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Sto ancora cercando di metabolizzare lo shock del referendum inglese, una ferita profonda nella storia dell’Unione europea, Ue, che prima di tutto ci deve allertare sui pericoli drammatici dell’ondata di sentimenti di anti-politica e anti-élites che scuote i paesi avanzati, la quale può portare a decisioni disastrose poi difficilmente reversibili.
Quei movimenti sono presenti oramai in molti paesi europei; non possiamo sottovalutare il pericolo di scivolare su un piano inclinato di rivendicazioni e rincorse nazionalistiche che può mettere in pericolo la stessa sopravvivenza dell’Unione. Una risposta politica dell’Ue, o di una cerchia più stretta dei suoi paesi fondatori o dei suoi maggiori paesi, non può mancare. Purché sappiamo identificare con lucidità gli obbiettivi. Londra e il mercato interno europeo Dovremo decidere, in primo luogo, che cosa fare con il Regno Unito. Secondo me il problema è molto complicato per il Regno Unito, molto meno per l’Unione. Londra deve decidere niente di meno se vuol restare nel mercato interno europeo, o se ne vuole uscire. La cosa forse non ancora ben compresa tra i fautori inglesi del Leave è che questo è un pacchetto che si compera tutto insieme, o non si compera affatto. Le quattro libertà di circolazione - delle merci, dei servizi, dei capitali e delle persone - sono un caposaldo del Trattato istitutivo dell’Unione (Tue) e non sono separabili. Non si può, in particolare avere le prime tre e lasciar cadere la quarta. Su questo non vi sarà e non vi può essere alcun negoziato tra l’Unione e il Regno Unito (sempre che resti unito dopo l’esito sciagurato del referendum). L’obiettivo di chiudere le frontiere ai lavoratori immigrati dagli altri paesi dell’Unione è stato uno dei cavalli di battaglia vincenti nella campagna pro-Brexit. Tornare indietro, per gli inglesi, non sarà facile; ma penso che sarà inevitabile, perché i costi economici della perdita dell’accesso al mercato interno dell’Unione sarebbero devastanti - in primis per la City, che perderebbe la sua funzione di porta d’ingresso per i grandi capitali dal resto del mondo verso l’Unione europea. Così, ecco il grande paradosso: il Regno Unito molto probabilmente continuerà ad obbedire alle regole europee, incluse le decisioni della Corte europea di giustizia, ma non parteciperà più alla loro scrittura. Come ripresa del controllo su propri destini, non c’è male. Tenere i negoziati separati La scelta della strategia negoziale sarà più complicata. Il Regno Unito tenderà a ritardare la notifica prevista dall’articolo 50 del Tue, per cercare di unificare i due tavoli delle modalità del recesso e della definizione del nuovo assetto dei rapporti con l’Unione. Bruxelles non ha motivo di unificare i due tavoli. Non lo chiede l’articolo 50, che fa solo riferimento all’esigenza di “tenere conto del quadro delle future relazioni con l’Unione” del paese uscente. Non lo suggeriscono le ragioni di tattica negoziale, dato che collegare le questioni sui due tavoli conviene evidentemente solo al Regno Unito. Né vi sarebbe molto da guadagnare per l’Unione se accettasse di incominciare a negoziare il futuro assetto delle relazioni con il Regno Unito prima ancora di aver ricevuto la notifica dell’intenzione di recedere e, più importante, prima di conoscere il mandato con il quale il Parlamento inglese chiederà al suo governo di avviare la procedura di recesso. Unione non solo sopravvive, ma si rafforza Qualche breve considerazione sul rilancio dell’Unione. Quel che cercherei di fare non è di immaginare ambiziose riforme dei Trattati, che oggi non sono possibili, ma di consolidare con decisione quel che già si sta facendo sui diversi fronti dell’economia, dell’immigrazione e della sicurezza - ristabilendo anche, laddove necessario, l’autorità delle istituzioni comuni nei confronti degli stati membri che non applicano le decisioni comuni, ad esempio in materia di immigrazione. Dunque, si tratta anzitutto di riprendere il negoziato sull’unione bancaria, completandola con l’assicurazione unica dei depositi bancari e un sistema comune di garanzia fiscale di ultima istanza. Il negoziato è bloccato per l’incapacità di trovare un equilibrio tra le richieste della Germania di ridurre i rischi nei bilanci della banche della periferia (leggi anzitutto Italia) e quella della periferia meridionale di accettare una condivisione maggiore dei rischi. Poiché la condivisione dei rischi implica inevitabilmente elementi di unione fiscale, essa porta con sé in prospettiva l’istituzione di una figura di ministro europeo delle finanze, dotato di poteri discrezionali di intervento per fare rispettare gli indirizzi comuni di politica economica fissati dal Consiglio. Questa figura dovrebbe rispondere dei suoi atti non solo al Consiglio, ma anche al Parlamento europeo, trovando in quella sede una accresciuta fonte di legittimità democratica. Sull’immigrazione, bisogna ristabilire l’integrità degli accordi di Schengen, ridare credibilità alle decisioni comuni in materia di gestione dei flussi migratori e dare concreata attuazione alle idee italiane di un migration compact che preveda significativi investimenti per lo sviluppo nei paesi che dobbiamo convincere a collaborare a fermare i flussi migratori. Sulla sicurezza, incomincerei dando attuazione alle decisioni già preparate per il prossimo Consiglio europeo per l’istituzione di una polizia comune di frontiera dell’unione. La ciliegia sulla torta sarebbe una incisiva iniziativa per la crescita e l’occupazione, soprattutto giovanile, come hanno indicato di voler fare i capi di governo di Germania, Francia e Italia nella dichiarazione congiunta dopo la riunione di Berlino il 27 giugno. Insomma, più che a irrealistici balzi in avanti, che non ci saranno, dobbiamo pensare a decisioni concrete fattibili, anche se non facili, che dimostrino che l’Unione non solo sopravvive, ma si rafforza. Se le cose sono ben fatte e chiaramente spiegate, anche il filo del consenso dell’opinione pubblica può incominciare a riallacciarsi. Stefano Micossi è Direttore generale dell’Assonime |
1 luglio 2016
UNIONE EUROPEA A 27,C'E' SPAZIO PER IL RILANCIO
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