alle sue strutture, un altro elemento fondante dell’egemonia neo-liberista degli ultimi decenni. Un attacco che ha utilizzato la giusta esasperazione dei cittadini per le inefficienze della pubblica amministrazione non per rendere più efficace e indipendente la burocrazia, ma per destrutturala, senza alcun vero piano di ammodernamento, senza investimenti, senza assunzioni di professionalità di qualità e di giovani.5

Come se davvero la mitologica ‘lotta alla burocrazia’ dovesse coincidere con la distruzione della burocrazia, che -ricordiamocelo, ce lo hanno insegnato i classici del pensiero politico e giuridico contemporaneo- è l’essenza dello Stato moderno, il presidio della sua imparzialità e dell’universalità dei suoi servizi. Oggi è evidente quanto questa presunta lotta alla burocrazia abbia in realtà enormemente peggiorato il groviglio amministrativo e legislativo del Paese, a colpi di deroghe, strutture speciali, eliminazione di controlli, presunte semplificazioni fatte sovrapponendo norme a norme, ampliamento del numero di dirigenti a chiamata diretta della politica. E quale enorme brodo di coltura tutto ciò abbia creato per l’ulteriore sviluppo della corruzione. C’è di che riflettere in visita dell’approvazione della delega sulla riforma della pubblica amministrazione.

Dopo gli ultimi episodi, peraltro, sul fronte del contrasto alla corruzione e all’evasione fiscale davvero non si può più attendere quel cambio di passo del governo che finora non c’è stato.

Così come occorre cambiare atteggiamento nei confronti degli Enti locali (ascolteremo alcuni amministratori nel corso della giornata). Siamo passati in troppo poco tempo dall’inseguimento di un federalismo para-leghista all’idea che il motto reaganiano di ‘affamare la bestia’ vada applicato a Regioni, Province e Comuni. Forse con più equilibrio dobbiamo tornare al sano autonomismo della Costituzione e all’idea che una rete di enti locali messi in grado di svolgere le loro funzioni sia una componente essenziale del tessuto democratico della nazione.

Qui incrociamo il tema delle riforme. Diciamolo con onestà intellettuale: è un errore per la sinistra criticare le riforme gridando al rischio autoritario, come se la concentrazione del potere e la crisi della rappresentanza non fossero già tendenze consolidate.

Il declino del ruolo del Parlamento - dei Parlamenti - è in corso da decenni. La sovranità democratica nazionale è stata compressa dalla forza del mercato globale, dalla finanziarizzazione dell’economia e in Europa, in maniera ancora più accentuata, dai vincoli della moneta unica. Buona parte della sinistra, sia riformista che radicale, nei decenni scorsi ha pensato di fronteggiare questo problema trasformando il vecchio internazionalismo proletario in un vago globalismo cosmopolitico e in un’adesione acritica a tutto ciò che si presentasse con un’intonazione europeista, anche se di matrice tecnocratica. Si è così totalmente rimosso un piccolo problema: la civiltà occidentale non ha mai conosciuto finora la democrazia fuori dagli Stati nazionali.

E’ perciò un errore gridare al rischio autoritario, come se il rischio di uno svuotamento della democrazia non incombesse da tempo e per ragioni ben più corpose di una riforma costituzionale. Ma è un errore non meno grave pensare che basti uno spostamento dei poteri a favore del governo, e all’interno del governo a favore del premier, come se non fosse già dimostrato che tutto questo è assolutamente insufficiente.

Allora riconduciamo il discorso sulle riforme a una dimensione più sensata e più vera. Sì al superamento del bicameralismo. Sì alla riduzione del numero dei parlamentari. Sì a una più funzionale e chiara ripartizione delle competenze fra Stato e Regioni. Sì alla fiducia al governo solo alla Camera. Sì a una legge elettorale che metta in equilibrio rappresentanza e governabilità. In 6

sintesi, sì a riforme ragionevoli ed equilibrate, ovvero a una manutenzione della seconda parte della Costituzione che renda meglio perseguibile l’attuazione dei principi fondamentali della prima parte.

Ma i testi di riforma finora approvati dal Parlamento necessitano di alcune fondamentali correzioni per raggiungere questi obiettivi. Testi peraltro prima blindati con il Patto del Nazareno e ora considerati immodificabili nonostante il voto contrario di Forza Italia, per mesi indicata come impedimento a miglioramenti che pure il governo giudicava ragionevoli.

E allora adesso davvero non si capisce perché non si possa restituire agli elettori di tutti di partiti la scelta della maggioranza dei parlamentari. Perché non si debba pensare a come evitare che un partito che prenda meno di un quarto o di un quinto dei voti al primo turno al ballottaggio da solo, senza alcuna alleanza, possa conquistare la maggioranza assoluta dei seggi. Perché non si possa riaprire (trovando gli opportuni strumenti regolamentari) la discussione sulla natura del nuovo Senato non elettivo, attualmente un ibrido senza identità, rendendolo una vera Camera delle autonomie. Perché non si possa rendere più flessibile e funzionale il nuovo articolo 117, evitando il riaprirsi di un contenzioso davanti alla Corte Costituzionale.

