29 marzo 2016

LA ROMA MODERNA DI ANTONIO CEDERNA di W.Tocci


                                                              Antonio Cederna

*La Roma moderna di Antonio Cederna
Sono passati venti anni senza Antonio Cederna. Quanto ci manca? E
perché ci manca? Il ricordo, la stima e l’affetto prendono il sopravvento su
ogni altro tentativo di afferrare il vuoto che ha lasciato. Eppure, con il
passare del tempo la sua figura cresce per il rilievo storico e per la
feconda inattualità. Ci manca tanto in quanto nessuno è riuscito a
sostituirlo. Ci manca perché è ancora più necessario.1 La mancanza allora
riguarda noi, abitanti del nostro tempo.
Non abbiamo ancora una vera comprensione storica di Cederna. Non può
averla la nostra generazione, troppo coinvolta nelle sue battaglie per
vedere ciò che permane di esse e anzi le supera. Saranno le generazioni
successive a comprendere la sua opera, con il disincanto capace di
distillare una memoria fino a trarne nuove ambizioni.
Noi siamo una generazione di passaggio che può solo testimoniare gli
eventi, prendersi cura dell’opera, custodirla per le interpretazioni che
verranno, in una sorta di archeologia intergenerazionale.
Nel frattempo, la cosa più utile che possiamo fare è combattere gli
stereotipi. Sono inveterati, per lo più inventati dai detrattori, ma alla
lunga introiettati anche da alcuni sostenitori. Negli ultimi tempi subì la
diffidenza del suo giornale che ritardava o non dava spazio agli articoli.
Ancor di più deve aver sofferto, e sento il bisogno di scusarmene qui dopo
tanto tempo, per l’insofferenza che la nostra amministrazione mostrò
verso le sue critiche peraltro sempre garbate e motivate. Si arrivò perfino
a criticarlo per ritorsione sui ritardi nella gestione del parco dell’Appia, di
cui generosamente aveva accettato di fare il presidente nella fase di
avvio. L’ultimo articolo è un grido di dolore C
hiedo solo una chiave – per
dire che bastava dargli la piena agibilità della sede. Oggi, quel grido
possiamo intenderlo come una metafora. Forse non abbiamo ancora
trovato la chiave interpretativa dell’opera di Cederna.
1 Guermandi, Un italiano scomodo . Attualità e necessità di Antonio Cederna.
1. Gli stereotipi
Il primo stereotipo, che fosse il signor NO, lo sentiamo ripetere da tanto
tempo. E invece aveva un’attenzione quasi maniacale per la proposta.
Ogni articolo, anche il più aspro, si concludeva con una soluzione
alternativa e fattibile. Giova ricordarlo in questa sede, ha onorato il lavoro
parlamentare con proposte di alto profilo che hanno influito sulla
legislazione per l’ambiente, i parchi naturali, le città, i beni culturali.2
Anche negli interventi occasionali portava contributi sistematici. Nella
conversione di un decreto, con un discorso di pochi secondi spiegò la
riforma dei suoli che in un secolo il Parlamento non ha saputo approvare.3
Con la chiarezza riusciva a parlare sia al largo pubblico sia alle assemblee
elettive, stimato e ascoltato anche dagli avversari più ostili. Ho avuto il
privilegio di partecipare alla seduta del Consiglio Comunale che approvò la
localizzazione dell’Auditorium. Da diverse settimane nell’Aula Giulio
Cesare si consumava un duro scontro tra maggioranza e minoranza, a
notte fonda prese la parola Cederna e cominciò criticando l’ostruzionismo
della propria parte, argomentò con precisione i motivi contrari al
Borghetto Flaminio e a favore del Villaggio Olimpico; calò il silenzio, poi
alcuni consiglieri si avvicinarono per dare un segno di intesa, e altri
seguirono l’esempio fino a che l’intero Consiglio comunale si riunì intorno
al suo scranno. L’oratoria sempre asciutta prese un tono solenne, "come
un senatore romano, ma avevo preso due Fernet", raccontava divertito. E
la delibera fu approvata quasi all’unanimità.
Il secondo stereotipo riduce il suo discorso all’esercizio dell’indignazione.
Questa oggi non manca, ma si esprime in una nota più bassa come
sdegno.
Sembrano parole simili per la comune radice della dignità, ma
portano a esiti opposti. Lo sdegno
esprime un rifiuto indifferenziato che
prepara la via alla rassegnazione. Al contrario, l’indignazione di Cederna
suscitava l’entusiasmo, come ha osservato La Regina. Il suo articolo sempre
lo stesso, come scherzava di sé citando Voltaire – inizia di solito
con la descrizione accurata del disastro, ma poi l’ironia verso l’avversario
mostra la possibilità di sconfiggerlo con la mobilitazione dei cittadini.
Come nella pittura di Hieronymus Bosch il tratto sottile e preciso disegna i
mostri nel paesaggio, i vandali in casa, ma l’ironia di certe figure segnala
la possibile risalita verso il bene.
Negli anni ottanta il
decennio più negativo per le città italiane come
ebbe a dire – ad ogni presa di posizione sulla stampa corrispondeva
l’organizzazione di un movimento di quartiere. In quel periodo a Roma
2 De Lucia, ricordo in Archivio Cederna
3 Seduta del 15 ottobre 1987
cresce una rete di associazioni a difesa del territorio. Non solo la favorì
ma diede l'esempio dell’impegno accettando di presiedere per tanti anni la
sezione romana di Italia Nostra. Nella crisi dei partiti che cominciava
allora, solo il suo discorso riusciva a creare un nesso tra progetto di città
e partecipazione civica. Influì nel travaglio del Pci contribuendo ad una
riconfigurazione del suo blocco sociale. La denuncia della speculazione
perpetrata a livello popolare dall’abusivismo edilizio, non meno
devastante di quella realizzata dai salotti imprenditoriali, costrinse i
giovani dirigenti comunisti a superare il vecchio alibi dell’abusivismo di
necessità e a recidere la cinghia di trasmissione con il sindacalismo
territoriale che lo aveva alimentato.
