La Turchia è stata sotto i riflettori dell'opinione pubblica mondiale dopo le forti parole di condanna di Papa Francesco per il genocidio del popolo armeno.Ma l'Italia cosa fa?Qual'è la sua politica estera nei confronti dello stato turco?Pubblichiamo questo articolo apparso sulla newwsletter di affari internazionali che esamina la storia delle relazioni italo-turche e ne traccia un giudizio concreto ,realistico.Solo un appunto:L'autore dell'articolo dimentica, che la Turchia si è macchiata, ,oltre che nei confronti del popolo armeno e quello curdo ,quarant'anni fa di crimini orrendi invadendo la Repubblica di Cipro e che questa situazione permane tuttora.E da questa dimenticanza traiamo un segnale molto importante e pericoloso nello stesso tempo:la pubblica opinione ha rimosso questa ennesima violenza perpetrata dal governo turco nei confronti di un altro paese membro della comunità europea,lo ha metabolizzato,digerito quando invece la ferita sanguina ancora.
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Le parole del Papa sul massacro degli armeni, come sempre succede quando parla il Pontefice, hanno suscitato un vivo dibattito anche in Italia. Non sono in grado di valutare la ragione specifica per cui sono state pronunciate. Papa Francesco è persona accorta e un buon motivo deve esistere.
Più interessante, perché a noi più vicino, è l’immediata ondata d’indignazione che ha scosso l’Europa e l’opinione pubblica italiana con diffuse accuse al governo di essere silenzioso e imbelle. Italia-Turchia: schizofrenia politica e mediatica Noi non siamo un’autorità morale ma una nazione. Tutto ciò sembra dimostrare che quello della politica italiana verso la Turchia è da molto tempo un caso emblematico di schizofrenia dei media e in parte anche della classe politica; con buona pace della conclamata volontà di essere in prima linea fra i partigiani dell’ingresso del paese nell’Unione europea. Se si trattasse di un paese lontano il cui comportamento non ci tocca più di tanto e su cui abbiamo poca influenza, poco male. Invece è uno dei nostri principali partner economici nel Mediterraneo, membro della Nato, candidato a far parte dell’Ue; è anche uno dei pochi paesi che, se volesse, potrebbe avere un ruolo determinante per promuovere una maggiore stabilità nel Medio Oriente e nell’Africa del Nord. Eppure in pochi altri casi la nostra politica è stata trattata con maggior leggerezza. L’Italia e tutti i governi che si sono succeduti, è sempre stata in prima linea nel sostenere l’ingresso della Turchia nell’Ue. Chi scrive sostiene invece da molto tempo che il momento in cui ciò sarebbe stato possibile è passato; sia l’Europa, sia la Turchia hanno preso strade troppo diverse. Non lo dicevo per sminuire l’importanza di quel paese; al contrario, perché ritenevo che il negoziato d’adesione fosse ormai un ostacolo e non un elemento di convergenza. Con altri che sostenevano la stessa tesi, fui accusato d’insensibilità verso una importante nazione amica. Nel 1998 con incredibile leggerezza il Parlamento italiano votò una risoluzione di appoggio alla causa dei curdi. Su quella base un parlamentare di estrema sinistra portò in Italia il leader curdo Öcalan, che fu accolto con grande simpatia. La reazione turca fu violenta, con ritorsioni diplomatiche, minacce sui rapporti economici e diffuse manifestazioni nel paese promosse, con sorpresa della nostra politica, soprattutto dai partiti turchi di sinistra. Il governo D’Alema fece rapidamente marcia indietro e Öcalan si trova ora in una prigione turca. L’avvento di Erdoğan fu salutato come la prova che una vera democrazia islamica è possibile sull’esempio della nostra Democrazia Cristiana; i rapporti con Berlusconi erano particolarmente amichevoli e stretti. Negli ultimi anni Erdoğan ha messo in atto una svolta autoritaria e le simpatie nei suoi confronti si sono molto affievolite. Ciò non ha comunque impedito all’Italia di continuare a sostenere la candidatura turca nell’Ue, nella proclamata illusione che l’Europa potesse influenzare l’evoluzione della politica interna del paese. Malgrado la diminuita simpatia, quando Erdoğan mandò una flottiglia di palestinesi sulle coste di Israele con evidente intento provocatorio e ne seguì un incidente cruento, le simpatie italiane andarono ai turchi; forse perché in quel momento Israele era meno popolare. Turchia-armeni: genocidio ed emozioni Ora è esploso il dramma degli armeni durante la prima guerra mondiale. Nessuno nega che ci sia stato un massacro; nemmeno i turchi, anche se cercano di ridimensionarne la portata, le cause e il contesto. Il problema politico insorge quando qualcuno usa la parola genocidio, di cui peraltro non esiste una precisa definizione nel diritto internazionale. Che l’uso di questa parola faccia esplodere tutte le emozioni non deve sorprendere, soprattutto in Europa. Per noi genocidio è in primo luogo legato al ricordo dell’Olocausto, evento che tocca da vicino le nostre coscienze perché europee (non solo tedesche) furono le responsabilità; chiunque