7 aprile 2015

MEMORIA E CONTEMPORANEITA':UNA RISORSA DA PRIVILEGIARE

 
Pubbllichiamo un articolo “Per un Politecnico dei Beni Culturali e del Turismo"tratto dall'ultimo numero della Rivista trimestrale on line, “Territori della Cultura”,del Centro Universitario Europeo per i Beni Culturali (CUEBC). di Ravello e a firma di Salvatore La Rocca,socio dei ProgettoRoma.
 
ProgettoRoma, attraverso il Gruppo Cultura - e soprattutto attraverso gli scritti di La Rocca, Coordinatore del gruppo, che ha introdotto l’idea - si è occupato del tema del turismo come strumento di attuazione della valenza produttiva del patrimonio culturale, nel senso più nobile del termine, e della necessità di costruire un apparato formativo per coloro che di questo si debbano occupare, ad ogni livello e in ogni settore.
Con questo ultimo articolo La Rocca  amplia l’argomento e in un certo senso ne fa avvertire l’urgenza. Ne attribuisce la realizzazione, nella fattispecie il “Politecnico del Turismo”, naturalmente alle pubbliche istituzioni universitarie.
 
 
 
Memoria e contemporaneità; una risorsa da privilegiare




Al di là del valore venale, commerciale, economico, sociale, il
Patrimonio Culturale possiede ed esprime qualità ben più
rilevanti e complesse, tali da offrire, se ben sorrette da una
forte ispirazione ideale e politica, la possibilità di guardare con
fiducia ad un profondo rinnovamento, una sorta di


new deal,
della società italiana, assunta nell’ambito di quella europea.
Obiettivo da centrare cogliendo anche le opportunità che scaturiscono
dalla crisi di sviluppo in atto, al cui
esaurirsi le condizioni dei singoli cittadini e
degli apparati istituzionali e produttivi non
saranno più quelle di prima.
Gli sforzi per identificare correttamente e valorizzare
il Patrimonio Culturale compiuti dagli
studiosi, dalle strutture culturali, dalle Istituzioni,
da soggetti privati, negli ultimi decenni non
sono stati pochi; anzi, si denota una certa sovrabbondanza
ed una qualche ripetitività,
segno che non si è giunti a formulazioni e innovazioni
in linea con le nuove tendenze e le
esigenze del tempo che stiamo vivendo, caratterizzato
da profondi mutamenti della


 



provocati principalmente dalla dilatazione
globale dei processi di sviluppo economico
e dalle conseguenti trasformazioni antropologiche
e sociali.
Nella difficile congiuntura che attraversiamo
e che introduce nuovi paradigmi strutturali
destinati, con tutta evidenza,a permanere per
un durevole periodo storico, il patrimonio
culturale rischia di incorrere in una marginalità
di duplice natura: da una parte si corre l’alea
che venga considerato al pari di una delle tante comuni merci,
utili ad alimentare un lucroso consumo di massa, dall’altra, si
fa strada il timore di una strisciante involuzione del suo
profondo significato di testimonianza che guarda al futuro.
La dissolvenza della memoria e la progressiva perdita di
identità dei luoghi e delle collettività che vi insistono, provocata
da una omologazione povera di valori riconosciuti e condivisi,
appare in ultima analisi ascrivibile alla crescente frammentazione
e dispersione e, quindi, al susseguente abbandono, dei codici
storico-critici che hanno caratterizzato l’evoluzione di realtà
 
,



 



ancorate a riferimenti saldi su cui far perno nei momenti di
crescita ma, soprattutto, in quelli di precarietà ed incertezza;
riferimenti offerti dalla cultura trasmessa attraverso le sue
espressioni viventi , del passato e della contemporaneità, materializzate
nelle opere, nelle tracce e nei simboli, così come
nelle attività artistiche e culturali in genere (museali, teatrali,
audiovisive, ecc.).
Oggi la cultura ed il patrimonio culturale sono entrati a far
parte dei fattori di produzione, alla stregua di tanti altri settori
industriali e imprenditoriali. Spicca tra questi quello del
turismo. Ma non si considera sufficientemente il valore
aggiunto posseduto da questa risorsa, se viene assunta come
fattore di civilizzazione e di ispirazione politica.