Il terzo stereotipo lancia l’accusa di passatismo che oggi suona quasi
come un’infamia. È a ncora un Bel Paese nonostante tutte le devastazioni.
E pensando al domani si può aggiungere non è a ncora un Paese all'altezza
dell'eredità ricevuta. La storia nazionale, ripeteva spesso, si regge
sull'avverbio a ncora . I Vandali in casa contiene un'elegante definizione
della modernità, aperta da una veemente retorica: “Dobbiamo inchiodarci
nel cervello la convinzione che.. solo chi è moderno rispetta l’antico, e
solo chi rispetta l’antico è pronto a capire le necessità della civiltà
moderna”.4
Per lui e per i suoi amici urbanisti la parola M oderno è dirimente, assume
un significato più mirato rispetto all’uso corrente e indica una relazione
organica tra i diversi elementi. Per Insolera è la logica del progetto di
città, per Benevolo è un fattore di equilibrio della vita urbana. Per
Cederna è una connessione di senso tra passato e presente. Al contrario,
“chi pone una falsa alternativa o sacrifica semplicisticamente un termine
all’altro” è propriamente “un reazionario o un retrogrado, anche se si
camuffa di un rozzo avanguardismo e di un vago vitalismo”.5 La
definizione si attaglia anche agli avanguardisti di oggi, che sono numerosi.
4 Vandali in casa , p. 16
5 R eportage del convegno dell’Inu del ’57, in Guermandi, p. 50
2. Il Moderno
La sua modernità è la ricerca di un nesso tra le cose, una nervatura dello
spazio, una relazione tra gli eventi. È l'asse di rotazione delle sue passioni
civili, come archeologo, come urbanista e come politico.6
Come archeologo ha insegnato a vedere sempre il bene come parte di un
sistema culturale e paesaggistico e mai come emergenza isolata o
meramente monumentale. Una principio della tutela connesso alla storia
del Paese, che è diventato un esempio a livello internazionale.
Come urbanista è un anticipatore, ce lo ricorda Vezio De Lucia. I suoi
resoconti da Amsterdam o da Stoccolma fanno capire agli addetti ai lavori
e all'opinione pubblica i vantaggi della pianificazione che esalta le singole
parti di città.
Nel contempo è un protagonista della Carta di Gubbio che inventa la
tutela integrale dei centri storici, il principale contributo dell’urbanistica
italiana a livello internazionale. Un altro primato oggi dimenticato o
avversato. Eppure, quel metodo, al di là di procedure superate, sarebbe
ancora più attuale. Esso consiste nel trasformare il tessuto urbano
seguendo la stessa trama che lo ha originato. In tal modo l’elemento
moderno non si sovrappone violentemente all’antico ma lo trasforma in
una forma integrale. Lo stesso approccio dovrebbe applicarsi alla scala
vasta, senza aggiungere insediamenti isolati che degradano la
conurbazione, ma attivando nelle maglie del costruito i processi di
riqualificazione. Oggi servirebbe una nuova Carta di Gubbio per fermare
l’espansione nell’hinterland e curare la città disfatta.
Infine, come politico ha mirato a obiettivi apparentemente parziali, ma
sempre connessi a una strategia generale, come nel disegno di legge del
1989 per la Capitale. Bisogna rileggerlo e farlo conoscere, perché Antonio
lo scrisse come una sorta di testamento. Mobilitò tutti gli amici per
approfondire singoli aspetti e si dedicò personalmente alla relazione
illustrativa. Anche io fui convocato a casa sua per la parte che mi aveva
affidato. Ne conservo un caro ricordo, lo trovai al suo tavolo di lavoro
sommerso di carte, certamente affaticato e affranto, quasi tentato di
lasciare tutto per mettersi a recitare Shakespeare, ma desideroso di
lasciare agli atti parlamentari un'analisi storica della vicenda urbanistica
tra Ottocento e Novecento e il più ambizioso progetto che sia mai stato
pensato per la capitale del nuovo millennio. È costituito da tre elementi
fondamentali: trasformare la periferia nel nuovo centro della città politica,
realizzare una rete integrata di trasporti su ferro, ripensare la struttura
urbana sulla base del Parco archeologico dei Fori e dell’Appia antica.
6 Edoardo Salzano si chiede come mai un archeologo è diventato urbanista; sono infatti interessanti i
nessi tra le diverse attitudini di Cederna, Guermandi, p. 59
3. Il progetto per Roma capitale
Il programma potrebbe essere disegnato su una carta: un asse lineare per
il sistema direzionale orientale, un triangolo tra il Campidoglio e i Castelli
e una mappa retinata per indicare le linee su ferro. Molti amici qui
ricorderanno che all’inizio di una qualsiasi riunione si levava il suo grido
minaccioso “aprite le carte, voglio le carte...”. D’altronde, i suoi articoli
sembrano delle rilevazioni topografiche.
Nella sua sensibilità cartografica si intrecciavano due tradizioni. Da una
parte una geometria tutta romana, dall’impianto antico del cardo e
decumano, agli assi sistini della prospettiva rinascimentale, all’ellisse
illuminista del Valadier di Piazza del Popolo. Dall’altra, una discendenza
giansenista di e sprit de geometrie ed esprit de finesse che arriva fino a
Cattaneo e consegna al riformismo lombardo il nesso tra chiarezza del
pensiero e tensione storicomorale.
Da questa doppia genealogia Cederna
trae l’ultima Forma Urbis pensata per Roma.
