Non tutti i critici sono
concordi nell’affermare che Clint Eastwood confezioni un film antibellico
partendo dalla vera storia di Chris Kyle, l’infallibile cecchino americano di
alta specializzazione reduce dalla guerra in Iraq. In effetti, la descrizione
dell’eroe è un po’ troppo
compiaciuta, però io voglio pensare che comunque il film, in generale, faccia
riflettere anche sulla questione delle armi negli Stati Uniti.
Chris – un bravissimo
Bradley Cooper - è stato educato dal padre a sparare, ad andare a caccia e a essere
un “cane da pastore”; né pecora né lupo ma colui che salva le pecore dal lupo, secondo
la stessa descrizione paterna delle tipologie umane. Dopo i soliti
addestramenti durissimi in cui è riproposta l’immancabile competizione tra chi
è più “maschio”, Chris diventa un Navy Seal.
Dal 2003 per sei anni
protegge i marines nella Guerra del
Golfo diventando una “leggenda” per la sua abilità e dedizione.
Eastwood si mette a
parlare di guerra e di dipendenza, al confine tra coraggio e alienazione – e in
particolare della guerra in Iraq già più volte esplorata dalla stessa cinematografia
americana; basti citare su tutti la regista Kathryn Bigelow con il film “The
Hurt Locker”. L'immagine che il regista restituisce dell'Iraq non è nuova ed è
certamente di parte ma ciò che è importante è il “buio della guerra” e di come
attiri a sé un uomo in grado di riconoscere in pochi secondi il nemico che ha
di fronte e di farlo fuori.
Il crescendo degli spari arriva
alla scena clou in cui lo spettatore
è efficacemente frastornato dal fragore degli spari in tutte le direzioni,
dalla polvere e dai razzi e dove è impossibile riconoscere persino i
combattenti tra loro.
Quando Chris Kyle,
torna a casa dalla moglie (Sienna Miller) e dai bambini che quasi non conosce comincia
a soffrire
di disturbo post-traumatico da stress (PTSD), patologia che colpisce molti veterani di
guerra: riuscirà a uscirne e nel 2012 – ma il film non lo narra – scriverà
tutta la sua storia in un’autobiografia che venderà più di un milione di copie. Se non
fosse morto assassinato da un reduce impazzito lo scorso febbraio, con ogni
probabilità American Sniper sarebbe stato girato comunque magari da un
altro regista sensibile all’eroismo americano, ma è proprio quel tragico
epilogo a far emergere tutto il nonsense e a convincere Clint Eastwood a
farne una storia universale contro le follie della guerra.
Ghisi Grütter
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