Il senatore Zanda al convegno "Tangenziale Verde"
Il 21 aprile
l’Associazione RES ha organizzato un convegno per il lancio di un comitato “Tangenziale
verde”.Nella ex mensa dell’Istituto militare del Castro Laurenziano ora trasformato
in aula didattica della Facoltà di Medicina,l’infaticabile architetto Grenon ha
illustrato il nuovo progetto elaborato dallo studio di cui è associata per la
riqualificazione urbana del tratto della vecchia tangenziale che va da Batteria
Nomentana a Via Lorenzo il Magnifico.Dagli orti urbani alla tangenziale verde,dai
giardini pensili all’affascinante idea di “coltiviamo la città”.Incassata la
decisione del Comune di abbattere il tratto sopraelevato della tangenziale fronte
la Nuova Stazione Tiburtina,il cui bando ancora non è stato pubblicato,per nulla delusa,l’architetto
Grenon ha aggiornato il suo progetto e lo ha presentato coadiuvata dalla
presenza di opinion maker dei settori più disparati che ,chi per un verso chi
per un altro,hanno appoggiato con dotte argomentazioni il progetto.Padrino del
pomeriggio ,un inedito senatore Zanda e il giornalista Fazzuoli,arruolati alla
causa della Grenon.Nelle more della presentazione è stato anche ventilato un appoggio al progetto del Sindaco Marino.
Ora ,senza
entrare nel merito della proposta di costituzione del Comitato,ci sembra
comunque singolare che sia stato organizzato un evento del genere con tutto
questo fuoco di fila ,se l’obiettivo non era impressionare l’interlocutore
Sindaco e politica cittadina in primis.Gli amministratori comunali e quelli
piccini municipali si sono tenuti lontani da questo convegno,ma,abbiamo fiutato nell’aria,lo sappiamo che non è molto
giornalistico, una certa intesa con l’amministrazione capitolina .Diversamente
non si sarebbe spesa l’autorevolezza del senatore Zanda,che ricordiamo attuale capogruppo
del PD al Senato e uno degli ex Rutelli boys che
ora vanno per la maggiore dalle parti di Palazzo Chigi.E conosciamo
tutti le simpatie di Marino per non sospettare almeno un suo giudizio benevolo
nei confronti del progetto.
Inoltre ci continua a sfuggire la posizione dell’Università
,sponsor del pomeriggio.Se da una parte siede in un gruppo di lavoro composto
da Comune , Municipio e cittadinanza che
si propone di studiare le possibili soluzioni sia per l’abbattimento che per la
risistemazione dell’intera area,dall’altra si fa promotrice di un comitato che
smentisce e devitalizza i risultati del gruppo di lavoro.Posizione ambigua che
ancora nessuno ci ha spiegato (lo abbiamo chiesto al Municipio e siamo in attesa di risposta)
I cittadini
infine.Pazientemente hanno aspettato la fine del convegno per dire la loro.Ma
sono stati ascoltati da un pugno di resistenti e con una certa disattenzione da
parte degli organizzatori.
Non vogliamo
esprimere un parere sul progetto presentato dall’associazione RES.Riproponiamo
però un post dell’architetto paesaggista Monica Sgandurra pubblicato da Tre
Righe e ripreso dal sito di Paesaggio critico.
Sebbene del
2014 ,riteniamo l’articolo sempre attuale.
Domenico Fischetto
da paesaggiocritico.com
Questa non è l’High Line
di
Monica Sgandurra
L’High Line la conosco bene.
Ma molto bene.
Da prima che nascesse, da quando c’erano ancora le erbacce e i suoi “amici” cercavano
le modalità di valorizzazione di quello che all’epoca era un piccolo mondo
spontaneo, nato sopra ad una infrastruttura abbandonata all’interno del tessuto
urbano della città icona della supermodernità, nella quale tutto è possibile.
La conosco bene perché l’ho studiata fin dal principio, è dentro la mia tesi
di dottorato di ricerca discussa nel 2001.