Dopo di lui nessuno ha più avuto l’ardimento di disegnare la forma della
città, anzi è divenuto un divieto. Nessun discorso politico degli ultimi
trent’anni potrebbe essere rappresentato su una mappa.7 Il linguaggio
urbanistico è diventato liquido come la morfologia sociale. Eppure, da
quando si è negato il progetto pubblico, la città non è rimasta ferma, anzi
è stata regolata da processi corposi che hanno impresso una forma
determinata solo apparentemente casuale. Se si osserva una carta
dell’espansione degli ultimi trent'anni si intravede nella distesa dei
coriandoli edilizi una Forma Urbis che assomiglia a una cometa.8 Il nucleo
è delimitato dal Gra, ormai come una collana che infila tante pietruzze di
residenze, abusivismo e terziario. E prosegue con una lunga coda che
lambisce i Castelli per poi piegare a sudovest distendendosi verso il mare
tra Ostia e Fiumicino. Come ci spiegano gli astrofisici la forma dipende dal
contrasto tra il movimento regolare della stella e la forza della radiazione
solare che modella la chioma di particelle di polvere staccatesi dal nucleo.
Anche la cometa romana è il risultato della tensione tra la regolarità del
progetto e la forza plastica della radiazione speculativa. È la dialettica
irrisolta tra piano e antipiano
che segna la vicenda urbanistica della
capitale.
La forma perfetta dell'asse attrezzato di Piccinato, che Cederna tentava di
rilanciare nella versione mite dello SDO, è stata la più grande utopia
romana del Novecento, ma è degenerata nell'eterotopia dei frammenti
7 Il policentrismo è una retorica territoriale, non una mappa.
8 Rinvio al mio "La Cometa e le sue code" Capitolium, Editore Coop, n. 2, Roma, 2004.
degli uffici abbarbicati sul grande raccordo anulare. 9 Non è stata realizzata
la città lineare che secondo il piano doveva guidare la trasformazione, ma
si è assecondato lo sviluppo abusivo tramite l'anello attrezzato del Gra
non previsto dal piano regolatore.
La stessa dialettica ha operato sulla coda della Cometa. A uno sguardo
distratto può sembrare una disordinata espansione, ma l'analisi storica ne
svela la somiglianza con il così detto P iano dell'Impero , la misteriosa
variante del 1942, di cui sappiamo l'esistenza ma non conosciamo i
dettagli perché i disegni e il plastico rimasero sotto i bombardamenti.
Ecco il paradosso romano: lo strumento urbanistico sconosciuto è stato
l'unico ad essere applicato fedelmente. Al contrario, i piani urbanistici
approvati sono stati elusi, deformati o apertamente contraddetti.
9 Sulla figura astratta e la realtà scabrosa del Gra rinvio al mio "Utopie ed eterotopie dell'accessibilità"
in Future GRA a
cura di R. Secchi, Prospettive, Roma, 2010.
4. Il dittatore e l’archeologo
Le regolarità non si trovano negli atti amministrativi ma nei discorsi
pubblici. Il più cogente di tutti lo tenne Mussolini in Campidoglio per
l'istituzione del Governatorato. Tutti gli obiettivi indicati in quella solenne
occasione sono stati realizzati: l'eliminazione della stolta contaminazione
tranviaria ha interrotto lo sviluppo del trasporto su ferro che aveva avuto
un buon inizio in epoca giolittiana. La realizzazione delle “avanguardie di
case”, le borgate di nuova fondazione come Acilia, hanno dato inizio alla
forma granulare che oggi ritroviamo alla scala metropolitana; l'espansione
imperiale “verso il Tirreno” è proseguita nel degrado abusivo della coda
della Cometa. Nessun altro discorso politico è stato tanto performativo
nello sviluppo novecentesco. Se fosse dipeso solo dalla dittatura, l'effetto
sarebbe durato solo nel ventennio, ma è proseguito nella Repubblica
perché sollecitava forze e visioni profondamente radicate in città.
Il libro più organico su Roma lo intitola M ussolini urbanista perché
Cederna avverte meglio di altri la capacità del duce di influire sulle
tendenze di lungo periodo. Alcuni critici hanno stigmatizzato un presunto
manicheismo antifascista dell'autore un'accusa
per certi versi
benemerita – che però non corrisponde al suo scrupolo di ricerca. Prova
ne sia l'apprezzamento che egli riserva, perfino in contrasto con l'amico
Insolera, alla prima opera di revisionismo scritta da Piero e Roberto Della
Seta per valorizzare l'esproprio preventivo attuato dal regime nelle aree
dell'Eur.10
Non c'è quindi solo l'invettiva antifascista, con il titolo M ussolini urbanista
vuole indicare l'ombra lunga della devastazione del territorio che
caratterizza l'intero secolo.
Ma qui possiamo ribaltare sull'autore la stessa chiave interpretativa. C’è
un C ederna urbanista di Roma. Anche il suo è stato un discorso
performativo che ha lasciato segni tangibili nella struttura urbana. Nel
campo dei detrattori lo sanno bene i costruttori mentre lo negano gli
storici. Come ebbe a dire Caltagirone in un'intervista a Panorama: "Nel
nome di Cederna.. per decenni a Roma chiunque voleva intervenire sul
territorio era combattuto come uno speculatore". Al contrario Vittorio
Vidotto ha parlato di "battaglie illuministiche avare di successi".
Ma noi amici abbiamo fatto poco per spiegare all'opinione pubblica i
benefici. I vecchi amici sono poco tecnologici, ma il figlio Giulio prepara
una mappa georeferenziata; forse i giovani estimatori più avanti
realizzeranno un AppCederna,
un M irabilia urbis digitale, che consentirà
di ascoltare con il cellulare i discorsi o la lettura degli articoli nei pressi
10 P. Della Seta, R. Della Seta, I suoli di Roma , Editori Riuniti.
delle aree tutelate o dei musei realizzati in seguito alle sue iniziative.
