Il
titolo completo del film, a mio avviso, dovrebbe essere: “Fuocoammare ovvero come
si cresce a Lampedusa nonostante i migranti”. Gianfranco Rosi per girare il
film ha vissuto un anno sull’isola, ha esaminato bene i problemi dell’immigrazione
e ha conosciuto a fondo le persone del luogo. Il film, infatti, presenta due
storie, o meglio due situazioni, che scorrono parallelamente nell’isola senza
incontrarsi. Samuele è il bambino dodicenne nato e cresciuto sull’isola il cui
padre fa il pescatore vivendo entrambi con i nonni paterni. Le immagini del
film sono descrizioni poetiche di una vita fatta di nulla o di piccole cose che
ricorda un po’ l’infanzia e l’adolescenza di mezzo secolo fa, senza troppe
tecnologie (non c’è neanche un cellulare in tutto il film) fatta di giochi
all’aperto, di fionde auto-costruite, di uccellini di notte, di motorini e di
barche a remi. Il film, girato molto su tempi reali, riesce a trasmettere il disagio
del passaggio tra l’infanzia e l’adolescenza, fatto di paure, di miti dell’uomo
forte - «Papà
ma tu soffrivi di mal di mare quand’eri piccolo?» chiede Samuel che aveva appena
vomitato sulla moto-barca - di dubbi e incertezze tra la caccia agli animali e
la ricerca della loro amicizia. Anche la lentezza delle scene comunica la
lunghezza delle giornate e una certa noia quotidiana che ognuno di noi può
ricordare dei propri malesseri pre-adolescenziali.
Così
le scene negli interni: la nonna che cucina e prepara il pasto, la nonna che
cuce, i nonni che prendono il caffè, il pranzo con gli spaghetti con il sugo di
seppie, il rifacimento quotidiano del letto, hanno tutte dei tempi lunghissimi,
a mio avviso anche un po’ eccessivi.
L‘altra
storia, invece, è fatta di vite salvate, di barconi arrivati, di accoglimento e
identificazione (attraversi i numeri) dei migranti. I corpi dei morti vengono
sepolti, i sopravvissuti curati, i loro canti corali narrano le tristi storie
attraverso una sorta di griot, di
cantastorie, ma comunicano anche la felicità di essere rimasti in vita
nonostante il deserto, le dure prigioni libiche e i trasbordi marini. Notevole
è la scena in cui i migranti giocano a pallone costituendosi in squadre - «Sudan
eliminato. Forza Siria!» grida l’arbitro preposto - a mostrare che anche le sofferenze più atroci possono
trovare una piccola e temporanea tregua. Le due storie si alternano nel
montaggio inframezzate dalla radio locale che trasmette musiche (per lo più
canzoni siciliane) che i radioamatori scelgono e dedicano ai loro cari come,
per l’appunto “Fuocoammare”. L’unico elemento in comune è l’assistenza del
dott. Bartolo, direttore dell’ASL di Lampedusa da una trentina d’anni, che
accudisce gli abitanti così come si occupa, con amore e sofferenza, di tutti coloro
che giungono via mare dal continente africano, non abituandosi mai al dolore e
alla morte. I tempi lenti descrivono la
vita del sud in generale con le sue lentezze nei gesti, il tempo e lo spazio isolani
sono lontani mille miglia dalla cosiddetta “civiltà” continentale o, tantomeno,
metropolitana. Le scene sono bellissime, inquietanti e commoventi pur senza
descrivere o indugiare sulle disgrazie.
Rosi
nei suoi film sembra sempre accennare ai temi senza mai scavarli fino in fondo,
a metà tra il documentario e il film (ma non li chiamano docu-film apposta?) e riconosco in questo gli stessi elementi
riscontrati nel suo “Sacro G.R.A.”, nel bene e nel male. Anche lì ci sono vari mondi,
quello interno nelle case, quelli nei vari luoghi vissuti dagli abitanti (il
botanico, il nobile piemontese e sua figlia laureanda, il barelliere, il
pescatore di anguille…le pecore) a ridosso del raccordo; tutti questi mondi sono
in contrapposizione a un altro più alluso che è proprio la vita rumorosa
dell’autostrada. Ma quello era un documentario (sui generis) che durava solo 93’. C’è, a mio avviso, qualcosa nel
montaggio dei suoi film che non convince e che lascia perplessi: come se fosse
un po’ artificioso e un po’ troppo statico, si sente pensato a tavolino, che
toglie scorrevolezza e naturalezza ai suoi lavori. Ciononostante Rosi ha
sicuramente meritato il riconoscimento dell’Orso d’oro 2016 a Berlino e che ha
accolto così: «Dedico il premio a tutte le persone che non sono riuscite ad arrivare
su quest’isola nel loro viaggio della speranza, e ai lampedusiani che dai primi
sbarchi del 1991 accolgono chi scappa dalla fame e dalle guerre. È un posto di
pescatori che accetta tutto quello che viene dal mare. Una lezione che dovrebbe
essere imparata da tutti. Non è accettabile che la gente muoia in fuga dalle
tragedie».
Ghisi Grütter
Ghisi Grütter
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