“Quale Cultura, quale Sviluppo?”



diviene quindi il paradigma
della possibilità di far coesistere virtuosamente competizione
globale e sviluppo locale. Uno sviluppo, quest’ultimo, da
vedere pertanto come argine al disorientamento provocato
dalla pressione dei sistemi finanziario-commerciali a scala
planetaria e come leva per promuovere filiere produttive di
elevata convenienza per tipicità e costo. Il patrimonio culturale
è altresì la chiave per evidenziare e sostenere il tessuto imprenditoriale,
ad alto contenuto tecnologico ed innovativo,
che si muove a supporto delle attività di restauro, manutenzione,
catalogazione, conservazione e digitalizzazione e delle inerenti
esigenze di gestione; un tessuto quindi in espansione, ad alto
valore aggiunto, che può offrire significative opportunità di
sviluppo economico e di qualificati sbocchi occupazionali


.
Malauguratamente, la coniugazione tra politiche culturali e
politiche di sviluppo, nell’indifferenza verso gli archetipi della
storia, sta venendo meno, specie nel caso italiano. E ciò ha
arrecato, e sta arrecando, notevole pregiudizio all’azione pubblica,
in carenza di ispirazioni ideali ed afflato sociale, ed all’iniziativa
privata che avrebbe potuto giovarsi di una implementazione
coerente e sostenibile del patrimonio culturale,
sia sul versante dell’offerta, che su quello della sensibilizzazione,
istruzione e ricerca. Si è teso, nel settore, a vivere di rendita


,
nell’illusione che la dovizia del patrimonio culturale di cui si
dispone non ponga problemi di saturazione, che non ci si
debba preoccupare soverchiamente di


presidiare la salvaguardia
e la trasmissibilità del bene.
È passato solo qualche anno da quando un illustre Ministro
dell’Economia italiano, di fronte alla crisi economica che attanagliava,
più di altri, il nostro Paese, pronunciò la storica frase


.




Territori della Cultura



“con la cultura non si mangia”, dando corso, al contempo, a
drastici tagli del già magro budget pubblico destinato, appunto,
alla cultura. Oggi, di fronte alla mobilitazione nazionale ed europea
a favore della tutela e valorizzazione del “Cultural
heritage” (CH), l’anzidetta ottica si sta fortunatamente ribaltando.
La cultura, nel suo duplice ed inscindibile valore di


memoria e
risorsa



al tempo stesso, sembra divenire, sotto il profilo politico
e programmatico, un


fattore chiave della crescita, tant’è che
l’attuale titolare del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali
e del Turismo (MIBACT), ha affermato, all’atto del suo insediamento,
che detto dicastero andrebbe considerato come uno
dei protagonisti più incisivi sul terreno delle riforme e delle
politiche economiche.
La cultura è la fotografia della nostra storia. Considerarla lusso
è un grave errore politico


. Essa consente di infondere nella
nostra azione presente e futura, spirito e prassi fondati sulla
continuità o, perché no, sulla discontinuità, ove richiesta dal
cambiamento. Ci proietta nell’


altrove, ossia in quella dimensione
fisica e metafisica che il patrimonio culturale assume nell’arginare
la perdita di senso e nel contrastare l’irreversibile usura di un
retaggio che appartiene alle collettività e, come tale, va preservato.
Un altrove che sollecita l’immaginazione e si materializza
nella visione di nuove frontiere ideali e inediti scenari.
In estrema sintesi e senza voler ricordare tante altre efficaci
testimonianze, il significato della centralità della cultura nella
cruciale congiuntura che stiamo attraversando si potrebbe
racchiudere nella penetrante icasticità di due titoli di altrettanti
articoli del Corriere della Sera: il primo, pubblicato nel luglio
2012, a firma di Armando Torno, “


I classici hanno vinto il
tempo e continuano a spiegarci il futuro”



. Il secondo, nel
gennaio 2013, a firma di Walter Veltroni, “


Cultura, un fine non
solo un mezzo”.