Sarebbe un itinerario formativo e appassionante nelle bellezze che ancora
si possono ammirare in città. Si potrebbe partire da Via Vittoria salvata
dalla minaccia di sventramento dei primi anni cinquanta, per proseguire al
clivio capitolino ricongiunto con il Foro da Petroselli, ai monumenti salvati
e ai nuovi musei realizzati con la legge Biasini da Adriano La Regina, da
Palazzo Altemps, alla Crypta Balbi, Palazzo Massimo. E poi la sistemazione
dei nuovi musei capitolini e prossimamente la riapertura delle casse
dell'Antiquarium, e il palazzo Rivaldi che può diventare ancora un centro
di cultura avendo sventato un hotel per i cardinali. E poi ancora extra
moenia l’Auditorium, il pratone delle Valli, Villa Ada, Villa Pamphili, il
parco della Caffarella e la villa dei Quintili, il parco di Veio e di Centocelle,
Tor Marancia, Aguzzano, il porto di Traiano e di Claudio, Capocotta e quel
sistema ambientale che ci insegnò a chiamare Litorale romano. Il tour
dovrebbe concludersi all’archivio Cederna nel parco dell’Appia antica,
difesa dai Vandali e preservata per le generazioni future. È il capolavoro
della sua modernità. Come archeologo moderno comprende, mentre
passeggia con l’amico Carlo Melograni, che la Regina Viarum non finisce
nel crepidine ma è un sistema storicoambientale.
Come urbanista
moderno avverte per primo che da quel vuoto si può cambiare il senso
della conurbazione. Come politico moderno è capace di mobilitare
l’opinione pubblica e influire sulle decisioni di un coraggioso ministro come
Giacomo Mancini che impone l’inedificabilità in sede di approvazione del
PRG. Se l’espansione periferica è contenuta dalla grande pausa dell’Appia
lo si deve a Cederna. Nessun’altra personalità della Repubblica ha avuto
un’influenza tanto profonda e benefica sulla capitale. Nelle diverse
prefazioni a Roma Moderna Italo Insolera ha sempre cercato di indicare
una forza positiva della città. Nell’edizione 1970 la trovava nella
quotidiana lotta del movimento popolare, ma l’ultima prefazione è tutta
dedicata a Cederna: “se oggi – e nei prossimi secoli – ci sarà ancora qui
qualcosa da amare, qualcosa da vivere è merito della sua tenace
opposizione alla sistematica distruzione di Roma”.11
La Cometa verso il mare e il triangolo antico dell’Appia. Sono gli effetti
performativi degli opposti discorsi pubblici dei due grandi urbanisti del
Novecento, Mussolini e Cederna. Rappresentano la lunga durata delle
forze che si sono contrapposte nel salto di scala della città. Sono due
antitesi del passato, come citazione retorica oppure come risorsa creativa
del contemporaneo. Sono gli archetipi di due anime diverse del moderno,
la volontà di potenza e il prendersi cura della vita urbana. Il dittatore e
11 I. Insolera, Roma moderna , Einaudi, 1992.
l’archeologo sono le figure che hanno modellato la forma urbis del
Novecento.
5. Alto e basso senza mediazione
Georg Simmel ha dato una suggestiva interpretazione delle antiche rovine
come “lotta tra la volontà dello spirito e la necessità della natura... come
tensione tra l’anima che tende verso l’alto e la gravità che tende verso il
basso”.12 A Roma la tensione tra alto e basso trova un equilibrio
storicoestetico
ma non un discorso eticopolitico.
Nella prima dimensione
è riuscita l’unificazione. La trasformazione è avvenuta per aggiunte a volte
inconsapevoli delle preesistenze, per la stratificazione casuale di stili, per
la sovrapposizione di funzioni eterogenee, ma tutto ciò ha prodotto un
paesaggio unitario e una grande bellezza.
Al contrario nella dimensione eticopolitica
l’unificazione non è mai stata
possibile. Ciò che deve ritenersi civile si afferma come esigenza generale
della modernità ma secondo valori e principi che rimangono eterogenei.
Mancano infatti nella società romana quei gruppi unificanti borghesi che
altrove hanno elaborato una statualità condivisa. L’unificazione della
forma estetica, quindi, è stata raggiunta nonostante la disomogeneità
della coscienza civile.
Il contrasto tra le due dimensioni si accentua nel lungo cammino della
modernità. La crescita della potenza tecnica non è accompagnata da una
responsabilità della regolazionee. Tutto ciò determina una costellazione di
contrasti irriducibili tra grande e piccolo,13 tra aulico e popolare, tra centro
e periferia, tra piano e antipiano, tra burocratico e abusivo, tra solare e
oscuro. L’eterogeneità si afferma sempre più come carattere della vita
urbana. Le antinomie prima tenute insieme dall’unificazione estetica
tendono via via a separarsi e a irrigidirsi nella reciproca indifferenza.
All’inizio tra lo splendore della chiesa barocca e l’angustia del vicolo, poi
sempre più in basso, tra l'esteriorità dell'universale e lo sberleffo del
popolare belliano, tra il monumentale fuori scala del Vittoriano e la
modestia impiegatizia della palazzina, tra la retorica imperiale e le
avanguardie delle borgate, tra la potenza immaginifica di Corviale e il
magma abusivo che la circonda, tra la solennità della Regina Viarum e il
distributore di benzina che espone i cocci come trofei, descritto in un
brano di grande letteratura nell’incipit di Vandali in casa .
