12 luglio 2016

Venti Angeli sopra Roma

Proponiamo la lettura di un testo liberamente tratto dal libro “Venti Angeli sopra Roma” di Cesare De Simone, a cura di Massimo Taborri e Aldo Luciani.. E' un modo per sentirsi vicini a quel lontano 19 luglio 1943 e partecipare più consapevoli alle celebrazioni che si terranno  fra pochi giorni a San Lorenzo , il 19 luglio  presso il Parco dedicato a quel triste giorno.
Buona lettura





Venti Angeli sopra Roma

 

15 luglio 1943, mancano solo quattro giorni al 19 luglio. Una formazione d’aerei americani piomba sulla capitale. Le sirene suonano solo quando gli aerei sono sul cielo della città; le batterie contraeree sparano in ritardo con proiettili che non superano i 6.000 metri, mentre gli aerei americani volano a quota 7000 metri. Per fortuna gli aerei gettano solo volantini, che arrivano perfino sul selciato di Piazza Venezia, per avvisare i romani che stanno per essere bombardati. Il Segretario del Partito Nazionale Fascista Carlo Scorza assicura:

 

“Ho dato ordini severissimi. Chi li raccoglie e se ne impossessa viene arrestato per disfattismo”.  Altri volantini lanciati nella notte tra il 18 e il 19 dicono:

 

 “Romani! Abbandonate le vostre case se sono in prossimità di stazioni ferroviarie, aeroporti, caserme. Rifugiatevi lontano dagli obiettivi militari che le forze armate dell’aria Alleate possono bombardare. Romani! Questo è un avviso urgente. Non credete alla propaganda di Mussolini. Mettetevi in salvo”.

 

una fioraia, Nannarella : “Eh nonno, voi che ssète anziano e la sapete lunga! Che ssò sti manifestini ch’hanno buttato stanotte l’apparecchi inglesi? Che dicheno?”

 

Nonno: “Eh cche dicheno bella de casa, che nun sai legge? Dicheno che se dovemo arende. Che la guera è persa e che bombarderanno puro Roma”.

 

Nannarella : “Ma come? E er Papa? Nun ce penseno ar Papa. Ma poi sarà vero quello che se sente dì ‘n giro. Ce l’avemo o no l’arma segreta? N’amico mio - ch’ er padre lavora ar Ministero - dice ch’amo ‘nventato ‘na vernice speciale. Che l’aeroplani e li cari armati diventeno invisibili. Ma, nun l’addà sapè nessuno, me raccomanno. Je passi ‘na manata de vernice sopra e sparisce tutto”.

 

Nonno :E certo!....E si te ce dai ‘na mano in testa te sparischeno puro li pidocchi…..Ah Nannarè!….. Ma vattela a  pijà ‘n der secchio”. 

 

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Estate del ’43, la guerra è già perduta. L’Africa è stata abbandonata. In Russia il disastro delle forze armate tedesche e italiane è sotto gli occhi di tutti. Lo sbarco alleato in Sicilia ha incontrato una resistenza quasi nulla. Roma, però, sembra immune alle bombe. E’ la prodigiosa protezione del Papa dice la gente, che questo crede o forse… vuole, credere.

 

Cielo di Roma, 19 luglio 1943, ore 11,02. E’ giunto il momento.

 

La mano del tenente puntatore Owen Gibson è artigliata sulla cloche  che apre il vano bombe, il dito pronto sul bottone di sgancio. Il suo sguardo è fisso all’oculare della scatola di puntamento attraverso cui vede scorrere lentamente Roma. Roma completamente indifesa da al puntatore Gibson un’idea di calma irreale, come di pigrizia, nel mattino assolato. Finora niente contraerea. Nessun caccia.

 

Il tenente vede la cupola di S. Pietro, il colonnato che abbraccia la piazza; i palazzi vaticani, la sagoma ottagonale di Castel S. Angelo. Nell’auricolare dell’interfono la voce del pilota gracchia rivolta al puntatore: “E’ tutto tuo Owen. Quando vuoi”.