Ho partecipato al primo concorso di progettazione che i Friends of the High
Line avevano indetto nel 2002 per raccogliere spunti, idee, suggestioni, racconti,
intorno a quella che consideravano non solo un potenziale di biodiversità
all’interno della città, ma anche un’occasione di riscatto di un luogo
abbandonato che poteva trasformare e trascinare con la sua forza un intero
quartiere, allora depresso.
Ho seguito tutte le fasi del ragionamento sulla sua ideazione, costruzione,
sviluppo con l’attenzione dello studioso che vuole capire e conoscere come è
possibile che da un giardino si arrivi alla rigenerazione urbana.
Perché stiamo parlando di un giardino, non di orti urbani, né di vigneti o
meleti.
Ho letto tutte le pubblicazioni possibili, ascoltato conferenze, come
architetto ho seguito la sua costruzione, studiato i brevetti che sono stati
realizzati appositamente per il “pacchetto tecnologico” della sua
sovrastruttura, come paesaggista ho studiato le composizioni di perenni,
graminacee, biennali e così via.
Ho studiato la capacità sociale ed imprenditoriale di questa operazione,
capito i processi e le tappe.
E infine l’ho visitata.
Ho centinaia di fotografie, i miei appunti, che mi servono tutt’ora per
continuare a studiare questa meraviglia.
Posso asserire, con una giusta e sacrosanta presunzione, che ho la capacità
di tenere lezioni (cosa che ho fatto) e conferenze su tale argomento.
Detto ciò posso asserire che l’High Line è un GIARDINO.
Se a qualcuno è sfuggito, se qualcuno ha un po’ di confusione al riguardo,
se qualcuno non sa qual è la differenza tra un orto ed un giardino, allora è il
momento di allontanare le incertezze di chiarirvi le idee e dirvi che l’High
Line è un meraviglioso, costoso, superbo GIARDINO contemporaneo.
Questa introduzione per arrivare al cuore di questo post, all’argomento che
tratterò.
Parleremo finalmente del progetto per la riqualificazione del primo tratto,
oggi parzialmente in disuso, della Tangenziale Est di Roma.
Questo inverno, quasi dal nulla, è apparso un progetto, una ipotesi di
struttura verde ideata dallo studio romano Sartogo & Grenon associati.
Il progetto, presentato in fase embrionale, o così ci sembrava, si mostrava
come un sistema di coltivazioni agricole poste sopra la copertura del primo
tratto della infrastruttura viaria, quello che da ponte Lanciani arriva alla
Stazione Tiburtina.
Il progetto non mi convinceva da molti punti di vista. Come paesaggista leggevo
delle forzature lessicali e di senso fin troppo evidenti tanto da persuadermi
che non era importante parlarne qui, su Paesaggiocritico.
Ma le domande che questa operazione porta in se fin dal principio si sono
nel frattempo moltiplicate, come anche le perplessità sia sull’oggetto (il
progetto), sia sulle modalità di conduzione dell’operazione.
La mia disamina sarà quindi articolata in tre parti.
Prima parte.
Come è nato questo progetto? Qual è la sua genesi?
Tutto nasce dall’Associazione RES Ricerca Educazione Scienza, una
“Associazione [...] apartitica, non ha fini di lucro ed è costituita per
operare nella società con il proprio apporto manuale e intellettuale, per una
crescita armonica della vita sociale, culturale, comunitaria ed economica, per una
educazione innovativa e per la diffusione di una cultura scientifica e
tecnologica, nel rispetto e nella tutela dell’uomo e dell’ambiente”.
L’architetto Nathalie Grenon Sartogo è il Segretario generale di questa
associazione.