Oggi sembra divenuta praticamente impossibile qualsiasi mediazione tra
alto e basso. Perché sono venuti meno anche quegli strumenti che pure in
passato avevano creato dei nessi. La voragine della crisi della politica
rende molto difficili le comunicazioni tra le diverse parti di città. E
l’indifferenza è alimentata anche dal degrado del dibattito pubblico
sempre più scandito da nevrotici slogan piuttosto che da analisi e
12 G. Simmel, Saggi sul paesaggio , Armando, p. 70.
13 L. Quaroni, Immagine di Roma , Laterza.
proposte. Oggi non avrebbe spazio sui giornali un articolo come “I
gangster dell’Appia” che allora fece sentire la sua eco anche oltre oceano.
Eppure la coscienza ambientalista dei romani è cresciuta, soprattutto per
merito di Cederna. E su questa risorsa popolare deve puntare chi voglia
oggi riprendere il discorso.
Non si può accettare il basso livello del dibattito, dagli scontrini, ai
consiglieri che votano dal notaio, a una campagna elettorale senza idee.
La politica abbassa l’asticella del confronto nel disperato tentativo di
ritrovare il consenso popolare. Ma se l’ha perduto è proprio perché già da
molto tempo non aveva niente da dire sul futuro della città. Proprio la
mancanza di grande politica ha creato l’humus favorevole alla piccola
politica del malaffare. Soprattutto a Roma, quando manca una volontà
alta ogni cosa sprofonda in basso.
La mancanza di equilibrio è la conseguenza di una modernità sghemba
che non riesce a stare in piedi, perché non ha alimentato la simmeliana
unificazione eticopolitica
e di conseguenza rischia di perdere anche la
mediazione storicoestetica.
Per tenersi in piedi da sola ha bisogno di
un’aspirazione all’universale. Come disse Theodor Mommsen a Quintino
Sella prima di Porta Pia: “Ricordatevi che Roma si governa solo con una
grande idea”. Il ministro rispose negli anni successivi immaginando la
capitale come luogo del “cozzo delle idee”, come centro universale della
cultura e della ricerca.
Sono stati i grandi uomini del Nord a sviluppare la modernità romana,
come se potesse venire solo da fuori, a conferma dell’asimmetria. Dalla
scoperta della luce nella pittura di Caravaggio, all’invenzione barocca di
Borromini, a Quintino Sella, fino alle riforme del primo Novecento di
Giovanni Montemartini che realizza le reti dei servizi urbani o a Pasolini
che denuncia un progresso senza vera modernità. Di questa schiera di
personalità del Nord fa parte Antonio Cederna, forse il lombardo che più
ha amato Roma.14 Le ricordiamo tutte come figure romane anche se
ciascuna a suo modo è rimasta legata alla propria origine nordica.
14 Sulle radici del riformismo lombardo si veda il discorso pronunciato in Campidoglio da Vittorio Emiliani
a dieci anni dalla scomparsa.
6. Il programma di governo
Non si può rinunciare a immaginare la città diversa dall’attuale. Alla sua
opera oggi dovrebbe ispirarsi un nuovo programma di governo per Roma.
Inattuale perfino nel genere poiché oggi si teorizza che ci si candida a
sindaco senza presentare alcuna proposta. Al contrario, egli stilò un
programma per far cadere la propria candidatura a sindaco. Ai tempi di
Tangentopoli molti si rivolsero a lui come possibile primo cittadino.
Atterrito dalla proposta, e anche lusingato, rilasciò un’intervista per
chiamarsi fuori – “non sopporto regole ed etichette, e poi soffro d’ansia”
disse a Danilo Maestosi che lo incalzava. E per togliere ogni tentazione ai
partiti che lo avevano proposto alzò il tiro proponendo di “trasferire 14
ministeri,.. a cominciare da quello delle Finanze.. perché i contenitori
svuotati siano demoliti, creando aree libere, e comunque recuperati per la
cultura”.15
Il programma per Roma dovrebbe ripartire dal disegno di legge dell’89,
come si è detto la proposta più organica e quindi moderna sulla capitale.
Dove sono finiti quei tre obiettivi fondamentali?
Il primo, il trasferimento dei ministeri è scomparso dal dibattito. Eppure
non è venuta meno l’esigenza di ridisegnare la presenza dello Stato, anzi
si è accentuata in seguito ai cambiamenti dell’amministrazione pubblica,
dalle privatizzazioni, al superamento di alcune funzioni, all’incerto
regionalismo, all’integrazione europea, all’obsolescenza dei vecchi
impianti, all’impatto del digitale. Dalle caserme, alle aree ferroviarie, alle
fabbriche come il poligrafico o i tabacchi, agli ospedali storici, agli uffici
amministrativi ormai obsoleti Roma è investita da una grande dismissione
statale non meno intensa della dismissione industriale subita da Torino o
Milano. In assenza di una strategia tutto si riduce a operazioni immobiliari
gestite dalla Cassa depositi e prestiti, la quale privatizza la rendita e copre
solo in piccola parte i costi che si scaricano sulla città. Così la dismissione
accentua il deficit di infrastrutture, mentre sarebbe la grande occasione
per fare la capitale più bella.
In oltre un secolo lo Stato ha lasciato un’impronta fisica per lo più
sgradevole e comunque inefficiente perfino per le sue funzioni. Oggi
quell’impronta può essere rimodellata per la nuova capitale del XXI
secolo. I contenitori liberi potrebbero restituire spazi alla qualità
ambientale, la cultura antica e l’ingegno contemporaneo.
Roma può diventare un centro internazionale di formazione e di ricerca
sui saperi della città e della memoria, riprendendo il sentiero interrotto del
“cozzo delle idee”. È anche un’opportunità economica. Grandi paesi in
15 D. Maestosi “
Cederna: «Sindaco io? Grazie non ho l’età», in Il Messaggero del 2911993.
