6 luglio 2016

WALTER TOCCI: L' INASCOLTATO

                                                                        Walter Tocci

 

Walter Tocci si sta configurando sempre più nel panorama politico romano, come un "saggio" non legato ad alcuna corrente del partito di appartenenza . Parla , avverte, informa, garbatamente critica e dissente dall'alto della sua esperienza di ottimo amministratore, ineguagliato assessore alla mobilità al Comune di Roma,  di parlamentare e di uomo di cultura. Nel PD viene ascoltato con rispetto e buona educazione , ma senza alcun seguito. Questo comportamento la dice lunga sulla presunzione dei nuovi " padroncini "di S.  Andrea  delle Fratte. Basterebbe solo starlo a sentire ed attuare un po' di quello che dice per rimediare ad errori che causano danni, come il disastro delle recenti amministrative. Inascoltato lo è da sempre , lui stesso non abbiamo ben compreso se abbia solo voglia di essere ascoltato o di assumere  un maggior ruolo di responsabilità all'interno del partito. Si era parlato di una sua candidatura a Sindaco. Ma è stato lui stesso a declinare l'invito con quel garbo e risolutezza che lo contraddistinguono. Il ruolo che si è ritagliato, all'interno del partito ne fanno comunque uno dei politici più apprezzati ed amati dalla base, in particolare di quella da dove lui stesso proviene. Gli riconoscono lealtà ed onestà, competenza , visione  ed analisi critica. Parla senza vincoli , lacci e laccetti. Lo fa solo nell'interesse del partito e di quel sentire la politica che come lui in tanti credono: la   politica  con la P maiuscola intesa come servizio pubblico......

nei fatti e non nelle chiacchiere.

Domenico. Fischetto.

 

 

5 Luglio 2016
 
Il dubbio dei vincitori

 di Walter Tocci

 

Di seguito l'intervento che avevo preparato per la Direzione del PD sull'analisi del voto. Purtroppo non è stato possibile pronunciarlo all'assemblea del 4 Luglio 2016.

*

C'è un aspetto surreale della nostra campagna elettorale; mai si era visto finora un partito impegnato in due diverse consultazioni popolari. Mentre i candidati e i militanti combattevano nelle città, il PD nazionale si mobilitava per un referendum che si terrà in una data imprecisata. La sovrapposizione non ha portato voti, ma ha contribuito a unire gli avversari. L'anticipazione del referendum sembrava un tentativo di oscurare le amministrative, perché non turbassero la narrazione del leader vincente. Meglio sarebbe stato provare a vincere nelle città con l’impegno del leader. 

All’assemblea romana del PD, prima del ballottaggio, proposi di rafforzare Giachetti nelle periferie affiancandolo con Renzi, che così avrebbe potuto spiegare al popolo il “cantiere sociale” di cui ci ha parlato oggi. Sulla mia proposta calò il silenzio imbarazzato dei dirigenti locali. Mi rispose un giovane renziano sostenendo che la presenza del segretario ci avrebbe fatto perdere voti. C’è voluto il candore giovanile per svelare il problema politico delle amministrative. 

È un errore di provincialismo continuare a sottovalutare il voto nelle storiche capitali italiane: Torino, Napoli e soprattutto l’umiliante sconfitta di Roma. Se ne è parlato sui giornali di tutto il mondo, ma qui si fa finta di niente; la lunga relazione introduttiva ha glissato e anche Orfini ha parlato in generale, dimenticando il ruolo di Commissario del PD romano. L'unica menzione è nel triste riferimento sessista di De Luca alla sindaca Raggi. 


Nella campagna elettorale alcuni hanno hanno preso sul serio la priorità referendaria, fino a promettere la riforma del bicameralismo a quei cittadini che chiedevano pane e lavoro. E come biasimarli, d’altronde? Da tanto tempo i politici che non sanno governare il Paese attribuiscono la colpa alla Costituzione. L’ossessione ormai trentennale nel modificare la Carta non trova paragoni in nessun paese occidentale, è una patologia solo italiana. È stato il sogno della nostra generazione, ha ricordato Franceschini; direi meglio, è stata la fuga onirica dalla realtà del Paese. La nuova generazione doveva cambiare verso e invece scopiazza maldestramente i progetti di Aldo Bozzi, di Ciriaco De Mita e di Massimo D’Alema. Si adottano vecchie soluzioni ormai travolte da nuovi problemi. Si applica il modello Westminster quando il bipolarismo non funziona più in nessun paese europeo. Si concentrano i poteri sui governi, proprio mentre perdono la fiducia dei cittadini e non vengono quasi mai rieletti. Si aumentano i premi di maggioranza per compensare gli elettori che non votano, così voteranno sempre di meno.