Leggendo i vari articoli sulla stampa nazionale pubblicati al riguardo si fa
fatica a capire la genesi di questa operazione e quindi, onde evitare equivoci
al riguardo, riportiamo la descrizione della nascita di questa operazione
descritta sul sito dell’associazione dal suo presidente Raffaella Morichetti:
“Dal 2005 RES sostiene varie iniziative sul tema della città sostenibile, in
particolare il Progetto Pilota “Coltiviamo la città”, che prende forma nel
quadro dell’Agenda 21 dopo gli Stati Generali di Roma Capitale.
A una prima conferenza urbanistica sul futuro della nostra città, tenuta
l’8-9 aprile 2010, fa seguito l’invio di un progetto RES a Roma Capitale per la
partecipazione della società civile alla città sostenibile.
Non ricevendo risposta, nel quadro dell’Agenda 21 l’iniziativa viene
sviluppata con l’arch. Nathalie Grenon, Segretario Generale dell’Associazione,
nel Progetto “Coltiviamo la città” per intervenire in punti critici del
territorio nell’ottica della riqualificazione ambientale e con il beneficio
della massima sinergia in ogni Municipio. Nel 2011, in riferimento all’adesione
del Comune di Roma all’Agenda 21, il III Municipio (ora II) condivide
all’unanimità in una seduta di Giunta il Progetto Coltiviamo la città elaborato
avvalendosi della consulenza a titolo gratuito dello studio Sartogo, in quanto
finalizzato al recupero di aree degradate e/o in stato di abbandono da
trasformare in aree verdi a servizio della qualità della vita dei cittadini”.
(tratto da
http://www.associazioneres.org)
Ricapitoliamo.
Un progetto RES viene mandato a Roma Capitale nel 2010 che non ottiene
nessuna risposta, nessun seguito.
In virtù di ciò viene sviluppata ulteriormente l’iniziativa (seguendo i
dettami dell’Agenda 21) dall’architetto Grenon.
Nel 2011 a seguito dell’adesione da parte del Comune di Roma all’Agenda 21
il progetto “Coltiviamo la città” (realizzato con la consulenza a titolo
gratuito dello studio Sartogo) viene presentato ad una seduta della Giunta del
III Municipio, oggi II.
Nel febbraio 2014 inizia il battage pubblicitario di questo progetto che
all’apparenza non esce come una consulenza, ma come un progetto redatto dallo
Studio Sartogo & Grenon associati, perché quella è la firma unica in calce
ai disegni che sono diffusi sulla stampa.
Si tratta quindi di un progetto o di una proposta fatta a titolo gratuito
per l’Associazione RES che sta cercando dei finanziamenti e la possibilità di
essere recepito (questa volta come incarico professionale) dal Comune di Roma?
E cosa farà il Comune di Roma e la sua Giunta?
Continuerà la meravigliosa attività del suo predecessore nel dare incarichi
(consulenze, progettazioni?) per realizzare opere pubbliche a professionisti a
titolo gratuito?
Il progetto, nel frattempo è uscito dallo studio di architettura
Sartogo-Grenon e da fonti giornalistiche, sembra debba costare la bellezza di
21 milioni di euro di cui 4,5 milioni a carico di Roma Capitale.
E qui iniziano le domande, tante.
C’è stata effettivamente una vera partecipazione cittadina alla costruzione
di questo progetto o invece la partecipazione è stata solo quella della
presentazione del lavoro in alcuni incontri post progetto?
Insomma, mi piacerebbe almeno vedere e leggere i documenti relativi al
processo partecipativo della cittadinanza e di come è stato portato avanti il
progetto di ascolto (così come è stato, ad esempio, per il progetto della
piazza di Testaccio) in modo da arrivare al perché di questa scelta.
E l’incarico a chi andrebbe, all’Associazione Res (associazione senza fini
di lucro) o ai due professionisti? Oppure ad un certo punto il Comune con il
suo ufficio tecnico farà un progettino con la consulenza (a titolo gratuito,
ben inteso) dei due progettisti romani?
Questa è la prima domanda sul senso e le modalità dell’operazione che ci
viene spontaneamente di formulare.