 

Ora entrano nel mirino gli scali ferroviari e i depositi militari nella zona Nord Est della città. Il tenente Owen Gibson guida la prima ondata. La prima bomba che sgancerà sarà il segnale per gli altri aerei che lo seguono.

Eccolo, lo scalo San Lorenzo. La raggiera delle rotaie e degli scambi e i lunghi edifici rettangolari intorno brillano, nel visore, collimano nel mirino graduato: “Fuori!”, urla il tenente Gibson nella sua mente e nella stessa frazione di secondo la sua voce scandisce via radio: “Bombe fuori!”, a tutti gli altri bombardieri e il suo dito preme il pulsante rosso.

 

Su Roma assolata e millenaria si abbatte l’inferno.

 

Sono le 11.02 del 19 luglio 1943, quando non preavvisato da alcun allarme, si sente avanzare nel cielo di Roma un clamore d’orchestra metallico e ronzante. L’aria inizia a fischiare, mentre già in un tuono enorme tutti i muri delle case precipitano a terra e la strada salta, sminuzzata in una mitraglia di frammenti. Un diluvio di bombe si abbatte sul quartiere di San Lorenzo. Si staccano dalle fusoliere come confetti argentati, uno attaccato all’altro. Brillano nel sole mentre si sgranano verso il basso. Bombe dal 500 libre, 250 chili. All’inizio precipitano orizzontalmente, poi le elichette sulla coda le drizzano lentamente e già dopo i cinquecento, mille metri, si mettono di punta e vanno giù aumentando sempre più di velocità.

 

Le prime bombe centrano in pieno i binari, due vagoni e un capannone dello scalo merci di S. Lorenzo. Le altre bombe si abbattono sui tralicci, le cabine elettriche, gli scambi, i magazzini di smistamento, gli uffici, i convogli in sosta. Le bombe sganciate in successione colpiscono il viale dello scalo di S. Lorenzo e il viale del Verano che ne costituisce il proseguimento.

 

I bombardieri che seguono hanno l’ordine di mirare strettamente alle nubi di polvere, al fumo e agli incendi provocati dal primo passaggio, ma ad ogni ondata la zona coperta dal fumo, vista dall’alto, s’allarga sempre di più e inevitabilmente i grappoli di bombe finiscono ben oltre lo scalo. Viene investito in pieno il quartiere S. Lorenzo, il Verano, vengono colpiti edifici dell’Università, del Policlinico. E’ colpito il tratto di Porta Maggiore; è colpita Via del Pigneto. E ancora Via Montebello, Via Giovenale, Piazza S. Croce in Gerusalemme, Piazza Bologna, Via Lorenzo il Magnifico,  Viale Manzoni. Perfino Città Giardino e Villa Clementi. Sono colpiti anche lo scalo ferroviario sulla via Salaria, davanti al quale vi è l’aeroporto dell’Urbe e infine l’aeroporto di Ciampino.

 

Il più colpito è il quartiere di S. Lorenzo. Una bomba centra in pieno l’orfanotrofio statale che ospita 500 bambini in via dei Sabelli. Al numero 72 di via dei Reti c’è il carcere minorile. I custodi scappano senza curarsi di aprire lucchetti e serrature, i ragazzi detenuti urlano dal terrore. Una quarantina di loro rimane sotto i crolli e i detriti. Bombe cadono sul convento delle suore Concezioniste, sui ricoveri che diventano trappole, sulla fabbrica di birra Wührer di via degli Apuli, sul Pastificio Pantanella, sulle botteghe dei marmisti, sulla Basilica di S. Lorenzo, sulla zona monumentale del cimitero in un osceno groviglio di ossa e corpi di gente appena colpita, busti di marmo, croci e lampade votive. Vengono colpite la sede romana della FIAT in viale Manzoni e la centrale del latte di Via Turati; è distrutta la grande autorimessa dell’ATAC su via Prenestina.