La cultura turistica in Italia e la sua proiezione europea ed internazionale




Il fatto che ultimamente il


turismo, il quale come è noto è
settore di primaria competenza regionale, sia stato incluso
nel raggio di azione della struttura centrale di coordinamento
ed intervento nell’area del patrimonio culturale (Ministero dei
Beni e delle Attività Culturali e del Turismo), la dice lunga ed
introduce scenari contraddistinti da innovazioni tecnicopolitiche
di rilievo e da qualche incertezza.
Lasciando ai giuristi i dubbi sulle competenze istituzionali ai
vari livelli, sorge spontaneo l’interrogativo sulla valenza del
connubio cultura-turismo. Si potrebbe infatti correre il rischio
che il CH finisca per subire una sorta di


subalternità ed essere
considerato riduttivamente come una


merce pregiata, alla
stregua di tanti altri settori produttivi avanzati, perdendo di
vista il primo ed irrinunciabile valore che incorpora, di cui si è
detto prima, quale fattore di promozione della coscienza civile,
di un progresso caratterizzato da stili di vita,regole e buone
prassi che solo il patrimonio culturale può far intravedere attraverso
un’attenta decrittazione delle sue testimonianze. Siamo
tuttora di fronte ad una preoccupazione da tempo avvertita dal
Centro Universitario Europeo per i Beni Culturali (CUEBC), di
Ravello, che, nel 1999, ha redatto e divulgato
una “Carta dell’etica del turismo culturale”,
presentata ufficialmente, e condivisa, nella sede
dell’UNESCO, a Parigi, nel giugno del 2011.
Se quello che sembra delinearsi divenisse un
vero e risoluto cambiamento, verrebbero ripagati
dei loro sforzi quanti, studiosi, amministratori,
semplici cittadini, strutture formative
e culturali, si sono più o meno recentemente
prodigati nel promuoverlo.
Tra queste ultime, il CUEBC ha da tempo
avviato una profonda riflessione, attivando in
particolare l’evento annuale “Ravello LAB –
Colloqui Internazionali”, giunto ormai alla sua
decima edizione. “


Quale Cultura, quale Sviluppo?”
è il succitato paradigma che l’iniziativa
ha emblematicamente fatto proprio ed esaminato
ed a cui si è costantemente attenuta. Il
termine ‘


quale’ è fortemente assertivo, nel
senso che non si fa riferimento a un qualsiasi



Territori della Cultura



intendimento, più o meno funzionale, e si esclude quindi ogni
opzione priva di comprovata qualità.
Nelle proprie elaborazioni, e non solo per aderire ad un
proprio specifico riferimento istituzionale, il Centro di Ravello
si è altresì impegnato nel sostenere la tesi secondo cui, per
approdare ad un’Unione Europea realmente condivisa e
solidale, occorra costruire una


politica culturale europea che,
portando ad un vicendevole riconoscimento delle diversità,
divenga fattore di coesione ed antidoto ai conflitti.
Tale filosofia, in questi ultimi anni, quasi in concomitanza
(non certo casuale) con la crisi economico-sociale che ha investito
il ricco emisfero nord-occidentale del pianeta, si sta
progressivamente facendo strada nelle sfere decisionali politico-
istituzionali ed in quelle scientifico-culturali. L’UE ed i
vari stati nazionali stanno incrementando i fondi destinati alla
cultura ed anche ai suoi riflessi sul turismo, accentuando la
selettività degli interventi per puntare a risultati basati su
elevati standard qualitativi. Il consistente programma europeo
di finanziamenti “Horizon 20-20” muove in questa direzione.
Le sue direttive sottolineano “la necessità di favorire l’accesso
alla conoscenza del patrimonio, le ricadute economiche e
sociali dei beni culturali, la creazione di nuovi modelli di
gestione, lo sviluppo e la promozione dei beni culturali, la
coesione sociale e l’integrazione fra le varie culture, aventi comuni
matrici e un destino condiviso”.
Questo implicitamente indica che non sempre sono richiesti
impegni massicci e che bisognerebbe piuttosto concentrare
gli sforzi e le risorse, in primo luogo, sulle azioni di recupero
organico dell’esistente, attraverso processi di razionalizzazione,
ricucitura, integrazione, manutenzione, promozione. Strategie
e tecniche dovranno procedere di pari passo e l’applicazione
delle tecnologie più avanzate e delle piattaforme digitali dovrà
offrire gli strumenti progettuali, manageriali, attuativi debitamente
appropriati.
La cosiddetta valorizzazione del CH nell’ambito dei processi
di rigenerazione delle città (


smart cities) e dei territori, anche
sotto il profilo turistico, potrà offrire nuove qualificate opportunità
di sviluppo.
Lungi dal voler mercificare o privatizzare il patrimonio culturale
è indubbio che, specie per l’Italia, detta risorsa dispieghi il
suo potenziale a sostegno di una economia legata, in buona
misura, al


fenomeno turistico ed alle sue evidenti ed essenziali
ricadute.






