6 luglio 2016

Dario Franceschini : L'AUTOREGGENTE

Bellissima ricostruzione dell'irresistibile ascesa di Franceschini Dario, in arte "l'autoreggente". Adesso bisognerebbe scriverne un'altra sulle persone a lui legate, in primis la consorte, assurta nientedimneno a capogruppo del PD in aula Giulio Cesare, dopo un'entusiasmante campagna elettorale, che, visti i risultati del PD romano, ha premiato solo lei,
D.F.

Da L'Espresso
Piovono Rane
di Alessandro Gilioli

Sempre viva l'autoreggente

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Il ministro Dario Franceschini è ormai unanimemente considerato, nel Pd e non solo, una sorta di termometro umano. Del resto il primo a dirlo fu Renzi, quando non erano ancora alleati: «Per capire dove sta la maggioranza basta vedere dove si siede Franceschini».
Sicché la sua pur lieve presa di distanza dall'Italicum - l'altro giorno, alla direzione Pd - è stata vista non solo come riposizionamento di corrente, ma anche come presagio di uno spostamento di equilibri interni.
Insomma, se Renzi dovesse impattare a ottobre, Franceschini potrebbe spostare di nuovo il gruppone che controlla in Parlamento. Lo stesso che un tempo garantiva la maggioranza ai bersaniani e poi è stato offerto a Matteo Renzi. Prima Franceschini stava con Veltroni. Prima ancora con Prodi.
Dicono comunque che Franceschini sia di buon umore in questi giorni, perché dai balli di partito lui è sempre uscito un gradino più su di come era entrato.
Come quando nel 2009 Veltroni si dimise - a elezioni perdute, con il Pd ridotto a una Bosnia - e lui riuscì a farsi eleggere "segretario reggente", al termine di una mediazione dilatoria fra i vari leader. Franceschini accolse la sua nomina come se fosse una svolta storica per l'umanità: «È tornato l'ottimismo, è iniziata la riscossa!», proclamò, convinto evidentemente di avere doti carismatiche se non taumaturgiche.
Poco dopo iniziò a interpretare il suo nuovo ruolo in chiave mediatico-personalistica, cercando in ogni occasione la photo opportunity per arrivare in prima pagina. Per prima cosa andò nella sua Ferrara a giurare fedeltà alla Costituzione, come se fosse diventato presidente della Repubblica: mai si era visto un neosegretario di partito giurare sulla Costituzione, del resto la cosa serviva solo alle telecamere.
Quindi iniziò un road show vero e proprio, per ottenere se non la riconferma alla segreteria almeno una poltrona di alto livello, per un leader che si sentiva finalmente uscito dalle seconde file.
Alla stazione di Torino Porta Nuova si fece immortalare al finestrino di un treno con il cappello da ferroviere: un'imitazione neppure troppo velata di quanto inscenato da Berlusconi poche settimane prima all'inaugurazione del Frecciarossa. Poi cercò di farsi notare con proposte di riforme sociali che durarono lo spazio di un giorno ma intanto “facevano titolo”: l'assegno di disoccupazione e l'una tantum sui redditi più alti, ad esempio.
Nei circoli gli iscritti iniziarono a chiamarlo «l’autoreggente», riferendosi tanto alla durata della sua segreteria quanto all'utilizzo che lui ne faceva per la propria immagine.
Franceschini portò quindi il partito alle Europee, dove il Pd perse sette punti percentuali secchi rispetto all'anno prima: lui parlò di «una base di partenza per andare avanti».
Infatti lui andò avanti, in vista delle primarie del Pd di ottobre a cui si presentò come candidato segretario, non mantenendo la parola (aveva giurato: «Il mio lavoro finisce a ottobre»). La sua candidatura aveva l'appoggio di Marini, Fioroni, Rutelli, Veltroni e Fassino. Si recò alle foci del Po, maglioncino blu aperto sul collo, e piantò un tricolore. Poi cercò di conquistare l'elettorato giovanile cooptando la rampante Debora Serracchiani. Assunse anche Mario Adinolfi (allora nel Pd) affidandogli la strategia social.
A un certo punto però, avvicinandosi la data delle primarie, divenne chiaro che Franceschini correva non tanto per la riconferma alla segreteria - Bersani era dato largamente in testa - quanto per assicurarsi un ruolo di primo piano per il dopo. Lo sapevano tutti, nel Pd, e si sapeva anche che la poltrona di consolazione sarebbe stata quella di capogruppo a Montecitorio.
Allora il qui presente ebbe la faccia tosta di porre la questione direttamente: «Può assicurare ufficialmente e sul suo onore che questo ventilato mercimonio fra correnti non avverrà?». Franceschini rispose con cortesia: «L’ho già detto nei giorni scorsi e oggi l’ho ribadito con un mio tweet che non lascia spazio a nessuna ambiguità: non c’è nessun accordo per nessuna carica, ma solo il desiderio che si rispetti la scelta del popolo delle Primarie. Fa male al Pd e al confronto chi insiste nel volere far passare un messaggio falso e inciucista».
