8 ottobre 2016

Recensione film: CAFE' SOCIETY regia di Woody Allen


 Con Jessie Eisenberg, KristenJ Stewart, Jeanne Berlin, Steve Carell, Blake Lively, Corey Stall, Sari Lennick, Ken Stott, Paul Shneider, del 2016. Fotografia di Vittorio Storaro. Scenografia di Santo Loquasto. Costumi di Suzy Benzinger.

 



 

La contrapposizione tra la East e la West Coast, e cioè tra New York e Los Angeles, è sempre un tema avvincente nella cinematografia di Woody Allen, fin dai tempi di Annie Hall del 1977. Un altro elemento che stimola le fantasie del regista è il periodo del New Deal, quello della seconda metà degli anni Trenta di ripresa economica dopo la Grande Crisi.

Il mito di Hollywood e della celebrity culture, attrae molta parte della popolazione statunitense che sogna il successo, anche se non è ben chiaro in che campo specifico voglia emergere. Hollywood è il “luogo” della ricchezza per antonomasia, mitopoietico e costruttore dello star system. Così anche il giovane Bobby Dorfman (un bravissimo Jessie Eisenberg) cresciuto in una modesta famiglia ebrea del Bronx N.Y., sbarca a Los Angeles a cercare fortuna per non dover proseguire il lavoro del padre (artigiano orafo) né quello del fratello Ben – implicato in loschi affari con bande gangster. A fare cosa? Bobby non lo sa. Lì trova lo zio Phil Stern (il fratello della madre) che ha avuto successo come agente dei divi; Bobby va da lui a chiedergli un lavoro, uno qualsiasi. Così, passo dopo passo, da fattorino personale dello zio passa a lettore di sceneggiature. Accompagnato a visitare la città da Veronica Sybil detta Vonnie (la deliziosa Kristen Stewart), una dolcissima ragazza che fa la segretaria dello zio e con cui passerà molto tempo, si ritroverà innamorato di lei. Purtroppo la ragazza ha un fidanzato di cui si sa poco, forse un giornalista sempre in viaggio che non ha molto tempo da passare con lei… e solo a metà film Bobby capirà finalmente che la sua dolce fanciulla è proprio l’amante dello zio che, a sua volta, lascerà moglie e figli per sposarla.

Deluso in generale dell’ambiente californiano e, in particolare, della decisione di Vonnie di preferirgli lo zio Phil, Bob ritorna a New York, dove lavorerà come direttore nel night club, appena aperto dal fratello Ben con altri suoi equivoci amici.

Lì mieterà successi, trasformerà il locale in un Café Society di grande successo che attirerà tutti i VIP, dagli attori ai politici, dai nobili europei al mondo della moda.

Bobby nel suo locale conoscerà Veronica (la fatalità dello stesso nome), un’attraente giovane ragazza con cui intreccerà una relazione e, una volta rimasta incinta, la sposerà. Ma il suo cuore è rimasto legato a Vonnie che rincontrerà sempre nel suo locale al braccio dello zio, trasformatasi in devota mogliettina hollywoodiana. “La vita è una commedia scritta da un sadico commediografo” – fa dire il regista al suo avatar.

Attorno a questa vicenda, come sempre Woody Allen costruisce piccole mini-storie: dai vari personaggi hollywoodiani che girano attorno al mondo del cinema (tantissime le citazioni dei divi dell’epoca) alla caratterizzazione dei componenti la famiglia Dorfman. I genitori di Bobby, sempre in polemica tra loro, sono divisi tra l’ammirazione per chi ha successo (Phil, il fratello di lei, o Ben, il loro figlio) e chi, al contrario, si comporta da bravo e onesto ebreo e, per esempio, non divorzia dalla moglie, madre dei propri figli. La sorella di Bob ha sposato un mite intellettuale, un po’ sognatore, che spera di poter cambiare le persone con il dialogo e non con la violenza come fa suo cognato, e che ha un contenzioso con il vicino aggressivo, arrogante e rumoroso. Il fratello Ben, diventato un vero e proprio criminale, finirà processato e giustiziato per omicidio, oltre alle truffe, all’associazione per delinquere e quant’altro.

Fotografata in modo magistrale da Vittorio Storaro – primo film in digitale di Allen - la prima parte del film presenta una carrellata di ville da favola a Beverly Hills, sia quelle degli attori, sfarzose ma convenzionali, sia quella in stile “mediterraneo” dello zio, ma soprattutto quella ricca ma minimalista della scena iniziale al bordo della piscina, forse progettata da Walter Gropius, uno dei Maestri del Movimento Moderno trasferitosi negli Stati Uniti dalla Germania nazista. Gli interni rappresentati nel film sono tutti ben curati, arricchiti da bei quadri moderni (molto probabilmente di Charles Sheeler e Charles Demuth), mentre l’ottima musica è una costante per tutto il film. Quando Bobby vuol fare colpo su una ragazza (che sia Veronica o Vonnie) la porta ad ascoltare il jazz in un locale da intenditori, presumibilmente il Village Vanguard. Il film, inoltre, è pieno di citazioni cinematografiche e autocitazioni, da Radio Days del 1987 a Pallottole su Broadway del 1994. Le tematiche dell’amore impossibile e della malinconia sono un probabile tributo al Grande Gatby mentre il giro in carrozzella sullo sfondo notturno dell’edificio The Eldorado a Central Park, è sicuramente un omaggio a Fred Astaire e Cyd Charisse in Dancing in the Dark.

Così scrive Goffredo Fofi su “Internazionale”: «La chiave del film, e di tanti altri suoi film, è la nostalgia, per un mondo più immaginato che vissuto, per un’immagine degli Stati Uniti introiettata grazie al cinema e alla musica ma che non va, o non osa andare, oltre, scavare, discutere, prender posizione, schierarsi».

La prima metà del film – narrato con voce fuori campo dello stesso regista - è decisamente la migliore, coinvolgente ed anche divertente; man mano che il film va avanti, dopo il rientro di Bob a New York, la brillantezza e il ritmo calano, l’insistenza sui sentimenti di malinconia e di rimpianto per le scelte affettive sbagliate (da lui? Da Vonnie?) alla lunga si rivela un po’ noiosa.

Presentato fuori concorso al Festival di Cannes del 2016, Café Society è comunque un film sicuramente migliore degli ultimi di Woody Allen (Midnight in Paris, 2011, To Rome with Love, 2012, Magic in the Moonlight, 2014, Irrational Man, 2015). Dopo aver girato vari film con locations europee, il ritorno a New York ha riportato finalmente il regista nel suo ambiente naturale.

 Ghisi Grütter

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