Non si tratta qui di intercettare il segmento del cosiddetto ‘turismo
culturale’, ma di acquisire la consapevolezza che, salvo
alcune aberrazioni, ogni attività turistica – il viaggio, la vacanza,
la scoperta dell’altrove – ha un carattere culturale e pedagogico
in quanto accresce la conoscenza e la personalità del visitatore
e lascia traccia nell’immaginario dei residenti. Quando ci si
muove, s’incontrano altre persone, altre realtà, altre città,
altre atmosfere, quando ci si impegna a capire come si vive in
un contesto territoriale e culturale diverso da quello abituale,
si cresce. È così che si dilatano gli orizzonti della conoscenza
e della percezione. D’altra parte, nei turisti, visitatori, viaggiatori,
si riscontra ormai una diversa sensibilità. Si denota indubbiamente
la maturità sufficiente, la consapevolezza idonea a cogliere
questa particolare valenza culturale di un turismo legato
alla storia ed, al tempo stesso, aperto alle suggestioni della
contemporaneità.
L’Italia per la sua stessa posizione geografica, per l’impareggiabile
patrimonio paesaggistico e storico-artistico, generalmente
non delocalizzabile, di cui è dotata, per il ‘racconto’ del
suo affascinante vissuto, dovrebbe divenire la “prima meta”
di un viaggio oltre i propri confini dei turisti che provengono
dalle grandi realtà geo-politiche degli altri continenti, in fase
di poderoso sviluppo economico.



È dunque sostenibile che il Patrimonio Culturale debba essere




un


primario motore di sviluppo del Paese?
In realtà lo è già, almeno in parte, per forza di cose. Ma manca
una straregia tecnico-politica che imprima anche questa “cifra”
all’insieme degli interventi che danno vita all’economia.
Ed è altrettanto evidente che, dopo aver negato per un lungo
periodo che la crisi ci avrebbe coinvolto, il Paese soffre ancora
dell’insufficienza di strumenti ed apparati, organizzativi ed
amministrativi, all’altezza della sfida , indebolendo di fatto la
possibilità di divenire ‘primo attore’ in Europa (e non solo),
pur essendo depositario di un patrimonio fonte d’ispirazione
della civiltà occidentale.
Appare, d’altra parte, impensabile che qualunque idea,
qualsiasi rilevante iniziativa nel settore, non faccia puntuale
ed esplicito riferimento all’Europa. È difficile che l’Italia si
proponga e si muova come ‘faro’ internazionale senza recepire
le culture, le politiche ed i principi europei e senza contribuire
al loro sviluppo.
Serve, prima di tutto, l’ambizione di divenire Paese leader
nell’ispirazione di linee progettuali e programmatiche, inten


Territori
della Cultura



samente impegnato nel campo della


governance del “Cultural
Heritage”, sede delle più alte scuole di specializzazione, di
agenzie internazionali di promozione, divulgazione, coordinamento
di risorse di provenienza pubblica e privata, distretto
di produzione delle più avanzate tecnologie e innovazioni a
sostegno della filiera


Cultura/Turismo.
Oggi il patrimonio culturale, che comprende evidentemente
il paesaggio, richiede restauro, manutenzione, gestione, comunicazione,
marketing, attività tutte basate su sistemi tecnologici
avanzati, collegati a strutture formative, di ricerca, di
assistenza tecnica di alta qualità, veri e propri


poli di eccellenza
internazionali.




