Arte, narcisismo e paternità
Nel
film La famiglia Fang si riscontrano almeno tre tematiche diverse:
- il
rapporto realtà/finzione nell’arte in generale, ma nella performance art in particolare;
- il
problema del rapporto genitori/figli quando quest’ultimi possono essere di
ostacolo ai genitori artisti, oppure viceversa, coinvolti fin da bambini nelle performances. In tal modo i figli si
sentono usati e non amati. Ne consegue una loro incapacità a spiccare il volo, a
emanciparsi, a trovare la propria strada, attraverso quella “uccisione del
padre” di cui la psicoanalisi tradizionale si è sempre occupata;
- il
rapporto affettivo tra i fratelli solidali e complici, ma legati fin troppo in un
certo legame al limite dell’incestuoso. Bella e significativa è la scena dei
due bambini imbarazzati, costretti a recitare Romeo e Giulietta, inclusi i baci.
I
tre argomenti trattati nel film - che immagino si trovino anche nel romanzo
omonimo di Kevin Wilson - si rincorrono, si sovrappongono, ma sono trattati in
modo un po’ affastellato e mai approfonditamente. Su ognuno di essi si sarebbe
potuto impostare un film intero.
Siamo
nel nord degli Stati Uniti, i protagonisti vivono tutti in case unifamiliari
suburbane, e nel film vengono coperti 40 anni di vita. Caleb e Camilla Fang
sono due performer artists che amano
intervenire nel tessuto sociale per stupire e provocare reazioni della gente,
spesso eccedendo. Sarà arte o truffa? Si chiedono i due giornalisti critici
d’arte. Sembra che si debbano sempre superare nelle performances schockando sempre più la gente, pubblico inconsapevole.
Personalmente conosco abbastanza bene questo genere di arte perché ho un vecchio
amico artista, inserito nel filone performance
art, che iniziò il suo percorso molti anni fa disegnando falsi segnali
stradali, ubicandoli nella città e filmando le reazioni del pubblico. Pochi
anni fa, travestito da San Matteo seduto su una savonarola di cartone, a piedi
scalzi in una fredda mattina di novembre, si è posizionato davanti alla chiesa
di San Luigi dei Francesi alludendo al quadro del Caravaggio trafugato alla
chiesa durante la guerra – la prima versione di San Matteo e l’angelo.
Così
i Fang vivono sempre in una sorta di border
line tra la realtà e la finzione. Si feriscono? Il sangue sarà finto o sarà
vero? Inventano false rapine in banca utilizzando il figlio piccolo come ladro,
inscenando sparatorie e falsi feriti. Più in là con gli anni si accontenteranno
di distribuire alla gente falsi coupons
per fried chicken gratis, di fronte
al baracchino che li vende, chiedendo ai figli di filmare la scena.
Caleb,
il capofamiglia (un magnifico Christopher Walken) è di un narcisismo cosmico. È
un padre castrante che non ha accettato l’abbandono dei figli, quindi li distrugge
con critiche feroci: secondo lui Baxter (lo stesso Jason Bateman quasi più
bravo come attore che come regista) scrive romanzi insulsi e Annie (la poco
convincente Nicole Kidman eccessivamente botulinata) recita in filmacci. Non
dico di più della storia per non togliere suspense
- peraltro un po’ scarsa specialmente nella parte centrale che tratta della
morte, vera o supposta, dei genitori di Annie e Baxter.
La famiglia Fang è un film che presenta
belle fotografie, buona musica e attori bravi – a parte la Kidman che delude –
anche nella versione di giovani e bambini nei lunghi flash-back, ma non riesce a coinvolgere totalmente. Forse manca di
ritmo o forse qualche errore di trasposizione dal romanzo. E pensare che la scenegiattura è di David Lindsy Abaire,Premio Pulitzer nel 2007 per il dramma Rabbit Hole.
Ghisi Grütter
1 settembre 2016
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