29 ottobre 2016

Recensione film: IO, DANIEL BLAKE regia di Ken Loach



Con Dave Johns, Hayley Squires, Briana Shann, Dylan McKiernan, Kema Sikazwe, del 2016. Sceneggiatura con Paul Laverty.

 

La dignità è l’ultima a morire

 



 

Burocrazia, tecnologia e privatizzazione sono, in ordine, le malattie del mondo occidentale nel XXI secolo. Se potevamo pensare che in Gran Bretagna le cose potessero andare meglio che da noi, questo film ci fa provare una grande delusione. E perché allora mandiamo i nostri figli a studiare e a lavorare in Inghilterra dove la gente muore di burocrazia? La vicenda che Ken Loach narra nel suo Io Daniel Blake fa paura perché è una storia che potrebbe succedere anche a noi o a qualche nostro amico o conoscente.

Siamo a Newcastle sul Tyne nel nord dell’Inghilterra, e un onesto carpentiere cinquantanovenne rimasto vedovo da non molto tempo, ha avuto un serio attacco cardiaco che sta superando con medicine e terapia riabilitativa. Naturalmente non può lavorare – o almeno per un certo periodo finché lo ritengono i medici – e fa domanda d’invalidità per ottenere l’indennità di malattia. Ciò avviene con tutte le difficoltà burocratiche del caso, dalla compilazione di moduli obbligatoriamente on-line a una serie di domande assolutamente inutili e idiote che non prendono in esame il caso particolare ma che generalizzano sull’impossibilità ad autogestirsi. «..Ho già compilato cinquanta pagine del formulario» - afferma Daniel nell’incontro con una “professionista” sanitaria. Una volta che il sussidio gli è stato negato, in attesa di fare ricorso, Daniel Blake si trova costretto a fare domanda per l’indennità di disoccupazione. Per dimostrare la sua buona volontà allo Stato, dovrà prima frequentare un workshop sulla compilazione del curriculum, poi passare le sue giornate a scriverlo e a portarlo in varie fabbriche, officine, vivai. La cosa più assurda è che casualmente troverà pure chi lo vorrebbe assumere ma è costretto a rifiutare perché ancora inabile al lavoro. In un crescendo di difficoltà tecnologiche – dall’uso esclusivo del computer alle foto con lo smartphone come prova - il nostro eroe arriverà solo alla fine a fare il ricorso per far riconsiderare la sua domanda d’indennità di malattia, suffragata da vari certificati medici. Nel frattempo, in uno di questi assurdi uffici burocratici, incontra Daisy, una ragazza con due figli appena arrivata da Londra, anch’essa disoccupata e indigente. Lui la aiuterà sia nel mettere su casa – «So aggiustare di tutto» afferma Daniel – sia nell’occuparsi dei suoi figli. L’umanità, la solidarietà e la dolcezza di queste persone sono il lato più commovente del film. Molto toccante è la scena nella “banca alimentare” organizzata da volontarie che suppliscono a quell’assistenza che lo Stato avrebbe dovuto fornire. Daniel pian piano e con pazienza riesce a conquistare i figli di Daisy, sia Kattle sia lo scorbutico e problematico Dylan, entrambi figli di padri assenti, che gli si affezioneranno. Sarà poi proprio Daisy, riconoscente, a essergli vicino nella sua ultima battaglia.

Loach è sempre dalla parte degli onesti, dei disoccupati, delle persone semplici che abbiano comunque subìto dei soprusi. Il suo è un cinema militante. Ho letto da qualche parte che Ken Loach, ormai ottantenne, aveva deciso di smettere di fare film ma quando ha sentito che si discuteva della possibile privatizzazione della polizia, ha voluto girare ancora un film duro e amaro e fa dire a Daniel rivolto ai poliziotti: «Fra un po’ privatizzeranno anche voi».

Con il cinema di Ken Loach si entra nelle vite dei personaggi passando direttamente dalla porta principale, vivendoci insieme e affrontando con loro il senso d'impotenza e la ricerca di un’alternativa. La storia di Daniel Blake, come tutte le altre rappresentate da Loach, è una storia di uomo onesto che non si piega né alle regole della burocrazia né ai compromessi facili.  Il protagonista è oggettivamente un perdente, nel senso e dal punto di vista materiale, che man mano perde tutto, è invece un vincente sul piano etico e gli rimane ciò che non sono riusciti a togliergli, cioè la dignità di persona.

Bravi tutti gli attori e ottima sceneggiatura risultato dell’ormai consolidato rapporto con Paul Laverty, Io, Daniel Blake, il venticinquesimo film di Ken Loach, ha vinto meritatamente la Palma d’oro all’ultimo Festival di Cannes.

 

Ghisi Grütter

 

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