Secondo Erwin Panofsky l’iconologia è quella
branca della storia dell’arte che si occupa del soggetto dell’opera e di
ricercarne i significati, di decodificarne le simbologie e le figure
allegoriche. Sempre secondo Panofsky si possono distinguere tre livelli:
a. il
soggetto primario (o naturale) lo si apprende identificando pure forme cioè: certe
configurazioni di linee e colori o certi blocchi di bronzo o pietra modellati
in un modo particolare come rappresentazioni di oggetti naturali, esseri umani,
animali, piante, case, utensili e cogliendo certe qualità espressive come il
carattere doloroso di una posa o di un gesto, oppure l'atmosfera casalinga e
tranquilla di un interno;
b. il soggetto secondario (o convenzionale)
lo si apprende riconoscendo, ad esempio, che una figura virile con un coltello rappresenta
san Bartolomeo, che una figura femminile con una pesca in mano è una
personificazione della Verità, che un gruppo di figure sedute a una tavola
apparecchiata in un certo ordine e in certi atteggiamenti rappresenta “l'Ultima
Cena”, oppure che due figure rappresentate in atto di lottare in un certo modo
rappresentano la “Lotta della Virtù e del Vizio”;
c. il significato intrinseco (o contenuto)
lo si apprende individuando quei principi di fondo che rivelano l'atteggiamento
fondamentale di un periodo, una concezione religiosa o filosofica, o
quant’altro, qualificato da una personalità e condensato in un'opera. Questi
principi gettano luce, sia sui “metodi compositivi” sia sul “significato
iconografico” legando, pertanto, l’iconologia con l’iconografia. Ad esempio,
nei secoli XIV e XV, il tipo tradizionale della Natività con la Vergine
sdraiata su un giaciglio fu spesso sostituito da un nuovo tipo di figurazione
in cui la Vergine appare inginocchiata in adorazione davanti al Bambino. Dal
punto di vista compositivo questo mutamento significa, all'incirca, la
sostituzione di uno schema triangolare a uno rettangolare.
Questo è un po’ ciò che hanno cercato di fare
tre artisti, nell’ex Facoltà di Lettere alla Sapienza di Roma, nella rilettura
dell’Orinatoio/Fountain, celebre
opera di Marcel Duchamp,
di cui il 10 aprile ricorreva il 101mo anniversario della
realizzazione: Andrea Lanini con la sua “Dolce
Sélavy”, Pasquale Polidori con “L’altra
fontana. Nuovi risultati sull’Orinatoio” e Cesare Pietroiusti con “Acqua in bocca”. Tre performance/lezioni-fiume di tre ore di
durata complessiva, risultato di ricerche parallele svolte dai tre sull’opera
di Duchamp, in generale, e sull’Orinatoio ruotato di 90°, in particolare.
Vorrei ricordare alcuni dati biografici di
Marcel Duchamp. Nacque a Blainville, vicino Rouen, in Francia nel 1887 e inizia
a dipingere già adolescente influenzato dagli Impressionisti. Nel 1904 si
trasferisce a Parigi e attorno al 1910 i suoi riferimenti saranno Cézanne e il
Fauvismo, ma nei due anni successivi sviluppa un suo stile individuale e
dipinge le sue opere più importanti tra cui “Giovane triste in treno”, “Nu
descendant un escalier”, “Il
passaggio della vergine in sposa”. Inizia poi a lavorare al “Grande Vetro”, elemento di metallo e
vetro ricco di simbologie ironiche e di significati alchemici. Nascono i primi
“Readymade” e nel 1915 si trasferisce
a New York dove frequenta i collezionisti d’arte Walter e Louise Arenberg, il
pittore “precisionista” Charles Demuth, Francis Picabia e conosce Man Ray. Nel 1917, Marcel Duchamp firma un
orinatoio con il nome R. MUTT e lo intitola “Fountain”. Infatti, secondo Marcel
Duchamp un qualsiasi oggetto con una firma e un titolo diventa una scultura e
la sua collocazione in una mostra lo avrebbe trsformato in un’opera d’arte, ma
purtroppo, viene rifiutato dalla giuria della Society of Indipendent Artists.
Sull’origine di R. Mutt sono stati spesi fiumi d’inchiostro, ad esempio sono due
diversi significati mutter (madre in
tedesco) o Demouth, il pittore. Tornato temporaneamente a Parigi, Duchamp
incontra gli esponenti del dadaismo, negli anni ’20 assume lo pseudonimo di
Rose Sélavy e si cimenta con la fotografia sperimentale e lungometraggi, da cui
le sue “macchine ottiche”. Più tardi realizza il film “Anémic Cinéma” e partecipa alle mostre del gruppo surrealista a
Londra e a New York. Nel 1954 muore Arenberg che lascia la sua collezione al Philadelphia
Museum of Art con 43 opere di Duchamp, tra cui le più importanti. Nel 1964
vengono realizzati quattordici suoi “Readymade”
in una edizione numerata e firmata di copie. Morirà quattro anni dopo a Neuilly-sur-Seine.
Per tornare ai nostri conferenzieri, vorrei
parlare della lezione di Andrea Lanini, la più comunicativa. La tesi sostenuta è
quella dell’esistenza un rapporto tra la produzione cinematografica di Federico
Fellini - in particolare ne “La dolce
vita” – e le opere di Marcel Duchamp. Partendo da una nota autobiografica –
e cioè dell’ascolto ossessivo della musica del film “Tre soldi nella fontana” del 1954 - Lanini è entrato nelle maglie
simboliche di alcune scene del film “La
dolce vita” del 1960, di cui ha mostrato qualche fotogramma. Dai simboli
androgini alle interpretazioni alchemiche, Lanini ha ricordato come il rapporto
parola/immagine sia importante per Duchamp ma anche come nomi e titoli siano
significativi per Fellini.
