Forse
un gioco di parole? “Friend of mine”
è un mio amico (letteralmente un amico dei miei) ma mine vuol dire anche le mine quelle che esplodono e che vanno
disinnescate. Lungo la costa occidentale della Danimarca i tedeschi avevano
riempito di mine le spiagge pensando che
lo sbarco degli Alleati avvenisse lì. Nel 1945, a guerra finita, i danesi si
ritrovano a usare i prigionieri tedeschi per epurare le spiagge dalle mine. Sappiamo
bene che “i colpi di coda” sono tremendi e quando le guerre finiscono tutto il
lavoro sporco prima dei vari rientri a casa è un momento dolente dove rabbie,
frustrazioni e violenze gratuite si abbattono sui sopravvissuti. Disumana è la
guerra e disumani sono i soldati: i vinti sono vinti e vanno umiliati al di là
di quello che hanno fatto loro stessi o coloro che li hanno comandati. Siamo
sempre all’interno dell’argomentazione sulla “banalità del male” tanto bene
descritta da Hanna Arendt.
Una
volta tanto al cinema i nazisti vinti diventano vittime, ragazzini giovanissimi
arruolati probabilmente all’ultimo, senza alcuna esperienza bellica. Non si sa
più chi siano le vittime del Nazismo, a parte i sei milioni di ebrei ammazzati,
forse lo sono anche parte degli stessi tedeschi, sembrerebbe essere la tesi del
film. È proprio qui che il regista danese ha il coraggio di vedere la tirannia
e la cattiveria di chi ha vinto – anche se sono gli stessi danesi a essere
descritti così – di descriverne il potere dell’umiliazione (tremenda la scena
in cui i soldati danesi pisciano sui ragazzi tedeschi e che purtroppo è tristemente utilizzato da infami anche in periodi di
pace) come vedere trattare un ragazzo tedesco come fosse un cane, farlo giocare
con la palla e farlo abbaiare: tutte violenze gratuite che l’animo umano
purtroppo riesce a tirare fuori in disparate circostanze. Questi sono i temi
centrali del film. Di quattordici giovani tedeschi - di cui nel frattempo
impariamo i nomi, le provenienze e i desideri - ne sopravviveranno solo
quattro.
Le
lunghe spiagge incontaminate che assomigliano al deserto, i tramonti
sull’oceano, le intemperie sui volti impauriti dei ragazzi che rischiano la
vita in ogni frazione di secondo sono le splendide immagini di questo film
molto duro, dove nessuno si salva da errori del comportamento. Il finale, forse
un po’ appiccicato, ha il gusto del gesto riparatorio non solo nei confronti dei
sensi di colpa del sergente, ma anche dello spettatore che è rimasto un’ora e
mezza in apnea con il mal di stomaco.
Ghisi Grütter
Ghisi Grütter
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