“Il Ponte delle spie” si presenta come un bel “filmone” americano,
dove il rispetto dei diritti umani - i veri valori - unito alla caparbietà e
all’amore per il rischio, vince su tutto. Siamo nel 1957 in piena “guerra
fredda” e la tensione fra USA e URSS è alle stelle. Tom Hanks, sempre più bravo
e perfino più simpatico nell’invecchiare, è James B. Donovan un abile e
cocciuto avvocato di origine irlandese, specializzato in Assicurazioni, che si
trova invischiato in una vicenda di spie quasi senza accorgersene. Per lui
(come per il regista suppongo) sopra ogni valore morale c’è l’essere umano: la
vita di ogni uomo è importante che sia una spia, un ingenuo studentello o un impudente
pilota militare. Nei confronti della propria coscienza è fondamentale sentirsi
“giusti” ed è molto più importante di tutto ciò che la gente, invece, possa credere.
L’avvocato Donovan a costo di inimicarsi metà della
popolazione compresi moglie e figli, accetta di difendere il pittore Rudolf
Abel (un bravissimo Mark Rylance) presunta spia sovietica. Gli si deve un
processo, magari uno veloce e pro-forma e Donovan viene chiamato ad assolvere a
questa sorta di messa-in-scena. Al contrario, James prenderà seriamente il suo
mandato (i diritti umani appunto), riuscendo perfino ad andare in appello e a
fargli dare trent’anni di prigione invece di essere giustiziato. Tra i due -
difensore e difeso - s’instaura un rapporto in crescendo fatto di piccolissime
cose, di poche parole in più dette con estrema discrezione che spingeranno
James Donovan, qualche anno doo, a farsi promotore di uno scambio di prigionieri,
anzi di uno scambio bilaterale perché otterrà al posto di Abel contemporaneamente
un pilota-spia dai russi e uno studente americano dai tedeschi della DDR. Avrà così l’occasione di vedere a Berlino il famigerato
muro appena costruito e i vari tentativi di fuga dall’Est repressi con estrema
violenza.
Nel film gli autori (Coen? Spielberg?) giocano ironicamente
con alcuni simboli: la spia russa che vive in America e sembra essere un
innocuo pittore, è proprio il ritratto di Norman Rockwell, il grandissimo
illustratore statunitense che è stato uno dei maggiori interpreti dell’American way-of-life del secolo scorso dipingendo più di trecentoventi
copertine del “Saturnday Evening Post”. La scena del suo arresto in uno
squallido albergo è stata definita hitchcockiana da molti critici. Inoltre,
l’avvocato tedesco Wolfgang Vogel, che dovrebbe essere la controparte della
mediazione di scambio-prigionieri, ha il volto di Sebastian Koch diventato
famoso per essere stato il protagonista di quel bel film intenso “Le Vite degli
Altri” (di Florian Henckel von
Donnersmarck del 2007) incentrato proprio sui diritti umani violati e
ambientato nello stesso luogo una trentina di anni dopo agli albori della
rimozione del muro di Berlino.
Tratta da una storia vera, la vicenda è scritta dai fratelli
Coen insieme a Matt Charman, mentre la regia di Spielberg è rigorosa e
contenuta: non ci sono sbavature né scene di troppo, è assolutamente perfetta. In
altre parole, “Il Ponte delle spie” costituisce un ottimo film che mette
insieme grandi professionalità del cinema statunitense.
Ghisi Grütter
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