Ecco alcuni mirati e significativi cambiamenti al pacchetto delle riforme, che mettano in equilibrio il sistema e allarghino gli spazi di partecipazione e rappresentanza.

Adesso il treno delle riforme si è di nuovo improvvisamente fermato, in attesa forse degli sviluppi del patto del Nazareno dopo le elezioni regionali. Mi permetto di avanzare un’ipotesi di lavoro. Perché non utilizziamo le settimane che ci separano dalle regionali non per scrutare i movimenti dentro Forza Italia e capire in quale misura si riesca a resuscitare il Patto del Nazareno, ma per riaprire un confronto vero nel PD, con un gruppo di lavoro congiunto Camera-Senato, a partire dai membri delle Commissioni Affari Costituzionali, verificando la possibilità di un’intesa su un insieme ristretto ma qualificato di modifiche a legge elettorale e riforma costituzionale?

Se c’è l’intesa e l’impegno di tutto il PD, l’esperienza dell’elezione di Sergio Mattarella (il momento più alto della vita del PD nell’ultimo anno, grazie al quale abbiamo portato un galantuomo e una figura di alta garanzia al vertice della Repubblica) ci dice che in Parlamento possiamo costruire intese ed esercitare una forza di attrazione in un ambito molto vasto.

Allora si potrebbe prendere l’impegno con un percorso parallelo Camera-Senato (in cui la Camera interviene solo sulla legge elettorale e il Senato solo sulla riforma costituzionale, garantendo l’approvazione senza modifiche nei successivi passaggi) ad arrivare all’approvazione definitiva della legge elettorale e alle prime due delle quattro deliberazioni conformi sulla riforma costituzionale entro il mese di settembre, e comunque prima dell’inizio della sessione di bilancio. I due successivi e definitivi passaggi della riforma costituzionale, previsti a distanza di tre mesi, verrebbero a gennaio, dopo la sessione di bilancio, in modo che prima dell’estate 2016 l’iter delle riforme si concluderebbe definitivamente con il referendum confermativo.

Non mi pare una proposta da frenatori o sabotatori, e il nostro segretario-premier ha già potuto sperimentare, forse con suo stupore, che siamo gente seria, quando prendiamo un impegno lo rispettiamo.7

Oggi, al termine di questo confronto, penso che insieme potremo assumere un impegno a essere coerenti in Parlamento con questa ferma volontà di migliorare le riforme senza bloccarle, ma di non piegarci in nessun caso all'idea di riforme purchessia.

E allo stesso tempo possiamo far partire questo campo di confronto delle diverse sensibilità della sinistra nel PD. Nel rispetto del pluralismo delle posizioni, delle idee, dei percorsi, che l’iniziativa di oggi non vuole certo cancellare. Un campo di confronto che nei territori e a livello nazionale ci serva a far capire che senza una sinistra forte e riconoscibile il progetto del PD rischia di non esserci più e che lo stesso cambiamento del Paese rischia di assumere forme gattopardesche.

Un confronto che costruisca una nostra analisi e terapia della crisi nazionale ed europea e che la metta a disposizione del PD e dell’Italia.

Un confronto che ricostruisca il profilo di una sinistra popolare, che sappia di nuovo contendere al populismo regressivo della destra una capacità di rappresentanza e mobilitazione dei ceti popolari e del mondo del lavoro.

Una sinistra nazionale, che non consegni alla deriva xenofoba del leghismo il tema della difesa della sovranità democratica e dell’interesse nazionale, consapevole che spesso questa difesa coincide con la possibilità stessa di rappresentare i ceti popolari.

Una sinistra che creda nella forza della democrazia italiana, che rifiuti la logica per la quale non ci sono alternative al pensiero unico di Bruxelles e ai ‘compiti a casa’ da fare senza discutere.

Una sinistra che dica no alla denigrazione e all’auto-denigrazione dell’Italia, che valorizzi la specificità dell’apporto del cattolicesimo democratico, che sappia aderire di più alle pieghe e alle particolarità di questo Paese, all’originalità della sua struttura culturale, produttiva, demografica.

Una sinistra che sappia costruire dal basso, contro lo strapotere del capitale finanziario, un nuovo moderno patto fra produttori, in cui anche il lavoro autonomo e la piccola e media impresa siano finalmente riconosciuti nella loro centralità.

Una sinistra che non si affidi alla mistica di un cambiamento senza aggettivi e senza visione, all'esecuzione di uno spartito scritto da altri o al semplice addolcimento delle idee della destra.

Un sinistra che torni a investire sulla partecipazione nella convinzione che l’Italia possa farcela dalla parte dei valori costituzionali fondamentali: il lavoro, l’uguaglianza, la dignità della persona.

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