Asia e in Sudamerica investono nella tutela e nel restauro dei beni
culturali provocando un'impennata nella domanda di formazione e di
servizi. Un'offerta specializzata dell’Italia avrebbe il vantaggio competitivo
del b rand che viene dalla sua storia. E invece il ministero prosegue la
svalutazione professionale di quel “metodo italiano” studiato in tutto il
mondo e ideato dai Bianchi Bandinelli, Brandi e Argan. Prevale da tempo
l'illusione stracciona di fare i soldi con il m erchandising e i c ocktail nei
musei. Invece una ricca economia dei beni culturali può nascere solo sulla
tutela, promuovendo prestigiose scuole internazionali e nuove imprese
capaci di esportare in nostro sapere dell’antico.
Per fare alcuni esempi simbolici del passaggio dalla capitale burocratica
alla città della conoscenza. Al posto di un ministero si potrebbe collocare
la scuola internazionale di restauro, per attrarre non i cento studenti di
oggi ma cento volte di più, che verrebbero a imparare il metodo italiano.
L’antico ateneo di S. Ivo potrebbe essere liberato dagli uffici del Senato,
un’altra battaglia di Cederna che oggi potrebbe realizzarsi con la revisione
costituzionale, per realizzare proprio sotto la cupola del Borromini la
moderna università della memoria come luogo di ricerca e di formazione
dell'archivistica nella transizione al digitale, creando lavoro per i filologi, i
paleografi, gli archivisti, insieme agli informatici, agli economisti e ai
giuristi e agli esperti dell' open access .
Il secondo obiettivo, la rete dei trasporti, dovrebbe essere ripreso in
connessione con la politica culturale. La realizzazione dell'Alta Velocità ha
liberato dal traffico nazionale la vecchia linea tirrenica per Napoli, che
potrebbe essere trasformata in una metropolitana regionale risolvendo
anche il difficile problema di accessibilità al Parco dell'Appia. La
stazioncina di Torricola, oggi abbandonata, potrebbe diventare la porta di
accesso che consente ai cittadini e ai turisti di partire da Termini e in
pochi minuti di treno trovarsi nei pressi della Regina Viarum, proseguendo
a piedi con la più bella passeggiata al mondo. Una soluzione opposta a
quella prospettata dalla società Autostrade che vorrebbe gestire l'arteria
per farne il brand antico dell'autostrada, con ampio consenso
nell'establishment politicomediatico.
Il ritorno in città potrebbe avvenire tramite l'Archeotram, il geniale
progetto di Insolera che prevede un itinerario tranviario di interesse
archeologico realizzato con brevi aggiunte alla rete esistente. Dal Q uo
Vadis partirebbe un tratto nuovo che lungo la Circonvallazione Ostiense
raggiungerebbe la Piramide Cestia, per poi proseguire verso il Celio, il
Colosseo e la Domus Aurea, passando per San Clemente, fino alle Terme
di Diocleziano e a Palazzo Massimo. Con piccoli investimenti si otterrebbe
un percorso su ferro che collega quasi tutti i luoghi di Roma antica.
Verso est la nuova metro libera la vecchia ferrovia della Casilina che
potrebbe essere trasformata in un moderno tram a servizio del parco A d
Duas Lauros di Centocelle. Insieme al ramo Prenestino che serve la Villa
dei Gordiani scambierebbero al Pigneto con la metro C verso il Colosseo e
i Fori. Si realizzerebbe una connessione tra l'archeologia della periferia e
quella del Centro. Inoltre, con un'altra invenzione di Insolera, il
tramtreno,
si potrebbe collegare il parco dell'antica Gabi e la Villa
Adriana con un servizio di trasporto di area metropolitana. Verso ovest la
modernizzazione della RomaLido
dovrebbe offrire un accesso dignitoso
alla città antica di Ostia.
Si realizzerebbe una rete integrata di trasporto pubblico a servizio
dell'intero patrimonio storico. Le opere dei contemporanei potrebbero
confrontarsi almeno per l'ambizione politica con i capolavori degli antichi.
I nuovi mezzi di trasporto offrirebbero un servizio di qualità per i visitatori
e anche per i cittadini romani, sottraendo il turismo al pericolo di degrado
e al contrario facendone un'occasione per innalzare la qualità del sistema
urbano.
Il terzo obiettivo non ha bisogno di rielaborazioni perché coincide alla
lettera del disegno di legge dell'89. Oggi, il triangolo archeologico e
paesaggistico dell'Appia è l'unica eccezione dello sprawl . Quello che
rimane dopo una devastazione secolare dell’agro è il possibile inizio di una
Città Metropolitana di Roma, intesa non solo in termini amministrativi, ma
come l'unica forma urbis che può avere ancora un senso su vasta scala.
È essenziale la continuità tra l’Appia e i Fori. Infatti c’è stata sempre una
soprintendenza unica, almeno finché la saggezza ha governato i beni
culturali. Oggi invece il decreto Franceschini spezza la tutela in due
istituzioni diverse, con l’improntitudine di definirla una scelta olistica.
Torniamo a chiedere in questa sede il ripensamento di un provvedimento
che appare insensato.
7. La visione dei Fori
Bisogna tenere a mente la definizione ricorrente nei suoi articoli, d al
Campidoglio ai piedi dei Castelli . Solo su questa scala si dispiega il
significato urbanistico del progetto Fori.