Con l’Italicum e la revisione costituzionale viene meno la saggezza, sia nella politica che nelle istituzioni. Si crea la possibilità di un leader aggressivo che, con il sostegno del 20% dei cittadini, arrivi a conquistare il banco e modificare le regole fondamentali.
Si poteva fare meglio? Certo, seguendo un percorso diverso. Poco fa abbiamo rivisto sullo schermo il discorso di Napolitano al Parlamento per la sua rielezione. Quel giorno c'ero e non l’ho applaudito. Perché trasferiva in una crisi costituzionale quella che era invece una crisi politica del Pd, incapace di eleggere il suo fondatore al Quirinale. Si doveva tornare al voto al più presto, approvando la nuova legge elettorale basata sui collegi, c’erano anche i numeri alla Camera e al Senato. Invece si avviò la revisione costituzionale per legittimare governi sprovvisti di mandato popolare e per tenere in vita un Parlamento eletto con legge incostituzionale. 

Le Costituzioni non devono scriverle i governi, altrimenti durano poco e alimentano la discordia nazionale. Era già accaduto nel 2005 con la destra, e nel 2000 con la sinistra. Avevamo promesso di non farlo più, ma ripetiamo l’errore. 
Voterò No al referendum per aprire la strada a una riforma più saggia e più condivisa. E per cambiare le priorità, nonché l'asticella del leader.

Il Presidente del Consiglio non dovrebbe drammatizzare l’esito referendario. Da troppo tempo si creano emergenze artificiose per imporre scelte sbagliate. Invece, il segretario fallirebbe il suo compito se non riuscisse a cambiare il Pd come aveva promesso nelle primarie.
La crisi italiana non dipende dall'ingegneria istituzionale, ma dalla sfiducia nei partiti. La prima riforma costituzionale è la riforma della politica. Proprio con questa ambizione avevamo fondato il PD, ormai quasi dieci anni fa. Possiamo dire di aver realizzato le speranze di allora?

Avevamo immaginato il partito degli elettori, ci ritroviamo il partito degli eletti.

Volevamo costruire una moderna forza popolare, siamo stati spiantati dalle periferie italiane.

Volevamo rinnovare la classe dirigente, non abbiamo candidati vincenti nelle grandi città.

Il PD che sognammo non è mai nato, è cresciuta invece una filiera di notabili, chiusa in se stessa, senza anima e senza progetti. Quando amministra bene, come a Torino, non riesce a rappresentare né le speranze né i lamenti della gente. Quando delude gli elettori, come a Napoli e a Roma, non ha né l’umiltà né il coraggio per riconquistare la loro stima. Dopo Mafia Capitale bisognava dimostrare di aver capito la lezione. Almeno l’umiliazione si poteva evitare, promuovendo una lista civica del centrosinistra, mettendo a disposizione le nostre forze migliori per ricostruire una classe dirigente competente e autorevole. Invece, il ceto politico locale ha conservato se stesso e ha puntato l’indice sui circoli, mortificando i militanti e scambiando gli effetti con le cause. 

Eppure dovremmo essere orgogliosi del volontariato, dell’impegno civile e del buongoverno di tante democratiche e democratici. C’è voluta una rivista americana per valorizzare il capolavoro del nostro sindaco di Riace che ha rigenerato il centro storico accogliendo i migranti. Le migliori risorse del Pd non sono ancora state messe a frutto.

Se non abbiamo realizzato quel sogno di dieci anni fa, nessuno qui può sottrarsi alla responsabilità: né i dirigenti attuali, né quelli precedenti. Riconoscerlo sinceramente aiuterebbe a superare una dialettica interna spesso ripetitiva e propagandistica. Nessuno di noi può essere contento di come funziona questa assise. La minoranza si sente inascoltata e reitera le sue critiche, le quali servono alla maggioranza per compattarsi in un velleitario Avanti Savoia, eludendo l’onere di un’autonoma spiegazione delle cose che non vanno. Temo un congresso che aggiunga solo le percentuali a un conflitto sterile. Meglio sarebbe un compromesso generativo. Sì, proprio compromesso, la bella parola dei grandi politici, tanto vituperata dai piccoli politici. E generativo di ambizioni e di impegni condivisi.

Primo: costruire il partito come luogo della cittadinanza attiva, della cultura delle riforme e dell’educazione dei giovani. Secondo: riconquistare la fiducia popolare con nuove politiche sociali per il lavoro e l’eguaglianza. Terzo: prendere la guida della malmessa sinistra europea, non solo con le ottime iniziative nel Parlamento europeo e della diplomazia governativa, ma con una mobilitazione culturale e sociale nel continente.

Oggi il PD è la forza che può cambiare l’Italia, influire sull’indirizzo europeo e contribuire alla pace nel mondo. La responsabilità che portiamo sulle spalle è enorme. Siamo orgogliosi delle buone cose realizzate, ma consapevoli che dobbiamo cambiare noi stessi per essere all’altezza del compito. Lo dico agli amici della minoranza, non è tempo di chiudersi in una riserva. Lo chiedo alla maggioranza, non è tempo di vivere sugli allori. Tutti insieme dovremmo rivolgerci agli elettori e ai militanti che ci hanno abbandonato per comprenderne le ragioni. Il primo passo spetta a Matteo Renzi, domandando prima di tutto a se stesso che cosa non ha funzionato. I leader nascono con le proprie certezze, ma diventano grandi attraversando il dubbio dei vincitori.

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