“1945” è un film intenso in un bellissimo
bianco e nero, uno di quelli che vengono definiti “una chicca” dai cinéphiles. È una sorta di thriller dove si intrecciano tre storie ambientate in un piccolo villaggio
ungherese nell’immediato dopoguerra. Tratto dal racconto “Homecoming” di Gàbor T. Szàntò, ha vinto vari premi tra cui l’Avner
Shalev Yad Vashem, il premio per il Miglior regista al Berlin Jewish Film
Festival e il Primo Premio della Critica Cinematografica Ungherese nel 2018. «Un
thriller psicologico di dostoevskiana
memoria quello che Ferenc Török crea intorno all’Olocausto in “1945”. Una storia di colpe personali,
che diventano rappresentanze, in piccolo, di una colpa molto più vasta, quella
di una nazione (in questo caso l’Ungheria) ma anche di un’Europa intera, oggi,
ancora, come un tempo» scrive Katia Dell’Eva in “Cineforum”.
Il film è girato
in forma di western con i tempi e i ritmi di questo genere, ed ha una struttura
narrativa in cui ironia e malinconia si sovrappongono in crescendo. Il film “1945” costituisce una riflessione sulla
colpa e sulle conseguenze del male ed è girato con sobrietà e garbo.
Quello del 1945 è
un anno di svolta nel mondo e la Storia fa da sottofondo, la radio parla delle
bombe atomiche sganciate sul Giappone. In Ungheria ci sono ancora i soldati russi
che scorrazzano nel villaggio, dove però incombe ancora l’ombra del passato. Istvàn
Szentes (il bravissimo Pèter Rudolf) è l’autorevole Notaio del paese – funzionario
vicario e anche droghiere faccendiere – che spadroneggia un po’ su tutti e
vuole far sposare il figlio Àrpàd (Bence Tasnàdi) con Kisròzs (Dòra Sztarenki),
una ragazza molto carina, ma non del tutto illibata, infatti ha già avuto un aitante
fidanzato (Tamàs Szabò Kimmel). Alle 11.00 in punto del 12 agosto del 1945, due
ebrei (Ivàn Angelusz e Marcell Nagy), presumibilmente padre e figlio ex
abitanti del villaggio che come gli altri erano stati deportati, arrivano in
treno alla stazione del villaggio portandosi dietro due enormi bauli. Li faranno
poi trasportare per la campagna verso la collina, da un carretto tirato dal
cavallo che loro seguiranno dietro, a piedi. Si sparge la voce del loro arrivo e
nel villaggio sale la paura: si scateneranno e usciranno fuori tutte le colpe e
le connivenze che gli abitanti hanno avuto nei confronti della persecuzione
degli ebrei. Il Notaio ha costretto Andràs Kustàr (Jòzsef Szarvas), un povero
ubriacone, a denunciare il suo amico e socio Pollack per potersi impadronire
dei suoi averi, una volta deportata tutta la famiglia.
Così, tra sudori caldi
per il clima afoso e sudori freddi per la preoccupazione, aumenteranno i sensi
di colpa e la paura, come una proiezione
psicologica, di una eventuale revanche
degli ebrei, che diventerà per alcuni un vero panico. Il sospetto del vicino e perfino del
tradimento del proprio coniuge torna a diffondersi così come fu durante la
guerra e lo sterminio, istigato dai peggiori e ignorato dai migliori. È bastato
l’arrivo dei due ebrei a scatenare e abbattere il velo ipocrita di una vita
tranquilla e a scatenare le coscienze. «Semplice,
potente, credibile e competente, “1945”
procede inesorabilmente come Sámuel e suo figlio nella loro lunga camminata
verso il villaggio. È il messaggero potente di un tempo andato ma i cui
problemi e le cui difficoltà non sono affatto vicini dall’essere superati»
scrive Kenneth Turan in “Artslife”. Lo scopo del pellegrinaggio dei due ebrei,
si scoprirà più tardi verso il cimitero del villaggio, è quello di dare
sepoltura, nel mutismo più totale, agli oggetti che restano di due persone care
non sopravvissute allo sterminio. Un perfetto McGaffin, come diceva Alfred
Hitchcock, che dura tutto il film.
Il figlio del
Notaio, a sua volta, scopre l’infamia ordita dal padre e, all’ennesimo
maltrattamento e sopruso subìto, scappa decidendo di abbandonare tutto -
famiglia, negozio e matrimonio - di andarsene a Budapest, aiutato anche dalla
madre Anna (Eszter Nagy-Kalozy), che è costretta a drogarsi perché non sopporta
più il volgare, fedifrago e despota marito. Le scene finali del film mostrano
l’avvento di un nuovo conformismo con cui allinearsi: in Chiesa il capro
espiatorio è rappresentato da Istvàn Szentes, quasi fosse l’unico colpevole
isolato contro il quale allearsi. Un treno ha aperto il film e un treno lo
chiude spargendo tutto il denso fumo per tutta la campagna, ricordando inevitabilmente
il trasporto degli ebrei verso la Shoah.
Ferenc Török è
nato nel 1971 a Budapest dove ha studiato all’Academy of Drams and Film. Ha
girato più di una ventina di film ricevendo svariati premi prestigiosi. Assieme
a Làszlò Nemes (“Il figlio di Saul”
del 2015) e Ildikò
Enyedi (“Corpo e anima” del 2017) rappresenta, a mio avviso, un ritorno alla
tradizione della grande cinematografia ungherese (basti citare i film del
regista Miklòs Jancso degli anni Sessanta e Settanta) misurata, colta e piena
di ironia, purtroppo in un periodo poco felice della nazione magiara. Il film “1945” è stato presentato alla 67ma
edizione del Festival di Berlino, nella sezione Panorama.
Ghisi
Grütter
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