Era il 21 ottobre 2009. Il 17 novembre, perse le primarie, Franceschini diventò capogruppo del Pd a Montecitorio.
Del resto quello era un buon posto non solo in termini di visibilità ma anche per organizzare la sua corrente, Area Dem, di cui divenne leader insieme a Marini: una sorta di “piccolo Pd”, come viene chiamato dai suoi stessi appartenenti, perché si ingoiava gente che proveniva tanto dalla Margherita quanto dai Ds, compreso l'ex segretario Piero Fassino, gli ecologisti democratici di Ermete Realacci, un bel po' di veltroniani e altri brandelli sparsi di partito. La “componente” appoggiava Bersani, ma giocando in proprio.
Quando nel 2011 cadde Berlusconi, Franceschini si sperticò subito per il nuovo premier: «Governo Monti, difficile immaginare di meglio» (17 novembre 2011).
Poco dopo arrestarono il suo ex tesoriere Luigi Lusi che ai magistrati disse: «Ho dato quattro milioni di euro a Franceschini per la sua campagna da segretario». Lui si costernò: «Notizie di questo tipo servono solo a mescolare in un unico calderone reati commessi e vicende politiche e soprattutto feriscono dolorosamente persone e storie collettive».
Quindi firmò con Fabrizio Cicchitto la proposta per conservare (ma «con regole certe») il finanziamento pubblico dei partiti.
Infine spedì il suo fidatissimo Antonello Soro sulla poltronissima di Garante per la privacy, dove si trova ancora: ex sindaco democristiano di Nuoro, poi consigliere regionale dc in Sardegna, Soro stava terminando la sua quinta legislatura e quindi non avrebbe più potuto fare il parlamentare, secondo lo Statuto del Pd.
Per le politiche del 2013, Franceschini venne candidato come capolista alla Camera in Emilia, senza primarie, designato d'ufficio nel listino bloccato.
Nella prevista spartizione di poltrone in caso di vittoria Pd, a lui doveva essere destinata la presidenza della Camera. Tanto che in quei giorni Franceschini chiese in prestito alla Biblioteca di Montecitorio un volume intitolato “Dallo scranno più alto”: conteneva tutti i discorsi di insediamento dei presidenti della Camera dal 1861 al 2008, 71 orazioni pronunciate dalla terza carica dello Stato, a partire da Urbano Rattazzi fino a Gianfranco Fini. Si preparava, insomma.
Poi le cose andarono diversamente e per le presidenze delle Camere Bersani puntò sui volti nuovi Grasso e Boldrini, sperando che fossero un buon viatico per il "dialogo" con i 5 Stelle. Franceschini non fece un plissé ma capi presto che con i grillini Bersani sarebbe andato a sbattere. Iniziò quindi a rilasciare interviste favorevoli a un accordo di larghe intese, con i berlusconiani.
Poco dopo infatti nacque il governo Letta.
Nelle ore in cui si decidevano le caselle delle poltrone nel nuovo esecutivo, Franceschini scriveva: «Non so cosa sia meglio fra andar dentro e star fuori». Ma mentre esternava questo dubbio sapeva già di essere ministro. Avrebbe voluto la Giustizia o la Cultura, invece gli arrivarono i Rapporti con il Parlamento. Confidò allora a Stefano Lolli del “Resto del Carlino”: «Ho dovuto ripiegare vecchi sogni di gloria nel cassetto». E poi, su Twitter: «Se un amico, vero, chiede una mano in un’avventura così difficile, si risponde di sì. Anche caricandosi il lavoro più difficile e meno visibile».
I sogni non rimasero ripiegati a lungo. E nella lunga estate del 2013 - con Bersani ormai sconfitto ed Epifani nuovo reggente - spostò se stesso e il suo gruppone verso il sindaco di Firenze, fingendo di dimenticare che Renzi - da rottamatore - lo aveva definito "vicedisastro",.
A ottobre dello stesso anno si fece perfino vedere alla Leopolda, dove nelle precedenti edizioni non aveva messo piede.
A dicembre Renzi vinse le primarie: Franceschini aveva visto di nuovo giusto.
Passarono poche settimane e il neosegretario decise di diventare anche premier, disarcionando Letta. A quel punto l'appoggio dell'Area Dem divenne fondamentale per garantire a Renzi la maggioranza nel gruppo parlamentare. Detto fatto, Franceschini scaricò “l'amico vero" Enrico Letta e Renzi entrò a palazzo Chigi. Lui, Franceschini passò subito all'incasso, ottenendo il ministero che con Letta gli era stato negato, la Cultura.
Poi, per due anni - da allora - è andato tutto bene. Con Renzi dominus, ma Franceschini che poteva gestire il suo ministero in proprio e accompagnava festante Obama dentro il Colosseo,
Finché non si è sentito di nuovo odore di movimenti.
Allora si è mosso anche lui.
Le "cene in via delle Muratte", nel centro di Roma, sono già leggenda: è lì che ha ripreso a incontrarsi con i suoi, per preparare il dopo.
Quale che sia, questo dopo.
L'autoreggente è sempre pronto

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