In tutto questo c’è un’altra questione che si intreccia, e a volte sfuma
nell’altra, in modo poco chiaro: quella dell’abbattimento del tratto
sopraelevato davanti alla Stazione Tiburtina: 450 metri di infrastruttura con
relative rampe.
Il progetto della Stazione prevedeva la realizzazione di una piazza
antistante e lo spostamento dei capolinea dei pullman sull’altro lato della
stazione. Questo significa che la Stazione deve essere liberata, prima o poi,
dal passaggio aereo del tratto antistante, una volta completato il passante
sotterraneo della nuova Tangenziale.
Il Comune di Roma, sul suo sito istituzionale annuncia a febbraio 2014
l’avvio del processo partecipativo per l’abbattimento (denominato primo lotto)
da iniziare nel prossimo gennaio 2015.
Dal sito si annuncia anche un’altra cosa, ossia che il progetto che dovrà
uscire da questa operazione di partecipazione cittadina, dovrà anche prevedere:
“il restyling complessivo della zona: il tratto della tangenziale tra Batteria
Nomentana e la Stazione diventerà una strada di quartiere con due corsie (più
una complanare), tre rotatorie, parcheggi a raso, un parco lineare attrezzato
per i bambini e lo sport e una pista ciclopedonale fino a ponte Lanciani. Per
la sistemazione definitiva del piazzale saranno coinvolti i privati”.
(tratto da:
http://www.comune.roma.it/wps/portal/pcr?contentId=NEW593754&jp_pagecode=newsview.wp&ahew=contentId:jp_pagecode).
Comune di Roma – Piano di assetto per la riqualificazione dell’area della
Stazione Tiburtina, 1999.
Non si fa riferimento allo stanziamento, ma gli articoli usciti in
quell’epoca parlavano di cifre intorno ai 6-9 milioni di euro già stanziati per
questa prima demolizione.
Oggi si apprende, inoltre, sempre dai giornali, che “ha aggiunto Grenon – a
maggio abbiamo incontrato l’esecutivo del sindaco, e gli assessori Masini e
Caudo ci hanno detto che sono riusciti a bloccare gli appalti per la
demolizione delle rampe a Ponte Lanciani e Tiburtina. Ora facciamo l’ultimo
passo”. (tratto da IL TEMPO, 29 luglio 2014).
L’ultimo passo per cosa? Per questo progetto?
E questo progetto dove troverà i finanziamenti e come?
E chi li chiederà?
E dove andranno a finire i soldi già stanziati per la demolizione? E quei
soldi già stanziati sono delle casse del Comune o fanno parte del progetto FS
della Stazione Tiburtina?
E gli appalti bloccati per la demolizione sono stati già aggiudicati? Perché
se così fosse forse il Comune dovrà iniziare a pagare delle penali e questi si
che sarebbero soldi pubblici persi per annullare una decisione presa (bene,
male, non è importante in questo passaggio), dopo anni di riflessioni e che
viene buttata all’aria per non si sa bene cosa.
Insomma, l’operazione è confusamente complessa, ha bisogno di chiarimenti,
di prese di posizioni chiare, di risposte limpide e precise, soprattutto da
parte del Comune e del II Municipio.
Seconda parte.
Il progetto.
Partiamo dalla sua descrizione.
Il “tema” affrontato è quello di “Coltiviamo la città”, ossia la moda
imperante in Italia di coltivare, nei luoghi più inquinati del nostro
territorio, ossia al centro delle nostre città, orti e frutteti.
E qui inizio a fare delle riflessioni generali sull’argomento.
Con lo slogan che “coltivare è bello” perché è utile, si fa passare l’idea
che gli spazi verdi possibili oggi per le nostre città possano essere solo
quelli di carattere produttivo. Quindi il destino delle nostre città è quello
di fornire insalate e pomodori coltivati ad altezza tubo di scappamento, o giù
di lì, come se fossimo assediati dal nemico e ridotti ad una condizione di
assedio e quindi di autoproduzione per sopravvivere. Assedio da cosa? Dalla
campagna esterna che è al di fuori della città?