sia accusato di un simile crimine è implicitamente associato ai nazisti. Questo solo fatto dovrebbe incitare a una certa prudenza. Un altro motivo per cui la parola è così esplosiva è che in molti paesi europei la negazione del genocidio degli ebrei è passibile di sanzioni penali; se veramente volessimo seguire questa strada con la Turchia, dovremmo essere coscienti delle conseguenze. La Francia l’ha fatto cedendo alla pressione politica della più grande comunità armena d’Europa. Puntualmente si è ripresentato anche il Parlamento europeo mai avaro di risoluzioni, prive di effetti giuridici e politici ma di sicura risonanza mediatica. Le autorità americane sono più accorte; pur invitando laTurchia a un esame di coscienza, evitano di usare la parola genocidio. Su questa vicenda, come pure sul problema curdo, l’opinione pubblica turca sta lentamente maturando, ma le accuse provocano ancora una reazione nazionale molto forte che non si limita a chi sostiene l’attuale governo. La Turchia, ha certo interesse a fare chiarezza sugli aspetti più torbidi del suo passato; tuttavia non è certo l’indignazione, peraltro priva di conseguenze, dell’Europa che l’aiuterà a farlo. Buone ragioni per criticare le scelte turche Ci sono altre buone ragioni, più urgenti e attuali, per criticare la Turchia. In primo luogo, la svolta non positiva della sua politica interna e della gestione dell’economia. Inoltre l’ambiguità della loro politica in Siria e verso il sedicente Stato islamico, la loro visione strategica verso il Medio Oriente e l’Asia centrale, e il ruolo che intendono avere nell’approvvigionamento energetico dell’Europa. Sono questioni di interesse immediato che toccano da vicino i nostri interessi strategici nella regione più critica del pianeta. Avere una politica estera richiede essere capaci di combinare principi e interessi. Spesso non è facile. Lord Palmerston disse che l’Inghilterra non aveva amici permanenti, ma solo interessi. Il generale de Gaulle, un altro che d’interessi se ne intendeva, disse che la politica della Francia non è dettata dalla borsa. Di sicuro, né l’uno né l’altro avrebbero tollerato che fosse dettata dalle emozioni e dall’indignazione suscitate dal telegiornale della sera. Ora è il caso degli armeni, ma secondo i media dovremmo passare la vita a indignarci: per il Tibet, per il trattamento delle donne in Arabia Saudita, per la pena capitale in Iran (meno per quella negli Usa), per il rifiuto del Giappone di riconoscere i suoi crimini di guerra, per i massacri dello Stato islamico, per la tragedia degli emigranti nel Mediterraneo, per il dramma dei palestinesi, ma subito dopo anche per le minacce che gravano su Israele; la lista è lunga. In fondo, cosa vorremmo? Che i colpevoli smettano di comportarsi così o, se i fatti appartengono al passato, riconoscano i torti e facciano pubblica ammenda. Combinare principi e interessi La richiesta è spesso giustificata, almeno secondo i principi che reggono la società in cui viviamo. Spesso, agire così converrebbe anche ai presunti colpevoli; se il Giappone seguisse l’esempio della Germania nel riconoscere i suoi crimini durante la seconda guerra mondiale, sarebbe meno isolato in Asia. Il problema dell’indignazione è doppio. Essendo un fenomeno di narcisismo morale, evita la sgradevole domanda: quindi cosa facciamo? Domanda giudicata inopportuna perché ci richiederebbe di fare la guerra o di imporre sanzioni a metà dell’umanità. I governi, su cui pesa la responsabilità dei destini del paese, a volte agiscono, a volte no. Se lo fanno, è perché ritengono minacciati i loro interessi o gravemente violati alcuni principi su cui si basa l’ordine mondiale: il diritto internazionale, la sovranità e la pacifica convivenza degli Stati, con più difficoltà e cautela il rispetto dei diritti umani. Lo fanno soprattutto perché, avendo valutato rischi e opportunità, ritengono di poter ottenere un risultato; è il caso delle sanzioni contro la Russia, della guerra che si sta combattendo contro lo Stato islamico e delle iniziative che quasi sicuramente saranno necessarie in Libia. Ovviamente gli indignati non sono mai soddisfatti, salvo rifiutare le conseguenze economiche, politiche o militari delle proprie emozioni. Il secondo problema è che l’indignazione è in genere di breve durata; ci s’indigna per una causa per volta e non bisogna assolutamente perdere l’appuntamento con il nuovo orrore; i governi che si lasciano guidare da essa rischiano di essere sempre in ritardo di un telegiornale. La patria di Machiavelli dovrebbe sapere che la morale disgiunta dalla ragione, dalla valutazione delle conseguenze dei propri atti e dei propri interessi può essere cattiva consigliera. In realtà l’indignazione è l’arma degli impotenti, il supporto della politica estera di chi non riesce ad averne una. Riccardo Perissich, già direttore generale alla Commissione europea, è autore del volume “L'Unione europea: una storia non ufficiale”, Longanesi editore. |
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