Con Quentin Dolmaire, Mathieu
Almaric, Lou Roy-Lecollinet, Eve
Doé-Bruce, Françoise Lebrun
“I miei giorni più belli” è un
film adatto agli spettatori nostalgici di François Truffaut che si fanno affascinare
dai “romanzi intimi” e dai problemi degli amori adolescenziali di una piccola
città della provincia francese. Le vicende sentimentali sono presentate in flash
back - il titolo originale è “Trois Souvenirs de ma Jeunesse” – e
narrate dalla voce fuori campo del protagonista (non faceva così anche
Truffaut?). Paul Dédalus (Quentin Dolmaire da giovane) da bambino ribelle,
svogliato e ingestibile diventerà da adulto un affermato antropologo richiesto
pure al Ministero degli Affari Esteri per le sue competenze. Arnaud Deplechin nella sua regia segue
il modello del regista della nouvelle-vague
nel proseguire la storia del protagonista dei suoi film precedenti interpretato
da Mathieu Almaric, così come l’Antoin Duanel truffautiano era stato sempre interpretato
da Jean Pierre Leaud.
Le storie adolescenziali di amori
vissuti si svolgono alla fine degli anni ’80 - negli anni della caduta del muro
di Berlino - a Rubaix, una cittadina di circa 90.000 abitanti situata al
confine con il Belgio a 200 km a nord di Parigi.
Paul da giovane va a studiare
all’Università di Parigi ma s’innamora di Esther (Lou Roy-Lecollinet), la
ragazza sedicenne sofferente di bovarismo, la più desiderata della comitiva, con
la quale può incontrarsi solo nei week-end quando torna a casa, e avrà con lei un
rapporto intenso di sette anni, prevalentemente epistolare (ancora Truffaut).
Le storie narrate nel film
fanno riferimento a generi diversi, quello breve sull’infanzia - con la follia
e suicidio della madre - trova le sue matrici in Rossellini, