Con Jessie Eisenberg, KristenJ
Stewart, Jeanne Berlin, Steve Carell, Blake Lively, Corey Stall, Sari Lennick,
Ken Stott, Paul Shneider, del 2016. Fotografia di Vittorio Storaro. Scenografia
di Santo Loquasto. Costumi di Suzy Benzinger.
La contrapposizione tra la East e la West Coast, e
cioè tra New York e Los Angeles, è sempre un tema avvincente nella
cinematografia di Woody Allen, fin dai tempi di Annie Hall del 1977. Un altro
elemento che stimola le fantasie del regista è il periodo del New Deal, quello
della seconda metà degli anni Trenta di ripresa economica dopo la Grande Crisi.
Il mito di Hollywood e della celebrity culture, attrae molta parte della popolazione
statunitense che sogna il successo, anche se non è ben chiaro in che campo
specifico voglia emergere. Hollywood è il “luogo” della ricchezza per
antonomasia, mitopoietico e costruttore dello star system. Così anche il giovane Bobby Dorfman (un bravissimo
Jessie Eisenberg) cresciuto in una modesta famiglia ebrea del Bronx N.Y.,
sbarca a Los Angeles a cercare fortuna per non dover proseguire il lavoro del
padre (artigiano orafo) né quello del fratello Ben – implicato in loschi affari
con bande gangster. A fare cosa? Bobby non lo sa. Lì trova lo zio Phil Stern
(il fratello della madre) che ha avuto successo come agente dei divi; Bobby va
da lui a chiedergli un lavoro, uno qualsiasi. Così, passo dopo passo, da
fattorino personale dello zio passa a lettore di sceneggiature. Accompagnato a
visitare la città da Veronica Sybil detta Vonnie (la deliziosa Kristen
Stewart), una dolcissima ragazza che fa la segretaria dello zio e con cui
passerà molto tempo, si ritroverà innamorato di lei. Purtroppo la ragazza ha un
fidanzato di cui si sa poco, forse un giornalista sempre in viaggio che non ha
molto tempo da passare con lei… e solo a metà film Bobby capirà finalmente che
la sua dolce fanciulla è proprio l’amante dello zio che, a sua volta, lascerà
moglie e figli per sposarla.
Deluso in generale dell’ambiente californiano e, in
particolare, della decisione di Vonnie di preferirgli lo zio Phil, Bob ritorna
a New York, dove lavorerà come direttore nel night club, appena aperto dal fratello Ben con altri suoi equivoci
amici.
Lì mieterà successi, trasformerà il locale in un Café Society di grande successo che
attirerà tutti i VIP, dagli attori ai politici, dai nobili europei al mondo
della moda.
Bobby nel suo locale conoscerà Veronica (la fatalità
dello stesso nome), un’attraente giovane ragazza con cui intreccerà una
relazione e, una volta rimasta incinta, la sposerà. Ma il suo cuore è rimasto
legato a Vonnie che rincontrerà sempre nel suo locale al braccio dello zio,
trasformatasi in devota mogliettina hollywoodiana. “La vita è una commedia
scritta da un sadico commediografo” – fa dire il regista al suo avatar.
Attorno a questa vicenda, come sempre Woody Allen
costruisce piccole mini-storie: dai vari personaggi hollywoodiani che girano
attorno al mondo del cinema (tantissime le citazioni dei divi dell’epoca) alla
caratterizzazione dei componenti la famiglia Dorfman. I genitori di Bobby,
sempre in polemica tra loro, sono divisi tra l’ammirazione per chi ha successo
(Phil, il fratello di lei, o Ben, il loro figlio) e chi, al contrario, si
comporta da bravo e onesto ebreo e, per esempio, non divorzia dalla moglie,
madre dei propri figli. La sorella di Bob ha sposato un mite intellettuale, un
po’ sognatore, che spera di poter cambiare le persone con il dialogo e non con
la violenza come fa suo cognato, e che ha un contenzioso con il vicino
aggressivo, arrogante e rumoroso. Il fratello Ben, diventato un vero e proprio
criminale, finirà processato e giustiziato per omicidio, oltre alle truffe,
all’associazione per delinquere e quant’altro.
Fotografata in modo magistrale da Vittorio Storaro –
primo film in digitale di Allen - la prima parte del film presenta una
carrellata di ville da favola a Beverly Hills, sia quelle degli attori,
sfarzose ma convenzionali, sia quella in stile “mediterraneo” dello zio, ma
soprattutto quella ricca ma minimalista della scena iniziale al bordo della
piscina, forse progettata da Walter Gropius, uno dei Maestri del Movimento
Moderno trasferitosi negli Stati Uniti dalla Germania nazista. Gli interni
rappresentati nel film sono tutti ben curati, arricchiti da bei quadri moderni
(molto probabilmente di Charles Sheeler e Charles Demuth), mentre l’ottima
musica è una costante per tutto il film. Quando Bobby vuol fare colpo su una
ragazza (che sia Veronica o Vonnie) la porta ad ascoltare il jazz in un locale
da intenditori, presumibilmente il Village Vanguard. Il film, inoltre, è pieno
di citazioni cinematografiche e autocitazioni, da Radio Days del 1987 a Pallottole
su Broadway del 1994. Le tematiche dell’amore impossibile e della
malinconia sono un probabile tributo al Grande
Gatby mentre il giro in carrozzella sullo sfondo notturno dell’edificio The
Eldorado a Central Park, è sicuramente un omaggio a Fred Astaire e Cyd Charisse
in Dancing in the Dark.
Così scrive Goffredo Fofi su “Internazionale”: «La
chiave del film, e di tanti altri suoi film, è la nostalgia, per un mondo più
immaginato che vissuto, per un’immagine degli Stati Uniti introiettata grazie
al cinema e alla musica ma che non va, o non osa andare, oltre, scavare,
discutere, prender posizione, schierarsi».
La prima metà del film – narrato con voce fuori campo
dello stesso regista - è decisamente la migliore, coinvolgente ed anche
divertente; man mano che il film va avanti, dopo il rientro di Bob a New York,
la brillantezza e il ritmo calano, l’insistenza sui sentimenti di malinconia e
di rimpianto per le scelte affettive sbagliate (da lui? Da Vonnie?) alla lunga
si rivela un po’ noiosa.
Presentato fuori concorso al Festival di Cannes del
2016, Café Society è comunque un film
sicuramente migliore degli ultimi di Woody Allen (Midnight in Paris, 2011, To
Rome with Love, 2012, Magic in the
Moonlight, 2014, Irrational Man,
2015). Dopo aver girato vari film con locations
europee, il ritorno a New York ha riportato finalmente il regista nel suo
ambiente naturale.
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