Ormai la risposta è univoca, se non si fanno orti non si può più pensare il
verde urbano.
E noi italiani che siamo scappati dalle campagne perché la condizione di
contadini non volevamo più sostenerla, ci ritroviamo come cittadini a zappare
qualche centimetro di terra su una soletta di cemento armato.
Perché?
Le città sono per loro costituzione luoghi artificiali, non sono luoghi
naturali, né luoghi da rinaturalizzare (è un controsenso) perché ciò
significherebbe radere al suolo tutto, togliere le macerie e piantare le
foreste.
Le città sono luoghi artificiali che hanno bisogno di altri luoghi
artificiali che si chiamano GIARDINI.
La città ha bisogno di giardini, di luoghi dell’ozio, di bellezza, non di
standard urbanistici o di operazioni che possono benissimo essere fatte in
situazioni più consone. E qui mi riferisco alle frange urbane, a quei luoghi di
nessuno dove la campagna arriva o si arresta e dove potrebbe avere un senso
coltivare il cavolfiore.
La città ha altresì bisogno di strutture verdi che in qualche modo abbiano
anche una rilevanza sul comfort ambientale. Un vigneto messo sul bordo di una
ferrovia, per esempio, non ha nessuno impatto circa la possibilità di attenuare
l’inquinamento che il passaggio di centinaia di treni al giorno provoca
nell’ecosistema locale. Forse un filare di Tigli (alberi resistenti allo smog)
con le loro chiome compatte e le foglie larghe si, può avere una piccola
rilevanza nel protezione dell’immediato fronte urbano.
L’ultima considerazione generale è quella che mi porta a dire che vorrei che
chi ha l’impellente bisogno di coltivare qualche cosa, andasse a coltivare le
campagne, quelle vere, quelle che hanno reso famosi i nostri paesaggi, nella
considerazione che forse un’operazione del genere sarebbe più rivoluzionaria,
più potente perché andrebbe ad operare e mantenere e rigenerare e riproporre e
trasformare e controllare il nostro territorio e soprattutto il nostro
Paesaggio, famoso in tutto il mondo. Sarebbe una vera e propria rivoluzione
paesaggistica.
Questo per esplicitare la mia posizione circa il progetto che prevede la
realizzazione di orti, vigneti, frutteti, un mercato a chilometro zero ed altre
attrezzature.
In effetti nel leggere le didascalie dei disegni pubblicati questo progetto
sembra, oltre ad un catalogo di soluzioni molto diffuse, un decalogo del
perfetto coltivatore urbano. Una sorta di spazio agronomico dove coltivare
meli, ortaggi, viti ed altro.
Insomma una passeggiata in mezzo ad una “spiga di grano” (questa era
l’immagine-suggestione del progetto) dove far passeggiare i nonni con i nipoti.
Ma li avete visti i nonni di oggi? Agili e scattanti se ne vanno in palestra o
in viaggio di piacere con le loro badanti del momento, dei nipoti non ne
vogliono proprio sapere nulla ……
L’elenco continua con un meleto (meli a Roma? per esperienza personale ho
provato a piantarli nel punto più freddo della città e vi assicuro che
l’operazione è stata fallimentare – i meli hanno bisogno di freddo, non di
isole di calore), un fruttaio con auditorium per conferenze, orti per le
scuole, un parco per skate in mezzo all’area dove piantare gli alberi per i
neonati, una operazione di rutelliana memoria (e qui l’immagine prodotta di
questo ambito è abbastanza inquietante e scarna nei suoi risvolti espressivi).
Insomma tutto un elenco di interventi dal linguaggio orticolo-sostenibile.
Descritto in questo modo sembra quasi una meraviglia se vi piace
l’approccio, ma in realtà l’esito formale è un po’ debole, ha molte incertezze
che lascio al vostro giudizio.