 

Alle 14.20 suona la sirena del cessato allarme; ora occorre fronteggiare l’emergenza soccorsi, senza piano, senza uomini sufficienti, né mezzi di soccorso. C’è da assistere feriti, dare sepoltura ai morti; molti non saranno neppure identificati perchè il caldo accelera la loro putrefazione. Il 20 luglio, dal governo partono solo due direttive: la prima impone che venga disposto un rigido cordone di polizia e carabinieri attorno al quartiere bombardato, perché nessuno deve vedere quello scenario orribile; la seconda  vuole la pronta riapertura al traffico della Tiburtina e delle principali arterie.

 

Tocca ai vigili del fuoco che con la sola forza delle braccia, lavorano senza tregua. Muoiono 24 di vigili del fuoco. La parrocchia dell’Immacolata è l’unico centro di aggregazione e soccorso del quartiere, per quanti non hanno il coraggio di allontanarsene, nella speranza di ritrovare vivi i propri cari, quasi sempre donne e bambini, visto che molti uomini all’ora del bombardamento erano al lavoro, lontano da S. Lorenzo. La cucina del Collegio Pio X in via degli Etruschi e quella delle suore Dorotee distribuisce nei giorni successivi un po’ di pasta e di pane con la farina inviata dal Vaticano. Ma è il Papa, il Papa stesso a materializzarsi nel quartiere verso le 17.00, quando il bombardamento è cessato da poche ore. Allarga le braccia davanti alla gente che piange e prega e sembra ora riporre solo in lui, ogni speranza di salvezza per il futuro.

 

Il regime fascista nasconde la spaventosa dimensione del massacro. Nel bollettino emesso due giorni dopo, il quartier generale delle forze armate parla di 176 morti e 1659 feriti. Il Messaggero del 23 luglio, e sono passati 4 giorni dal bombardamento, pubblica un comunicato del Ministero dell’interno che stima le perdite sofferte dalla popolazione di Roma in 717 morti e 1599 feriti. Ma una relazione del comando dei carabinieri parla, invece, di oltre 2 mila e duecento morti.

 

Il fascismo finisce una settimana dopo. Il 25 luglio il Gran Consiglio del fascismo depone Mussolini; il Re lo fa arrestare e lo sostituisce con il Maresciallo Badoglio. Comincia per il nostro Paese un’altra storia: l’Armistizio dell’8 settembre del ‘43, l’occupazione tedesca, la Resistenza. Una storia in fondo alla quale vi sono la libertà riconquistata, la Costituzione e la democrazia.

 

L’Italia è in pace da 71 anni; il contesto nazionale e internazionale in cui viviamo è oggi profondamente cambiato e sulla rotta dall’Africa, seguita la mattina del 19 luglio dai bombardieri americani, ora viaggiano, su battelli e rotte di fortuna, uomini e donne in fuga da altre tragedie e da altri lutti.

 

Ricordare il bombardamento di S. Lorenzo non è un atto d’archeologia, nè solo un omaggio a quanti morirono in quell’ orrore. Perché non è il passato, ma il futuro ad interrogare la nostra memoria.

 

Questa memoria è dedicata ai romani Osvaldo, Assunta, Antonietta, Peppe, Maria e agli oltre settemila che sono morti nei bombardamenti su Roma del ’43 e del ’44, vittime innocenti della guerra fascista.

 

Ai giovani piloti da caccia italiani, Bruno, Luigi, Salvatore, che, in quell’estate del ’43, salivano uno contro cento ad intercettare le nuvole di ferro degli aerei nemici.

 

E ai ragazzi statunitensi poco più che ventenni Ethan, Don, Gary, Robert arsi dentro ai bombardieri esplosi nel cielo del Lazio, venuti a morire perché gli italiani ritrovassero la strada di un’antica saggezza e di una nuova libertà.

 

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