I nomi dei personaggi ne “La dolce vita” non sarebbero quindi scelti a caso: Marcello Rubino
(Marcello Mastroianni) è proprio Marcel e lo stesso titolo del film alluderebbe
a Sélavy, pseudonimo di Duchamp. Il nome Silvia (Anita Ekberg) sarebbe stato
scelto per il suo etimo naturalistico “selva”, “bosco” e così man mano fino ad
arrivare a una serie di simbologie religiose, di cui faceva uso Fellini, come
il battesimo di Marcello nella Fontana di Trevi, o la corsa sulle scale della
Cupola di San Pietro di Anita Ekberg vestita sinuosamente da prete e vista dal
basso, in una sorta di “ascensione”. Non sarà un caso che quel vestito sia
stato creato dalle sorelle “Fontana”! Così Lanini ha mostrato il dipinto a olio
di Tiziano “l’Assunta” conservato
nella basilica di Santa Maria Gloriosa dei Frari a Venezia (assunta e non
ascesa), ed è passato ad accostare il “Gran
Vetro” di Duchamp alla “Pala Oddi”
di Raffaello Sanzio, commissionata nel 1502 per la chiesa di San Francesco al
Prato, a Perugia, e conservata oggi nella Pinacoteca Vaticana. Così tutta una
serie di immagini, di frammenti che se non riescono a dimostrare l’ipotesi di
Andrea Lanini, mettono comunque insieme una serie di circostanze e coincidenze
“sospette”. Lanini ha chiuso la sua appassionata lezione mettendo a raffronto
un’altra analogia: sia Fellini che Duchamp erano eccellenti vignettisti.
Nella seconda lezione, Pasquale Polidori ha parlato
di ciò che si
riflette nell’oggetto-orinatoio, l'impronta/immagine depositata sull'oggetto: “Fountain” è il pene di Charles Demuth
riflesso nell'orinatoio. Demuth era un pittore omosessuale frequentatore del
bagno turco Lafayette, di cui erano proprietari i genitori di George Gershwin.
Così Polidori afferma: «In tal modo, la realtà concreta dell'orinatoio ha
assorbito il linguaggio, ha assunto il nome; ma solo perché il linguaggio ha scelto
l'oggetto a suo specchio…Nel massimo ribaltamento di Duchamp, non è la lingua
che riflette il mondo: è il contrario. In fondo a chi appartiene il nome? Il
verbo riflessivo 'chiamarsi' è ingannevole. Perciò si dovrà dire che
l'orinatoio È CHIAMATO 'fontana' da Duchamp, sottolineando così l'atto di
nominazione come unico atto artistico».
In fondo,
Maurizio Calvesi nel suo libro “Un’estetica
del simbolo tra arte e alchimia. Duchamp invisibile” (di 560 pagine!)
scrive che «Fountain è un oggetto
chiaramente a doppio senso essendo “urina” e “fontana”, nel vocabolario degli
alchimisti sinonimo…Due
nomi della materia da cui si estrae, ovvero zampilla, il mercurio, oppure
indicano il mercurio stesso, che non è distinguibile, nel monismo alchemico,
dalla materia: né questa, come sappiamo, è sostanzialmente distinguibile dal
vaso che la contiene e che, come la materia stessa, è utero, matrice, sorgente.
Circostanza assai precisa e interessante è che Nicolas Flamel chiama tra
l’altro “Urinal” il fornello-vaso
degli alchimisti».
Queste
comunicazioni hanno fatto riflettere al forte rapporto che c’era tra l’Europa e
l’Est degli Stati Uniti all’inizio del secolo scorso. Ricordiamoci che
all’inizio degli anni ’30, anche molti artisti e intellettuali scapparono dalla
Germania nazista e si trasferirono nel Nuovo Mondo, basti pensare, tra i molti,
a Gropius, Fritz Lang e Mies van der Rohe.
Un breve entr’act ha posticipato le conclusioni
dell’ultimo oratore. Sono stati serviti dei bicchieri di acqua per una perfomance finale (dover leggere una
frase con l’acqua in bocca) e distribuite una sorta di bomboniere, contenenti ciascuna
una meringa e un bigliettino con un aneddoto duchampiano, scritto con un font handwriting
tipico delle partecipazioni dei matrimoni. Nel mio così era scritto: «Duchamp a
New York ci stava bene perché diversamente da Parigi lì nessuno sapeva che
fosse e quando la sera andava a battere il molo, i marinai non lo chiamavano
“il pittore” né lo annoiavano con discorsi sull’arte, bensì era noto come “la
francese” e gli parlavano d’amore venendogli in bocca».
Ha chiuso
l’evento Cesare Pietroiusti che si è inizialmente riagganciato agli altri due
interventi sottolineando e rafforzando le simbologie esposte, per poi avventurarsi
nei territori interpretativi psicoanalitici con riferimento, in particolare, a
Jacques Lacan. Ha così concluso citandolo: «Anche nell'esperienza dello
specchio può arrivare un momento in cui l'immagine che crediamo di afferrarvi
si modifica. Se l'immagine speculare che abbiamo di fronte a noi, che è la
nostra statura, il nostro viso, i nostri due occhi, lascia insorgere la
dimensione del nostro sguardo, il valore dell'immagine comincia a cambiare,
soprattutto se c'è un momento in cui questo sguardo che appare nello specchio
comincia a non guardare più noi stessi, initium,
aura, aurora di un sentimento di estraneità che è una porta aperta
sull'angoscia…» (Jacques Lacan, “Il
Seminario X, L’angoscia”).
Ghisi Grütter
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