7 ottobre 2016

NO ALLE OLIMPIADI, ROMA E' SALVA!

 
Riportiamo questo articolo pubblicato sull'ultimo numero di MicroMega non perché vogliamo riaprire il dibattito sulla candidatura di Roma alle Olimpiadi del 2024, ma perché, a riflettori spenti, le considerazioni contenute nell'articolo ci possono aiutare a capire come quella della Sindaca è stata una scelta giusta e coraggiosa.
 

MicroMega 6/2016

No alle Olimpiadi, Roma è salva! (ma a sinistra c’è chi si strappa i capelli)

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di Marco D'Eramo
Di una cosa noi romani saremo eternamente grati a Virginia Raggi: di averci liberato dalle Olimpiadi del 2024 che avrebbero inferto il knock-out finale a una città già allo stremo. Qualunque cosa si possa dire della sindaca di Roma – e se ne possono dire tante –, qualunque errore abbia commesso o commetterà, qualunque impresentabile figuro o figura abbia proposto come assessore/a, la nostra gratitudine per questa semplice rinuncia è immensa.

Altrettanto sospetti e strumentali sono gli attacchi feroci – al limite della sguaiatezza – a questa decisione e a chi l'ha presa, soprattutto da parte di organi di stampa che si autoproclamano “voci della borghesia laica e illuminata”. È curioso che i “populisti” dei 5 Stelle siano sbertucciati e vilipesi perché rifiutano di praticare la millenaria ricetta populista del panem et circenses (in questo caso addirittura dei circenses senza nemmeno il panem).

Altrettanto curioso è che i sostenitori della candidatura olimpica omettano di citare le città di Amburgo e di Boston, ambedue molto più prospere, e in salute nettamente migliore di Roma. Amburgo è una florida (e splendida) città portuale, patria della più raffinata borghesia tedesca, discendente della Lega anseatica; Boston è la città dell'aristocrazia Wasp della finanza statunitense, la sua centrale, idilliaca Beacon Hill conta più miliardari per metro quadro di qualunque luogo sulla terra; per di più Boston ospita nei suoi suburbi l'università di Harvard, l'Mit (Massachusetts Institute of Technology), e il più innovativo distretto tecnologico della costa orientale. Per ospitare un torneo olimpico le due città sono dunque infinitamente meglio attrezzate di quest'urbe smandrappata (termine romanesco assolutamente pertinente). Eppure sia gli amburghesi che i bostoniani hanno deciso di ritirare la candidatura delle loro città. A Boston un sondaggio del marzo 2015 dava un 52% di contrari. Gli amburghesi la candidatura l'hanno addirittura bocciata con un referendum nel novembre dell'anno scorso. Per la nostra borghesia poco laica e per niente illuminata, sono tutti pazzi gli amburghesi e i bostoniani, tutti incoscienti incapaci di cogliere un'imperdibile occasione storica?

O magari amburghesi e bostoniani hanno studiato cosa è successo ad Atene dopo le Olimpiadi del 2004 e a Rio de Janeiro dopo quelle di quest'anno. Il torneo del 2004 è costato ai greci 9 miliardi di euro (senza contare la costruzione del nuovo aeroporto e della metropolitana): “Molti stadi e impianti costruiti a così caro prezzo caddero in abbandono. Nel sud di Atene un lungomare di 2 chilometri che collegava tre stadi usati per i Giochi è diventato una discarica di immondizia e rifiuti. Il governo sta cercando di vendere un vicino sito olimpico, un'area di 650 ettari a Hellenikon, dopo che non è riuscito a svilupparla con profitto”.

Per non parlare di Rio: i giochi estivi dovrebbero essere costati solo (!!) 4,6 miliardi di dollari (uso il condizionale perché poi si scopre che queste cifre sono sempre sottostimate e perché alcune altre stime parlano di 18 miliardi di dollari), ma questo solo perché molte infrastrutture erano state già realizzate e molti stadi già costruiti per i mondiali di calcio brasiliani di due anni prima che loro erano costati 15 miliardi di dollari. Comunque i costi di questi appuntamenti sportivi sono andati aumentando: le Olimpiadi di Pechino del 2008 sono costate ufficialmente 7 miliardi ma il loro budget totale ha superato i 40; il campionato del mondo di calcio sudafricano è costato 12 miliardi di dollari; i Giochi di Londra del 2012 ufficialmente12 miliardi, ma i costi totali hanno sforato i 20 miliardi. I giochi invernali del 2014 di Sochi in Russia sono costati 21 miliardi di dollari.