La relazione al disegno di legge ne ricostruisce le origini lontane: dai primi
scavi nel 1803 con il papa Pio VII, al 1887 quando venne perimetrata
un’area vasta dal Campidoglio a San Sebastiano allo scopo di connettere i
monumenti “per mezzo di passeggi e di pubblici giardini”, con la legge
Baccelli approvata nell’ostilità di chi diceva “il popolo non cerca i
monumenti, cerca lavoro”, forse un antenato di Tremonti. Quasi subito ci
fu il primo ripensamento che portò allo stralcio dei Fori e poi ci vollero
altri venti anni, ai tempi della giunta Nathan, per realizzare la Passeggiata
Archeologica liberando il Celio e Caracalla da un “ammasso di depositi di
stracci e di carbone, segherie, concerie e fabbriche di sapone”.
Il duce realizzò lo stradone imperiale sventrando la collina Velia al fine di
liberare la vista del Colosseo dal famoso balcone di piazza Venezia. Nel
dopoguerra divenne più prosaicamente un collettore di traffico che
portava le automobili in pieno centro. Ci volle l’allarme di Adriano La
Regina sul pericolo di sfarinamento dei monumenti per suscitare la presa
di coscienza nazionale e internazionale che portò ai provvedimenti della
legge Biasini e all’idea del parco archeologico. Fu decisiva l’iniziativa di
Cederna che promosse un appello di 240 intellettuali sul Corriere della
Sera e trovò una formidabile risposta nel sindaco Petroselli, non solo
come scelta urbanistica ma con l’immediata eliminazione della strada che
attraversava il Foro. C’è una bellissima foto che racconta la festa di quella
giornata: i volti dei due amici, Antonio e Italo, esprimono l'orgoglio delle
battaglie condotte insieme e la fondata speranza di una nuova città.
Il progetto Fori fu inserito nella legge per Roma capitale approvata a larga
maggioranza nel 1990 recependo la proposta del disegno di legge
Cederna. Che bilancio se ne può fare trent’anni dopo? Non si può dire che
non sia accaduto nulla, anzi c'è stato un saliscendi di iniziative che svela
un rapporto inquieto tra la decisione e il progetto. È come uno spettro che
si aggira sul destino della città. La politica ha paura sia di fare sia di non
fare come si vede nella sequenza nevrotica degli eventi. Dopo il punto alto
di Petroselli, la gestione ordinaria di Vetere, poi la ripresa inaspettata
degli scavi a Nerva con il peggiore sindaco, Pietro Giubilo, e il rilancio
senza convinzione strategica con la giunta di cui ero membro, poi
l'ambigua narrazione di Veltroni con le ampolle di Fuksas, il vincolo
ministeriale che proietta lo stradone nell'eternità, l'oblio con Alemanno e
infine la banalizzazione di Marino, che ha ridotto tutto a uno schema
viabilistico allarmando i disagi del traffico senza mobilitare le passioni
culturali.
Soprattutto l'esito finale dimostra come il progetto Fori racchiuda in sé
quella disarmonia tra alto e basso che abbiamo visto all'opera in tutta la
vicenda moderna. Se non è una grande idea si riduce a una querelle sulle
sezioni stradali. Non vive di mezze ragioni, si alimenta solo con una nuova
visione di Roma.
Il Novecento lascia in eredità in quel luogo più che altrove una dialettica
irrisolta tra il d ittatore e l 'archeologo . Prima la retorica imperiale dell'asse
e poi grandi scavi ai margini senza approdare però ad una definitiva
soluzione urbana. Se dopo tanti anni di rilevazioni e di studi abbiamo una
ricca conoscenza dei fori di Traiano, di Augusto, di Nerva e del tempio
della Pace, contro chi sosteneva che non c'era niente di nuovo da sapere,
è merito delle battaglie di Cederna. Le ha vinte però solo in una
dimensione della sua modernità, quella di archeologo, ma non quella di
urbanista e di politico. Ecco il compito che lascia ai posteri, a partire dalla
nuova conoscenza archeologica disegnare un progetto urbanistico e farne
un progetto politico.
Oggi ci sono le condizioni pratiche per attuarlo. Nei suoi articoli la parola
attuazione era sempre accompagnata dall'aggettivo g raduale , perché
sapeva bene che bisognava risolvere l'accessibilità e ci voleva la
metropolitana. La linea C, infatti, è stata progettata per attuare il progetto
Fori, secondo lo studio che lo stesso La Regina aveva commissionato negli
anni ottanta a Leonardo Benevolo.16 La realizzazione dell’infrastruttura di
trasporto toglie argomenti a chi ha sempre drammatizzato il traffico per
impedire il progetto. La funzione automobilistica può essere cancellata
definitivamente, può essere archiviata come una breve parentesi, non tra
le più esaltanti, della lunga storia di quel luogo. Possibile che l’epoca
nostra non abbia altro di meglio di un flusso di traffico da trasmettere alle
generazioni successive? Con la metro C si può realizzare la totale
pedonalizzazione dell’area.
In essa svolge un ruolo strategico il tratto compreso tra il Colosseo e
Largo Corrado Ricci. È un luogo paradossale, l’unico in cui si possa
scavare in tranquillità pur trovandosi nel cuore dell’area archeologica.