Un Politecnico dei Beni Culturali ed il Turismo




Non siamo tuttavia di fronte ad un percorso facile. Si tratta di
una sommessa importante che può incidere sullo scenario
che ci attende. Perderla significherebbe ripiegare su punti di
vista e consuetudini di basso profilo, pur se ancorate sull’
“usato sicuro”.
Il raggio e la complessità del campo d’azione di cui parliamo
richiedono un impegno particolare. Non si possono riproporre
vecchi schemi. Va introdotta e resa operante una nuova



visione,



pubblica e privata, interdisciplinare e multisettoriale.
Si tratta di ricondurre l’insieme (come tale oggi è trattato) del
CH ad un


sistema. Passando, come direbbero i matematici,
da una ‘sommatoria’ ad un ‘integrale’. È noto che ogni sistema
è costituito da variabili interagenti ed in equilibrio. Modificare,
togliere o introdurre ogni variabile
significa influire su tutte le altre onde
acquisire una nuova configurazione.
Ogni elemento va quindi riconosciuto
e questa dinamica va governata


.
Il CH nelle sue molteplici espressioni,
paesaggio, archeologia, arti figurative,
architettura, musica, letteratura, spettacolo,
audiovisivo e tutto il resto,
sembrerebbe richiedere, alla luce di
quanto detto, investimenti finanziari
più che sugli interventi infrastrutturali
su azioni rivolte allo


sviluppo delle
risorse umane



, fermo restando che



e due linee devono marciare di pari passo. Più che
i fondi servono capacità politiche, in primo luogo,
ma anche professionali, tecniche e gestionali. Serve,
in altri termini, quello che il nostro Paese sta ancora
trascurando e, quindi, depauperando: il


capitale
umano.




Nelle più avanzate esperienze aziendali, non solo
internazionali ma anche italiane, il passaggio semantico
dal termine ‘risorse umane’ a quello di ‘capitale
umano’ ha assunto un significato ben preciso,
nel senso che la dotazione di professionalità qualificate,
a tutti i livelli della scala gerarchica, va a costituire
in modo implicito, ma in molti casi anche
esplicito, un dato patrimoniale delle aziende medesime, che
incide sul loro valore di mercato e sulla connessa capacità
competitiva.
È molto chiaro quindi il modello formativo che ne deriva, sia
sotto il profilo metodologico e strutturale che sotto quello dei
contenuti. Un modello che tende a produrre figure professionali
ad alta specializzazione, che padroneggino esaurientemente i
sistemi ICT, ma al tempo stesso aperte al una visione umanistica,
al riconoscimento della “responsabilità sociale” dell’impresa,
in generale al cambiamento, anche per rispondere
alle esigenze di ‘outplacement’ che possono
sempre sopravvenire nel mondo aziendale. Ispirandosi,
in definitiva, alla lezione di Adriano Olivetti.
Più problematico appare il trasferimento dell’anzidetto
modello e della filosofia che lo sottende al settore
pubblico, perché le istituzioni, ai vari livelli che dovrebbero
governarlo sono assoggettate alle modalità
ed alle normative della contabilità pubblica, ad un
sistema centralizzato di controlli, ai vincoli delle
piante organiche con le relative aree di competenza,
al rispetto dei patti di stabilità ed a complesse procedure
burocratiche ed ordinamentali, sovente di non facile
applicazione. Occorrerebbe preliminarmente allentare dette
ingessature.
Ma non è questa la sede, né è il momento, di addentrarsi in
dettagliate specificazioni. Il progetto formativo, in linea di
massima,dovrebbe prevedere attività modulate sulla base di
tali diversità strutturali e le competenze distintive del capitale
umano dovrebbero tradursi in profili professionali d esperti,
dirigenti, quadri tecnici ed altri operatori a vari livelli, il cui


ha-
Matera.
Roma, Via Appia Antica.




Territori della Cultura



 
in ogni caso e nei relativi livelli attitudinali, dovrebbe
assecondare l’obiettivo dell’


eccellenza. Secondo le
circostanze, quindi, le competenze specialistiche e generali
dovranno giustapporsi, determinando un adeguato e coerente
bilanciamento.
Va tenuto conto infine che il settore del patrimonio culturale e
della cultura in generale è caratterizzato da una evidente


trasversalità
e non si presta agevolmente ad enucleare ambiti di
specializzazione. In questo complesso e variegato sistema
operativo, i profili professionali più alti dovrebbero
essere comunque orientati al management
ed alla progettazione ed innovazione
di sistema, con particolare riferimento allo
sviluppo di applicazioni ICT; e ciò vale sia per
la cultura che per il turismo. Quelli dei quadri
e delle altre figure subordinate i dovrebbero
essere improntati alla conoscenza dei vari
aspetti tecnici e gestionali propri di tali settori,
dalla manutenzione del patrimonio culturale
alla ricettività ed alla logistica.
Sotto questo profilo potrebbe rivelarsi più
che opportuno integrare il sistema universitario
 