Andrebbe ricordato che la città di Roma è indebitata per 17 miliardi di euro e che tra questi debiti vi sono anche i risarcimenti degli espropri di aree per le Olimpiadi del 1960 (le uniche, tra l'altro per cui non è stata mai fornita la cifra del costo totale, come si vede dalla tabella pubblicata dall'Oxford Olympic Study 2016.

Tutti gli studi più seri dicono che un'Olimpiade estiva oggi non può essere organizzata con meno di 10 miliardi di dollari, e gli stessi studi dicono che nessun torneo è mai riuscito a ripagarsi i costi, anzi che di solito i costi oscillano tra il doppio e il triplo delle entrate. Che cioè per organizzare le Olimpiadi bisognerebbe raggranellare almeno 7 miliardi a fondo perduto, sette miliardi di cui dovrebbe farsi carico lo stato centrale vista la situazione finanziaria della città. Questi soldi andrebbero raschiati da altre voci dello stato, dalla sanità all'istruzione alle infrastrutture utili.

Il problema vero però è costituito solo in parte dalla spesa, ma soprattutto dal metodo della spesa.
Il vantaggio che hanno gli appuntamenti sportivi su tutte le altre “grandi opere” è che sono appunto, “appuntamenti”, cioè hanno una insormontabile scadenza temporale: tutto deve essere pronto al fischietto d'inizio o il giorno della cerimonia d'inaugurazione. Ed è questa scadenza che non solo permette, ma rende inevitabile la corruzione a una scala impensabile per altre opere. Si sa che la corruzione interviene non solo e non tanto al momento della gara d'appalto (quando gara c'è), ma soprattutto nelle revisioni al rialzo dei preventivi.

È con queste revisioni – che lievitano i costi – che viene realizzato il maggiore profitto corruttivo. La ditta vince l'appalto facendo un'offerta stracciata per i lavori, ma poi in corso d'opera “scopre” che sono necessarie, indispensabili varianti d'opera che ne decuplicano il prezzo. Ora lo strepitoso vantaggio delle grandi opere per gli appuntamenti sportivi è che basta ritardare i lavori a piacimento per ottenere tutte le rivalutazioni di prezzo che si vogliono, perché l'argomento è che “non c'è tempo”. Non c'è tempo per affidare l'appalto a un'altra ditta, non c'è tempo per esaminare con scrupolo le varianti addotte, non c'è tempo per revisionare i preventivi, e così via. Tutto va fatto entro la scadenza stabilita letteralmente “a qualunque prezzo”.

I risultati si vedono. La città di Roma è ancora ferita dai mondiali del 1990. Simbolo del disastro, quello che fu presentato come l’Air terminal di Ostiense, abbandonato poco dopo la fine dei Mondiali (costo 350 miliardi lire, 180 milioni di euro) e recuperato dalla fatiscenza nel 2012 da Oscar Farinetti per la catena di grandi negozi di cibi di qualità “Eataly” e, poco dopo, fino all'anno scorso, anche come stazione di partenza dei treni veloci del Consorzio Italo, del quale – ironia della sorte – lo stesso Montezemolo è stato presidente. Non a caso lo stesso Montezemolo è presidente del comitato promotore della candidatura alle Olimpiadi del 2024.

Qualunque cittadina/o assennata/o sarebbe perciò felice di seguire l'esempio amburghese e bostoniano. Invece no, tutti a strapparsi i capelli perché non si potrà mangiare sulle grandi opere di Roma 2024. Il presidente del Consiglio Matteo Renzi ha detto a 8 e mezzo che grandi opere non vuol dire corruzione. O ci fa o ci è. Tanto che proprio ieri ha riproposto il fantomatico ponte sullo Stretto di Messina per creare 100.000 posti di lavoro (ricorda qualcosa o qualcuno?). Ma a questi propositi applaudono i discendenti di quel settimanale che nel 1956, sessanta anni fa tondi tondi, pubblicava un'inchiesta di Manlio Cancogni sulla corruzione edilizia di Roma, “Capitale corrotta – nazione infetta”. Quel settimanale era L'Espresso che oggi viene veicolato la domenica dal quotidiano paladino di Renzi e delle sue Olimpiadi.

(28 settembre 2016)

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