Infatti, quello che oggi vediamo come un viale era fino agli anni Trenta il
sottosuolo della collina Velia ed è quindi privo di reperti. La versione
originaria del progetto della linea C utilizzava questa opportunità
16 Soprintendenza Archeologica di Roma, Progetto Fori, 1984. Recente conferenza a Palazzo Venezia.
Non basta una piccola connessione tra Colosseo e piazza Venezia, che possa essere sostituita da un
tram secondo un bricolage in voga tra i politici inconsapevoli della pianificazione dei trasporti. La
pedonalizzazione richiede un effetto sistema del trasporto pubblico nell’intera area storica che si può
realizzare solo con la maglia delle tre metro – A, B e C – e la rete diffusa del tram.
disegnando sotto il viale e in connessione con la stazione Colosseo un
grande foyer di ingresso al Parco dei Fori. I cittadini che escono dalla
metropolitana trovano un grande ambiente di servizi e di accoglienza oggi
totalmente assenti e difficilmente realizzabili in superficie e
possono
documentarsi sulla storia antica, vedere un filmato, utilizzare strumenti
didattici per i bambini ecc., prima di entrare nell'area archeologica
all'altezza del Foro della Pace Questa versione del progetto è stata
abbandonata nel 2010 a favore di una soluzione di basso profilo che
purtroppo verrà realizzata se non ci saranno ripensamenti: la preziosa
area ipogea viene interamente bloccata dalle strutture tecnologiche della
metropolitana, rendendo certo più facile la realizzazione della stazione,
ma rinunciando per sempre alla possibilità di dare al Parco dei Fori una
formidabile porta sotterranea di accesso.17 In una dichiarazione congiunta
del Sovrintendente Prosperetti e dell’assessore Caudo si è preso l’impegno
a ripristinare il progetto originario. Speriamo davvero che la nuova
amministrazione lo mantenga e si possa attuare l’idea di Benevolo.
E’ possibile tornare a passeggiare ai Fori ascoltando il rumore dei passi sul
selciato, potendo alzare lo sguardo con lo stato d’animo riflessivo dei
visitatori del G rand Tour – un’opera d’arte nell’opera d’arte come la
definiva il nostro amico in
un luogo moderno e antico allo stesso tempo,
completamente dedicato all’incontro delle persone tra loro e con la storia.
Roma non sarà mai davvero una città moderna finché non porterà a
compimento la vicenda dei Fori. Non sarà davvero città internazionale
finché non avrà l’ambizione di proporre al mondo un senso nuovo della
Città Eterna . Non sarà autenticamente città storica se non riuscirà a
creare una tensione creativa tra passato e futuro.
Come in un percorso psicoanalitico la persona nuova emerge da una
rielaborazione del proprio vissuto, così per una città storica la vera
modernità consiste nel rielaborare l'antico.18
L'incertezza tra il fare e il non fare rivela che la decisione politica non
riesce a misurarsi con la grandezza dell'idea e ne rimane schiacciata. Il
parco dei Fori non è l'oggetto di una decisione, ma è un evento che crea il
soggetto che decide. Chi lo realizzerà diventerà solo per questo un grande
politico. Già fu così per Petroselli che da capo partito divenne un grande
sindaco. E valse anche nelle passeggiate domenicali per i cittadini che
diventavano più esigenti tra di loro e verso il buongoverno, come
osservava con soddisfazione Cederna.
La rielaborazione dell'antico alimenta il riconoscimento tra i cittadini e
verso la città. Il riconoscimento consiste nel vedere la città con uno
17 Rinvio al mio Non si piange su una città coloniale , GOWare, 2015.
18 Non a caso Sigmund Freud sceglie Roma per dare una rappresentazione fisica delle psiche
umana in Il disagio della civiltà , Bollati Boringhieri, Torino, 2003, p. 205.
sguardo nuovo. Vedere in senso greco è theorein cioè fare teoria,
osservare le cose che ci circondano con una coscienza dell'occhio.19
Vedere la città significa pensarla su nuovi fondamenti. Il progetto Fori è la
visione di Roma del nuovo secolo.
La visione come riconoscimento è presente già nel primo scritto del
giovane archeologo, I l Tempio sotto il melo , che contiene la più bella
definizione della sua professione, tradita ma sempre amata: “.. il bello
dell'archeologia è che la scoperta di un oggetto antico è un incontro
semplice e immediato, come il risveglio di chi dormiva ancora perché
dimenticato da noi, come ritrovare una cosa che ignoravamo d'aver
perduta, ma che, appena ritrovata, sentiamo quanto ci era necessaria”.20
Si possono leggere i suoi articoli come arte del vedere.21 Sia nella
polemica sia nella proposta la forza argomentativa è sempre affidata a
un'immagine imprevista. Come l'Appia dei gangster che rischia di
diventare un rigagnolo di cemento, oppure la città Eternit, l’Hilton come
unità di misura della speculazione, il foro di Cesare che sembra un crollo
dello stradone oppure un errore di calcolo dei progettisti. E in positivo il
verde urbano come un pieno che l'architetto Ernesto Rogers vedeva
invece come un vuoto tanto da negare la pubblicazione dell'articolo del
giovane urbanista su Casabella, oppure i Fori come meditazione
sull'invidia del tempo.
Cederna ha insegnato che la visione è già una trasformazione. Ha
ottenuto il cambiamento facendo vedere ciò che gli altri non vedevano. I
giovani tecnologi con l'AppCederna
ci aiuteranno a visitare i luoghi salvati
con la parola scritta. Benevolo gli diceva che era pigro, ma lui non ci
stava, diceva non sono pigro sono lento. Se non avesse coltivato quella
lenta determinazione della battaglia culturale, quella ripetizione indignata
della commoratio l'Italia di oggi sarebbe peggiore di ieri. Eppure, se la
civiltà dei moderni fosse stata la garanzia di tutela della civiltà antica,
forse Antonio si sarebbe sentito sgravato del compito e avrebbe preferito
dedicarsi alle sue passioni letterarie. Come dice il figlio Giuseppe aveva
un'anima teatrale. In una Roma compiutamente moderna, forse, lo
avremmo incontrato al Foro nei pressi del Tempio del Divo Giulio nei
panni di Marco Antonio mentre recita l'orazione “Bruto è uomo d'onore”.
Walter Tocci
19 R. Sennett, La coscienza dell’occhio , Feltrinelli
20 Guermandi, p. 229.
21 I. Insolera, Saper vedere l'ambiente , De Luca.

*dal blog di Walter Tocci

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