Buona lettura
Venti Angeli sopra
Roma
15 luglio 1943, mancano solo quattro giorni al 19 luglio. Una formazione
d’aerei americani piomba sulla capitale. Le sirene suonano solo quando gli
aerei sono sul cielo della città; le batterie contraeree sparano in ritardo con
proiettili che non superano i 6.000 metri ,
mentre gli aerei americani volano a quota
7000 metri .
Per fortuna gli aerei gettano solo volantini, che arrivano perfino sul selciato
di Piazza Venezia, per avvisare i romani che stanno per essere bombardati. Il
Segretario del Partito Nazionale Fascista Carlo Scorza assicura:
“Ho dato ordini
severissimi. Chi li raccoglie e se ne impossessa viene arrestato per
disfattismo”. Altri volantini lanciati nella notte tra il 18
e il 19 dicono:
“Romani! Abbandonate le vostre case se sono in
prossimità di stazioni ferroviarie, aeroporti, caserme. Rifugiatevi lontano
dagli obiettivi militari che le forze armate dell’aria Alleate possono
bombardare. Romani! Questo è un avviso urgente. Non credete alla propaganda di
Mussolini. Mettetevi in salvo”.
una fioraia, Nannarella : “Eh nonno, voi che ssète anziano e la
sapete lunga! Che ssò sti manifestini ch’hanno buttato stanotte l’apparecchi
inglesi? Che dicheno?”
Nonno: “Eh cche dicheno
bella de casa, che nun sai legge? Dicheno
che se dovemo arende. Che la guera è persa e che bombarderanno puro Roma”.
Nannarella : “Ma
come? E er Papa? Nun ce penseno ar
Papa. Ma poi sarà vero quello che se sente dì
‘n giro. Ce l’avemo o no l’arma segreta? N’amico mio - ch’ er padre lavora ar
Ministero - dice ch’amo ‘nventato ‘na vernice speciale. Che l’aeroplani e li
cari armati diventeno invisibili. Ma, nun l’addà sapè nessuno, me raccomanno.
Je passi ‘na manata de vernice sopra e sparisce tutto”.
Nonno : “E
certo!....E si te ce dai ‘na mano in
testa te sparischeno puro li pidocchi…..Ah Nannarè!….. Ma vattela a pijà ‘n der
secchio”.
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Estate del ’43, la
guerra è già perduta. L’Africa è stata abbandonata. In Russia il disastro delle
forze armate tedesche e italiane è sotto gli occhi di tutti. Lo sbarco alleato
in Sicilia ha incontrato una resistenza quasi nulla. Roma, però, sembra immune
alle bombe. E’ la prodigiosa protezione del Papa dice la gente, che questo
crede o forse… vuole, credere.
Cielo di Roma, 19 luglio 1943, ore 11,02. E’ giunto il momento.
La mano
del tenente puntatore Owen Gibson è artigliata sulla cloche che apre il vano bombe, il dito pronto sul
bottone di sgancio. Il suo sguardo è fisso all’oculare della scatola di
puntamento attraverso cui vede scorrere lentamente Roma. Roma completamente
indifesa da al puntatore Gibson un’idea di calma irreale, come di pigrizia, nel
mattino assolato. Finora
niente contraerea. Nessun caccia.
Il
tenente vede la cupola di S. Pietro, il colonnato che abbraccia la piazza; i
palazzi vaticani, la sagoma ottagonale di Castel S. Angelo. Nell’auricolare
dell’interfono la voce del pilota gracchia rivolta al puntatore: “E’ tutto tuo Owen. Quando vuoi”.
Ora
entrano nel mirino gli scali ferroviari e i depositi militari nella zona Nord
Est della città. Il tenente Owen Gibson guida la prima ondata. La prima bomba che sgancerà sarà il segnale per
gli altri aerei che lo seguono.
Eccolo, lo scalo San Lorenzo. La
raggiera delle rotaie e degli scambi e i lunghi edifici rettangolari intorno
brillano, nel visore, collimano nel mirino graduato: “Fuori!”, urla il tenente Gibson nella
sua mente e nella stessa frazione di secondo la sua voce scandisce via radio: “Bombe fuori!”, a tutti
gli altri bombardieri e il suo dito preme il pulsante rosso.
Su Roma
assolata e millenaria si abbatte l’inferno.
Sono le 11.02 del
19 luglio 1943, quando non preavvisato da alcun
allarme, si sente avanzare nel cielo di Roma un clamore d’orchestra metallico e
ronzante. L’aria inizia a fischiare, mentre già in un tuono enorme tutti i muri
delle case precipitano a terra e la strada salta, sminuzzata in una mitraglia
di frammenti. Un diluvio di bombe si abbatte sul quartiere di San Lorenzo. Si staccano dalle fusoliere come
confetti argentati, uno attaccato all’altro. Brillano nel sole mentre si
sgranano verso il basso. Bombe dal 500 libre, 250 chili. All’inizio precipitano
orizzontalmente, poi le elichette sulla coda le drizzano lentamente e già dopo
i cinquecento, mille metri, si mettono di punta e vanno giù aumentando sempre
più di velocità.
Le prime bombe centrano in pieno i binari, due vagoni e un
capannone dello scalo merci di S. Lorenzo. Le altre bombe si abbattono sui
tralicci, le cabine elettriche, gli scambi, i magazzini di smistamento, gli
uffici, i convogli in sosta. Le bombe sganciate in successione colpiscono il
viale dello scalo di S. Lorenzo e il viale del Verano che ne costituisce il
proseguimento.
