12 maggio 2018

Recensione film: 1945, regia di Ferenc Török

Con Pèter Rudolf, Eszter Nagy-Kalozy, Bence Tasnàdi, Tamàs Szabò Kimmel, Dòra Sztarenki, Ivàn Angelusz, Marcell Nagy, Jòzsef Szarvas, Tünde Szalontay, Ungheria 2017. Sceneggiatura di Ferenc Török e Gàbor T. Szàntò. Fotografia di  Elemér Ragàlyi, montaggio di Bèle Barsi. Musica di Tibor Szemzö.

 


1945” è un film intenso in un bellissimo bianco e nero, uno di quelli che vengono definiti “una chicca” dai cinéphiles. È una sorta di thriller dove si intrecciano tre storie ambientate in un piccolo villaggio ungherese nell’immediato dopoguerra. Tratto dal racconto “Homecoming” di Gàbor T. Szàntò, ha vinto vari premi tra cui l’Avner Shalev Yad Vashem, il premio per il Miglior regista al Berlin Jewish Film Festival e il Primo Premio della Critica Cinematografica Ungherese nel 2018. «Un thriller psicologico di dostoevskiana memoria quello che Ferenc Török crea intorno all’Olocausto in “1945”. Una storia di colpe personali, che diventano rappresentanze, in piccolo, di una colpa molto più vasta, quella di una nazione (in questo caso l’Ungheria) ma anche di un’Europa intera, oggi, ancora, come un tempo» scrive Katia Dell’Eva in “Cineforum”.

Il film è girato in forma di western con i tempi e i ritmi di questo genere, ed ha una struttura narrativa in cui ironia e malinconia si sovrappongono in crescendo. Il film “1945” costituisce una riflessione sulla colpa e sulle conseguenze del male ed è girato con sobrietà e garbo.

Quello del 1945 è un anno di svolta nel mondo e la Storia fa da sottofondo, la radio parla delle bombe atomiche sganciate sul Giappone. In Ungheria ci sono ancora i soldati russi che scorrazzano nel villaggio, dove però incombe ancora l’ombra del passato. Istvàn Szentes (il bravissimo Pèter Rudolf) è l’autorevole Notaio del paese – funzionario vicario e anche droghiere faccendiere – che spadroneggia un po’ su tutti e vuole far sposare il figlio Àrpàd (Bence Tasnàdi) con Kisròzs (Dòra Sztarenki), una ragazza molto carina, ma non del tutto illibata, infatti ha già avuto un aitante fidanzato (Tamàs Szabò Kimmel). Alle 11.00 in punto del 12 agosto del 1945, due ebrei (Ivàn Angelusz e Marcell Nagy), presumibilmente padre e figlio ex abitanti del villaggio che come gli altri erano stati deportati, arrivano in treno alla stazione del villaggio portandosi dietro due enormi bauli. Li faranno poi trasportare per la campagna verso la collina, da un carretto tirato dal cavallo che loro seguiranno dietro, a piedi. Si sparge la voce del loro arrivo e nel villaggio sale la paura: si scateneranno e usciranno fuori tutte le colpe e le connivenze che gli abitanti hanno avuto nei confronti della persecuzione degli ebrei. Il Notaio ha costretto Andràs Kustàr (Jòzsef Szarvas), un povero ubriacone, a denunciare il suo amico e socio Pollack per potersi impadronire dei suoi averi, una volta deportata tutta la famiglia.

Così, tra sudori caldi per il clima afoso e sudori freddi per la preoccupazione, aumenteranno i sensi di colpa e la paura, come una proiezione psicologica, di una eventuale revanche degli ebrei, che diventerà per alcuni un vero panico.  Il sospetto del vicino e perfino del tradimento del proprio coniuge torna a diffondersi così come fu durante la guerra e lo sterminio, istigato dai peggiori e ignorato dai migliori. È bastato l’arrivo dei due ebrei a scatenare e abbattere il velo ipocrita di una vita tranquilla e a scatenare le coscienze. «Semplice, potente, credibile e competente, “1945” procede inesorabilmente come Sámuel e suo figlio nella loro lunga camminata verso il villaggio. È il messaggero potente di un tempo andato ma i cui problemi e le cui difficoltà non sono affatto vicini dall’essere superati» scrive Kenneth Turan in “Artslife”. Lo scopo del pellegrinaggio dei due ebrei, si scoprirà più tardi verso il cimitero del villaggio, è quello di dare sepoltura, nel mutismo più totale, agli oggetti che restano di due persone care non sopravvissute allo sterminio. Un perfetto McGaffin, come diceva Alfred Hitchcock, che dura tutto il film.

Il figlio del Notaio, a sua volta, scopre l’infamia ordita dal padre e, all’ennesimo maltrattamento e sopruso subìto, scappa decidendo di abbandonare tutto - famiglia, negozio e matrimonio - di andarsene a Budapest, aiutato anche dalla madre Anna (Eszter Nagy-Kalozy), che è costretta a drogarsi perché non sopporta più il volgare, fedifrago e despota marito. Le scene finali del film mostrano l’avvento di un nuovo conformismo con cui allinearsi: in Chiesa il capro espiatorio è rappresentato da Istvàn Szentes, quasi fosse l’unico colpevole isolato contro il quale allearsi. Un treno ha aperto il film e un treno lo chiude spargendo tutto il denso fumo per tutta la campagna, ricordando inevitabilmente il trasporto degli ebrei verso la Shoah.

Ferenc Török è nato nel 1971 a Budapest dove ha studiato all’Academy of Drams and Film. Ha girato più di una ventina di film ricevendo svariati premi prestigiosi. Assieme a Làszlò Nemes (“Il figlio di Saul” del 2015) e Ildikò Enyedi (“Corpo e anima del 2017) rappresenta, a mio avviso, un ritorno alla tradizione della grande cinematografia ungherese (basti citare i film del regista Miklòs Jancso degli anni Sessanta e Settanta) misurata, colta e piena di ironia, purtroppo in un periodo poco felice della nazione magiara. Il film “1945” è stato presentato alla 67ma edizione del Festival di Berlino, nella sezione Panorama.

 
Ghisi Grütter

 

 

 

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