Viene da domandarsi come sono stati risolti i problemi di viabilità di
questo quartiere, come sono stati studiati i flussi del traffico e tutto ciò
che riguarda proprio il funzionamento del tessuto urbano in relazione alla
viabilità e sosta.
Mi permetto solo di fare un appunto, dei tanti possibili che mi saltano agli
occhi: possibile che da un punto di vista espressivo si sia fatto riferimento,
quasi da “copia ed incolla” ad una realizzazione che per noi paesaggisti è un
pezzo di storia moderna, e non si sia fatto lo sforzo di ideare, realizzare
un’idea formale diversa, personale?
Perché Roma dovrebbe avere una copia allungata, “strecciata”, di quello che
è il Naerum Allotment Gardens di Carl Theodor Sørensen, nei pressi di
Copenaghen, progettato nel lontano 1952?
E’ corretto, questo va detto, nella progettazione fare riferimento,
studiare, proporre forme analoghe a esperienze passate che hanno avuto un certo
successo, ma riproporre una struttura formale senza un passaggio critico di
elaborazione è abbastanza discutibile. Forse bisognerebbe avere ben altre
visioni che ti portano ad essere ricordato non come quello degli orti romani
alla Sørensen.
Forse Roma meriterebbe progetti con capacità espressive originali, così come
è successo dall’altra parte dell’Oceano con il lavoro di Piet Oudolf per quel
meraviglioso giardino tanto evocato da tutti.
E qui veniamo alla terza ed ultima parte.
L’informazione.
A febbraio scorso, e poi a fine maggio, e adesso a fine luglio, i quotidiani
nazionali hanno accolto nelle loro pagine di cronaca la notizia di questo
progetto.
Se si leggono tutti di seguito gli articoli, anche quelli di testate on
line, sembra che questo progetto sia stato ampiamente discusso, approvato,
visto, digerito, finanziato, e soprattutto che la sua realizzazione è
imminente, con il taglio del nastro prima dell’Expo’ di Milano 2015.
Un delirio.
Un delirio di parole, tanto che mi viene da pensare che ormai i progetti non
si facciano più negli studi, ma che si sia prodotta un’altra possibilità del
progetto, ossia quella che passa e viene costruita e realizzata quasi
esclusivamente attraverso l’informazione.
Quindi la battuta che circola riguardo il fatto che ormai la politica non la
fanno più i politici ma la fa l’informazione, la fanno i giornalisti, mi fa
pensare che la stessa cosa può essere in qualche modo applicata al mondo della
progettazione.
Un progetto potrebbe essere, per assurdo, svuotato di tutto: di iter, di
discussioni e dibattiti pubblici, di approvazioni, di documenti, di passaggi
tecnico-istituzionali ed essere catapultato direttamente nella realizzazione
attraverso il passaggio nei
media. Basta trovare delle parole
ricorrenti, delle parole chiave tormentone e politicamente corrette, e qualche
rendering, qualche immagine accattivante, fare l’elenco delle
facilities,
con appelli alla sostenibilità e al miglioramento della vita comune e il gioco
è fatto: pubblichi il risultato, realizzi e costruisci.
Facile, no? Pensiamoci!
E poi perché, mi chiedo, generare confusione pubblicando a corollario degli
articoli usciti non le immagini del progetto Sartogo-Grenon, ma le foto della
High Line di New York, come se fosse la stessa cosa.
Non è la stessa cosa, l’operazione romana non è il giardino realizzato da
Diller e Scofidio + Refro con Corner Field Operations e il paesaggista Oudolf
per la famosa passeggiata verdeggiante.
E allora la cosa diventa forviante, l’informazione da’ una notizia
raccontandola formalmente in un altro modo e chi non sa, chi non conosce, crede
di ritrovarsi, un domani, a passeggiare a Roma su una cosa simile alla High
Line. NO.