I bombardieri che seguono hanno l’ordine di mirare strettamente alle
nubi di polvere, al fumo e agli incendi provocati dal primo passaggio, ma ad
ogni ondata la zona coperta dal fumo, vista dall’alto, s’allarga sempre di più
e inevitabilmente i grappoli di bombe finiscono ben oltre lo scalo. Viene
investito in pieno il quartiere S. Lorenzo, il Verano, vengono colpiti edifici
dell’Università, del Policlinico. E’ colpito il tratto di Porta Maggiore; è
colpita Via del Pigneto. E ancora Via Montebello, Via Giovenale, Piazza S.
Croce in Gerusalemme, Piazza Bologna, Via Lorenzo il Magnifico, Viale Manzoni. Perfino Città Giardino e Villa
Clementi. Sono colpiti anche lo scalo ferroviario sulla via Salaria, davanti al
quale vi è l’aeroporto dell’Urbe e infine l’aeroporto di Ciampino.
Il più colpito è il quartiere di S. Lorenzo. Una bomba centra in pieno
l’orfanotrofio statale che ospita 500 bambini in via dei Sabelli. Al numero 72
di via dei Reti c’è il carcere minorile. I custodi scappano senza curarsi di
aprire lucchetti e serrature, i ragazzi detenuti urlano dal terrore. Una
quarantina di loro rimane sotto i crolli e i detriti. Bombe cadono sul convento
delle suore Concezioniste, sui ricoveri che diventano trappole, sulla fabbrica
di birra Wührer di via degli Apuli, sul Pastificio Pantanella, sulle
botteghe dei marmisti, sulla Basilica di S. Lorenzo, sulla zona monumentale del
cimitero in un osceno groviglio di ossa e corpi di gente appena colpita, busti
di marmo, croci e lampade votive. Vengono colpite la sede romana della FIAT in
viale Manzoni e la centrale del latte di Via Turati; è distrutta la grande
autorimessa dell’ATAC su via Prenestina.
Alle 14.20 suona la
sirena del cessato allarme; ora occorre fronteggiare l’emergenza soccorsi,
senza piano, senza uomini sufficienti, né mezzi di soccorso. C’è da assistere
feriti, dare sepoltura ai morti; molti non saranno neppure identificati perchè
il caldo accelera la loro putrefazione. Il 20 luglio, dal governo partono solo
due direttive: la prima impone che venga disposto un rigido cordone di polizia
e carabinieri attorno al quartiere bombardato, perché nessuno deve vedere
quello scenario orribile; la seconda
vuole la pronta riapertura al traffico della Tiburtina e delle
principali arterie.
Tocca ai vigili del fuoco
che con la sola forza delle braccia, lavorano senza tregua. Muoiono 24 di vigili
del fuoco. La parrocchia dell’Immacolata è l’unico centro di aggregazione e
soccorso del quartiere, per quanti non hanno il coraggio di allontanarsene,
nella speranza di ritrovare vivi i propri cari, quasi sempre donne e bambini,
visto che molti uomini all’ora del bombardamento erano al lavoro, lontano da S.
Lorenzo. La cucina del Collegio Pio X in via degli Etruschi e quella delle
suore Dorotee distribuisce nei giorni successivi un po’ di pasta e di pane con
la farina inviata dal Vaticano. Ma è il Papa, il Papa stesso a materializzarsi
nel quartiere verso le 17.00, quando il bombardamento è cessato da poche ore.
Allarga le braccia davanti alla gente che piange e prega e sembra ora riporre
solo in lui, ogni speranza di salvezza per il futuro.
Il regime fascista
nasconde la spaventosa dimensione del massacro. Nel bollettino emesso due
giorni dopo, il quartier generale delle forze armate parla di 176 morti e 1659
feriti. Il Messaggero del 23 luglio, e sono passati 4 giorni dal
bombardamento, pubblica un comunicato del Ministero dell’interno che stima le
perdite sofferte dalla popolazione di Roma in 717 morti e 1599 feriti. Ma una
relazione del comando dei carabinieri parla, invece, di oltre 2 mila e duecento
morti.
Il fascismo finisce una
settimana dopo. Il 25 luglio il Gran Consiglio del fascismo depone Mussolini;
il Re lo fa arrestare e lo sostituisce con il Maresciallo Badoglio. Comincia
per il nostro Paese un’altra storia: l’Armistizio dell’8 settembre del ‘43,
l’occupazione tedesca, la Resistenza. Una
storia in fondo alla quale vi sono la libertà riconquistata, la Costituzione e la
democrazia.
L’Italia è in pace da
71 anni; il contesto nazionale e internazionale in cui viviamo è oggi
profondamente cambiato e sulla rotta dall’Africa, seguita la mattina del 19
luglio dai bombardieri americani, ora viaggiano, su battelli e rotte di fortuna,
uomini e donne in fuga da altre tragedie e da altri lutti.
Ricordare il
bombardamento di S. Lorenzo non è un atto d’archeologia, nè solo un omaggio a
quanti morirono in quell’ orrore. Perché non è il passato, ma il futuro ad
interrogare la nostra memoria.
Questa memoria è dedicata ai romani Osvaldo, Assunta,
Antonietta, Peppe, Maria e agli oltre settemila che sono morti nei
bombardamenti su Roma del ’43 e del ’44, vittime innocenti della guerra
fascista.
Ai giovani piloti da caccia italiani, Bruno, Luigi,
Salvatore, che, in quell’estate del ’43, salivano uno contro cento ad
intercettare le nuvole di ferro degli aerei nemici.
E ai ragazzi statunitensi poco più che ventenni Ethan, Don,
Gary, Robert arsi dentro ai bombardieri esplosi nel cielo del Lazio, venuti a
morire perché gli italiani ritrovassero la strada di un’antica saggezza e di
una nuova libertà.
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