8 aprile 2016

Recensione film: LAND OF MINE regia di Martin Zandvliet







Forse un gioco di parole? “Friend of mine” è un mio amico (letteralmente un amico dei miei) ma mine vuol dire anche le mine quelle che esplodono e che vanno disinnescate. Lungo la costa occidentale della Danimarca i tedeschi avevano riempito di mine le spiagge  pensando che lo sbarco degli Alleati avvenisse lì. Nel 1945, a guerra finita, i danesi si ritrovano a usare i prigionieri tedeschi per epurare le spiagge dalle mine. Sappiamo bene che “i colpi di coda” sono tremendi e quando le guerre finiscono tutto il lavoro sporco prima dei vari rientri a casa è un momento dolente dove rabbie, frustrazioni e violenze gratuite si abbattono sui sopravvissuti. Disumana è la guerra e disumani sono i soldati: i vinti sono vinti e vanno umiliati al di là di quello che hanno fatto loro stessi o coloro che li hanno comandati. Siamo sempre all’interno dell’argomentazione sulla “banalità del male” tanto bene descritta da Hanna Arendt.
Una volta tanto al cinema i nazisti vinti diventano vittime, ragazzini giovanissimi arruolati probabilmente all’ultimo, senza alcuna esperienza bellica. Non si sa più chi siano le vittime del Nazismo, a parte i sei milioni di ebrei ammazzati, forse lo sono anche parte degli stessi tedeschi, sembrerebbe essere la tesi del film. È proprio qui che il regista danese ha il coraggio di vedere la tirannia e la cattiveria di chi ha vinto – anche se sono gli stessi danesi a essere descritti così – di descriverne il potere dell’umiliazione (tremenda la scena in cui i soldati danesi pisciano sui ragazzi tedeschi e che purtroppo è tristemente utilizzato da infami anche in periodi di pace) come vedere trattare un ragazzo tedesco come fosse un cane, farlo giocare con la palla e farlo abbaiare: tutte violenze gratuite che l’animo umano purtroppo riesce a tirare fuori in disparate circostanze. Questi sono i temi centrali del film. Di quattordici giovani tedeschi - di cui nel frattempo impariamo i nomi, le provenienze e i desideri - ne sopravviveranno solo quattro.
Le lunghe spiagge incontaminate che assomigliano al deserto, i tramonti sull’oceano, le intemperie sui volti impauriti dei ragazzi che rischiano la vita in ogni frazione di secondo sono le splendide immagini di questo film molto duro, dove nessuno si salva da errori del comportamento. Il finale, forse un po’ appiccicato, ha il gusto del gesto riparatorio non solo nei confronti dei sensi di colpa del sergente, ma anche dello spettatore che è rimasto un’ora e mezza in apnea con il mal di stomaco.
 Ghisi Grütter

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