Al termine di questo lungo post voglio ricordare una cosa, ossia che una
città come Roma non può fare progetti a singhiozzo, non può produrre risposte
parziali che non tengono conto dell’organismo, che non tengono conto del
funzionamento e del destino futuro di una infrastruttura urbana così
importante. Il pensiero e la risposta non può essere il progetto di un piccolo
tratto di un organismo che prima o poi sarà dismesso, ma c’è bisogno di un
progetto articolato che per fasi restituisca alla città un altro luogo.
In tutte le più grandi città mondiali il tema della riconversione delle
infrastrutture è molto sentito e studiato sempre nella sua complessità, non in
una sezione così parziale (1700 metri su circa 7000), come nel caso della
nostra Tangenziale.
Per anni, come ci ricorda un pezzo scritto sulla PresS/Tletter del 28
febbraio 2014 da Massimo Locci, sono stati fatti studi, progetti, tesi di
laurea e convegni sul destino della Tangenziale, attraverso l’associazione
“Amici del Mostro”. Un lavoro serio, a “cui hanno aderito numerosi architetti e
intellettuali, per sollecitare un dibattito senza pregiudizi sul futuro della
tangenziale. Proprio sulla scorta di positive esperienze internazionali, a
Parigi e New York, di riuso di viadotti ferroviari e carrabili avevano proposto
di realizzare un parco lineare e attivato un processo partecipativo con i
residenti, con happening urbani, laboratori didattici nelle scuole, incontri
all’In/Arch, esposizioni di progetti e tesi di laurea degli studenti di
architettura, fino all’ottenimento nel 2007 di un parere positivo sull’ipotesi
di un Parco Urbano da parte della Commissione Cultura del Comune di Roma”.
(tratto da
http://presstletter.com/2014/02/sopraelevata-di-san-lorenzo-di-massimo-locci/)
Locci si domanda alla fine dell’articolo, perché siamo il paese che deve
azzerare le cose, perché dobbiamo sempre e comunque ripartire da zero e non
fare tesoro delle esperienze effettuate e invece sprecare continuamente il
lavoro intellettuale già in parte svolto?
E io domando, perché dobbiamo accettare un progetto simile che non è il
risultato di un concorso, che non è emerso da una sana dialettica, che non è
frutto di una giusta interrogazione sociale e culturale, ma è invece posto come
unica possibilità di trasformazione di questo pezzo di città?
Perché il Comune non fa, come sarebbe normale che fosse, un concorso, magari
internazionale, di progettazione?
Perché l’Ordine degli Architetti di Roma non dice nulla al riguardo?
Perché l’AIAPP (l’Associazione italiana degli architetti del paesaggio)
tace, non si esprime, nel bene o nel male, al riguardo?
Sembra come se questo progetto sia la cosa migliore che Roma può avere e che
tutti siano entusiasti e pronti a prendere la zappa in mano per realizzarlo.
Ma siamo proprio sicuri che sia così? Perché se così è, allora alzo le mani
e mi congratulo con Sartogo e Grenon, pur rimanendo della mia opinione e con le
mie perplessità.
Chiudo ritornando all’inizio di questo lungo articolo: questa non è l’High
Line, purtroppo.
Cari lettori, colleghi, “cultori della materia”, appassionati, io ho detto
la mia, ora sta’ a voi dire la vostra, perché in Italia, vi ricordo, vige il
“silenzio assenso” e quindi non vi meravigliate se domani davanti alla vostra
finestra appare inspiegabilmente qualche cosa di strano.
Sarà troppo tardi per parlare, per chiedere spiegazioni.
La parola perciò passa a voi.
p.s. l’articolo, per scelta, non pubblicherà le immagini del progetto
recensito, ma vi invitiamo caldamente a prenderne visione per una completa
informazione sul sito del quotidiano La Repubblica, nell’articolo pubblicato il
28 luglio 2014. Il link è
http://roma.repubblica.it/cronaca/2014/07/28/news/ex_tangenziale_ecco_il_progetto_dell_orto_urbano-92597847/