Politecnico dei beni culturali e del turismo”.
Le due tematiche cui si riferisce l’intitolazione sono attualmente
trattate,in modo parziale, e conseguentemente disorganico,
in varie Facoltà presenti nelle Università statali e nella miriade
di Università e strutture formative private, laiche e religiose,
più o meno consistenti.
Se si parte dal presupposto che i due campi disciplinari ormai,
non solo nella percezione del pubblico ma anche nel pensiero
scientifico, inevitabilmente si intrecciano, si deve arguire che
la loro coniugazione diviene una necessità, per accrescerne la
conoscenza, producendo studi e ricerche specifici e formando
dei professionisti capaci di renderla operante.
Quanto all’ubicazione, il luogo più idoneo sembrerebbe la Capitale
d’Italia.
Roma, più di ogni altra città al mondo, vanta un


continuum di
segni e testimonianze di una bimillenaria vicenda sociale, religiosa
e politica: dalle origini allo sviluppo e decadenza di un
impero globale, al periodo paleocristiano e medioevale, alle
grandiose realizzazioni rinascimentali e barocche, alle diverse
espressioni architettoniche ed artistiche, dovute anche allo
splendore ed al mecenatismo di una Corte Pontificia,


istituzioni e personalità dotate di grande sensibilità estetica e
culturale. Senza trascurare, naturalmente, tutte quelle realizzazioni
postunitarie e contemporanee – urbanistiche, monumentali,
edilizie – a torto o a ragione discusse e discutibili, ma
pur sempre significative quali espressioni di uno sviluppo
storico e del divenire di una moderna capitale,
Roma racchiude il più denso ed affascinante parco archeologico
del mondo ove è compiutamente leggibile la trama urbanistico-
architettonica dell’Urbe, con le testimonianze emergenti
ed i simboli delle sue istituzioni, dei poteri politici e religiosi,
dei costumi e del modo di vivere della società dell’epoca; una
trama da cui è possibile comprendere ed apprezzare il


lascito
che ha influito, più o meno percettibilmente, sulla nostra
attuale realtà.
Soprattutto per queste ragioni la città è divenuta patrimonio
comune dell’umanità e “


la Grande attrazione” per tutti coloro
che varcano i propri confini con i più diversi intenti.
Quanto alla fattibilità


, è prematuro aprire questo capitolo. Dipende
da molti fattori: dall’eventuale candidatura di altre città
dotate di facile accessibilità e dell’


appeal richiesto (Firenze,
Venezia o altre), dalla disponibilità determinati, affidabili, soggetti,
pubblici e/o privat,i propensi a sostenere , anche finanziariamente,
l’iniziativa, dalla possibilità di operare in rete attraverso
un’apposita piattaforma digitale e così via.
Si dovrebbe cercare di raccogliere in un unico contenitore le
tante valide esperienze condotte in vari Atenei ragionando con
i relativi, attuali Dipartimenti. Roma avrebbe, tra l’altro, delle
potenziali sedi, anche prestigiose, che sono attualmente sottoutilizzate,
quando non utilizzate. Il Comune potrebbe metterne
una a disposizione dei promotori del Progetto. Si potrebbero
immaginare altresì attività decentrate, Master o Summer School


.
Ad esempio, a Ravello (sede del CUEBC) o a Matera (Capitale
Europea della Cultura 2019). Ma anche in tante altre


location. E
poi, si dovrebbero affrontare i complessi aspetti procedurali.
Si dovrebbe puntare, naturalmente, ad una struttura di altissimo
profilo, operante a scala internazionale, ambiziosamente
protesa ad assumere una leadership nel settore, di sicuro


appeal

e forte attrattiva per studiosi ed allievi di provenienza
nazionale, europea, e continentale. Si potrebbe anche ipotizzare
una struttura dichiaratamente a carattere euromediterraneo.
Ci sono naturalmente da superare tutte le prevedibili difficoltà
di altro ordine ma, ove ci fosse la volontà politica ed accademica,
l’operazione potrebbe divenire attuabile.
 

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