20 agosto 2017

Regeni, Al Sisi e le ginocchia dell’Italia

 



di Fabrizio Casari
La ragion di Stato. E’ il refrain che abbonda nelle vicende del nostro paese quando, superata la dimensione del pettegolezzo, si passa alla tragedia vera e propria. L’assassinio di Giulio Regeni ad opera degli apparati di sicurezza egiziani è in qualche modo paradigmatico. Contiene infatti tutti gli ingredienti di una squallida e drammatica vicenda di spie di bassa lega: un innocente assassinato perché poneva domande lecite ovunque; gli informatori della polizia, dal commerciante fino alla coinquilina, ricattati e dunque spioni; la solerzia omicida dei funzionari ottusi e criminali della sicurezza egiziana, notoriamente specializzati in omicidi e torture; la copertura dei massimi livelli del paese nei confronti dei loro aguzzini.
Il fatto che la vittima fosse italiana, oltre che innocente di ogni colpa, non ha spostato granché la situazione. Sì, certo, le frasi di prammatica, le pressioni politico-diplomatiche e la campagna di stampa orientate all’accertamento della verità ed al castigo dei colpevoli, ma l’Egitto ha dimostrato sufficiente arroganza e indifferenza, confermando di conoscere l’Italia più di coloro che invocavano un sussulto di dignità nazionale.
Sono arrivate le misure diplomatiche, significativamente il richiamo per consultazioni dell’ambasciatore ed il successivo ritiro temporaneo come segno dell’insoddisfazione italiana per la scarsissima collaborazione delle autorità egiziane, ma il tempo della moina è finito e l’ambasciatore, dietro provvedimento emanato a Ferragosto, è tornato al Cairo.
Alcuni buontemponi sostengono che il rientro dell’ambasciatore in Egitto non comporta nessuna resa, che anzi intensificherà il livello delle pressioni italiane sull’Egitto affinché si faccia piena luce sull’assassinio di Giulio Regeni. E allora, proprio perché in cerca di una verità, potremmo cominciare a non raccontarci balle.
Il governo italiano a guida Renzi, con il mellifluo Gentiloni alla Farnesina e l’indescrivibile Alfano all’Interno, seppero dal governo statunitense la verità sull’assassinio di Giulio Regeni. Per Renzi la situazione era complicata: per mesi aveva tessuto le lodi di Al Sisi in ogni luogo, allegramente sorvolando sul massacro di circa 1200 manifestanti, sulle torture sui detenuti e sul colpo di Stato. Per Renzi e Gentiloni è arduo chiedere la consegna dei killer al governo egiziano visto che questi hanno agito agli ordini del governo egiziano. Credere che la verità sulla morte di Regeni possa fornirla Al Sisi è come pensare che il tacchino si autoinviti a cena la notte di Natale.
Gli USA occultarono le fonti della loro intelligence, com’è comprensibile, ma fornirono quadro e dettagli difficili da confutare circa quanto avvenuto al nostro ricercatore. Il governo scelse di chiudersi le orecchie e tapparsi gli occhi, perché l’affidabilità della fonte e il collimare esatto delle informazioni in possesso della nostra intelligence non permettevano dubbi di sorta. Andava quindi messa in campo una azione politica e commerciale contro l’Egitto di ben altro livello che quella operata tra mille incertezze.
Il richiamo e anche il ritiro di un ambasciatore sono misure blande di protesta diplomatica, che vede l’innalzamento della stessa ad un livello politico solo con altri due passaggi: la chiusura delle sedi diplomatiche con l’affidamento a un paese alleato per il disbrigo delle pratiche consolari e la successiva rottura delle relazioni diplomatiche, con quello che comporta anche sul versante di quelle commerciali. In assenza di questi due provvedimenti, il livello dello scontro si mantiene a un rango di poco superiore allo scambio di note verbali e proteste di prammatica.
Non si è proceduto in questa direzione benché si sapessero con certezza due cose: che Giulio Regeni era stato assassinato dai servizi di sicurezza egiziani e che l’Egitto non avrebbe mai ammesso la sua responsabilità e, ancor meno, consegnato all’Italia gli autori del crimine. C’entrano gli affari con l’Egitto di Al Sisi, primo fra tutti la fornitura di armi, l’intesa nel contrasto al jahidismo sunnita e il tentativo di stabilizzazione della Libia, si dice, come se queste fossero buone ragioni per chinare la testa e ignorare la dignità del nostro paese.
Economiche, commerciali, politiche e diplomatiche: numerose ed efficaci avrebbero potuto essere le misure ritorsive italiane verso l’Egitto fino a quando non avesse deciso di fare giustizia per la morte di Giulio. Si è scelto di alzare polvere, di partecipare al gioco dell’indignato speciale ma senza arrivare a sferrare i colpi decisivi di fronte all’arroganza di Al Sisi, il macellaio del Cairo.
Nel caso Regeni emergono così due verità: la prima è quella di un assassinio di un innocente da addossare alla solerzia omicida di quattro imbecilli assetati di sangue, funzionari di un paese che si dice amico; la seconda è quella di una Italia sempre più paese di Pulcinella, incapace di proteggere i suoi cittadini se non pagando, di farsi rispettare sulla scena internazionale, di salvaguardare le sue politiche nazionali, di difendere la propria indipendenza, balbuziente di fronte ad ogni crisi internazionale e pronta a pagare per ingaggiarsi in quelle altrui.
Già in diverse circostanze l’Italia ha abdicato alla sua funzione di garanzia nei confronti dei suoi cittadini e numerosi sono i casi nei quali l’inserimento della coda tra le gambe è stato il maggior movimento registratosi tra Procure della Repubblica e Farnesina. Esemplare il caso di Fabio di Celmo, il ragazzo ligure assassinato nel 1996 da una bomba nell’Hotel Copacabana a L’Avana: le autorità italiane non hanno mai richiesto l’estradizione del mandante dell’omicidio, il terrorista cubanoamericano, ex agente CIA, Luis Posada Carriles, tutt’ora libero di circolare per Miami. Oltre alle vittime del Cermis, c’è il caso di Nicolò Calipari, straordinario funzionario dei nostri servizi d’intelligence volutamente ucciso da marines statunitensi contrari all’accordo per la liberazione di Giuliana Sgrena: niente è stato fatto per ottenere giustizia, a dimostrazione che non importa quale ruolo abbia la vittima nel nostro paese, la si sacrifica per la “ragion di Stato” comunque.
I registri della storia patria indicano in Sigonella (ma era la Prima Repubblica) l’ultimo afflato di dignità nazionale. E’ questione di attitudine, non di possibilità: se ci si allena per decenni ad inginocchiarsi, ad essere vassalli verso l’estero e omertosi verso l’interno, se si tende all’obbedienza cieca ed alla subalternità politica, difficilmente le ragioni nazionali troveranno modo di affermarsi. Essere vittime all’estero e carnefici all’interno sono due facce della stessa medaglia.
E se questa è l'Italia, la sua politica estera non può essere migliore. Per questo si indica come dittatore il presidente eletto del Venezuela, Nicolas Maduro, mentre si definisce uno statista il generale golpista Al Sisi. Per lo stesso motivo si dice a parole di combattere il jahidismo ma poi si sanziona la Russia che lo fa davvero mentre si vendono armi all’Arabia Saudita che il terrorismo lo dirige e finanzia. Vige una lettura strabica e cialtrona da parte di una classe politica al di sotto di ogni decenza, con le ginocchia ormai callose e la coscienza sporca.

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