IN NOME DI MIA FIGLIA
Regia
di Vincent Garenq
Con Daniel
Auteil, Sebastian Koch, Marie-Josée
Croze, Christelle Cornil, Lila-Rose Gilberti.
Con
“In nome di mia figlia” il regista
Vincent Garenq è al suo quarto lungometraggio. Dopo aver girato “Presume Coupable” del 2011 su uno degli
accusati dell’affaire d’Outreau (un
caso penale di abuso sui minori) ed essersi occupato in ’”Enquête” del 2015 dei paradisi
fiscali, in questo film tratta un caso di cronaca giudiziaria francese, una storia
veramente terribile.
Vedendo
il film sembra di ritrovare tutti i problemi di ottusità burocratica, di
ipocrisia nazionale e istituzionale che troviamo oggi in vari casi di cronaca e
di morti “sospette”, sembra anche di riscontare la dedizione alla ricerca della
verità dei parenti come, ad esempio, i genitori Paola e Claudio in quello
recente di Giulio Regeni, o la sorella Ilaria nel caso di Stefano Cucchi del
2009.
Si
soffre per tutto il film assieme a uno straordinario Daniel Auteil che interpreta
Monsieur André Bamberski,
contabile in una ditta a Toulouse, di origini polacche trasferitosi in Francia
durante la seconda guerra mondiale, la cui figlia Kalinka di quattordici
anni muore in circostanze misteriose. Bamberski dedicherà tutta la sua vita a cercare giustizia,
a far riaprire il caso, ad andare e venire varie volte in cerca di ulteriori
prove a Lindau sul lago di Costanza – il lago sul fiume Reno detto Bodensee al
confine tra Svizzera, Germania e Austria - dove vive l’ex moglie con il
sospetto dott. Dieter Krombach
(Sebastian Koch, il bellone di “Le vite degli altri”) e dove è stata
uccisa la figlia.
Man
mano che sembra si arrivi a un punto fermo nell’iter della giustizia, avviene
qualcosa di negativo, un intoppo, un disguido, che rigetta Bamberski nello
sconforto, ma lui non si arrende mai e intraprende sempre nuove battaglie con
perseveranza e ostinazione. Diventerà un esperto giurista a forza di studiare
la legislazione francese ed europea. In tal modo però trascurerà la sua giovane
e affettuosa compagna e perfino il lavoro, per dedicare tutti i suoi sforzi alla
giustizia per la morte della figlia, e forse un po’ anche alla vendetta dell’adulterio
della moglie con il perverso medico tedesco.
Attraverso
peripezie che non voglio qui raccontare, André Bamberski riuscirà dopo trent’anni a ottenere
finalmente giustizia ma a caro prezzo: la sua stessa vita gli è passata
accanto.
Il
film si regge prevalentemente sulla bravura di Daniel Auteil, ma si apprezza
anche il lavoro di Vincent Garenq per la corretta ricostruzione dei fatti senza
lasciarsi sedurre da fantasiose interpretazioni psicologiche dei vari
protagonisti. Così afferma lo stesso regista in un’intervista su “Terza Pagina”:
«L’estetica
del film contribuisce molto a dare un’impressione di rigore. Colori, luci,
scenografie e movimenti della macchina da presa: tutti elementi che partecipano
a una volontà comune di sobrietà. Cerco di mettere il realismo della storia e
dei personaggi davanti a tuto, di far dimenticare che ci troviamo al cinema. La
sobrietà è dunque essenziale. Per quanto concerne i colori del film, non c’è
stato mai, o quasi mai, un trattamento particolare. C’è giusto il contrasto
della luce del Marocco, molto solare, e quella molto grigia della Germania».
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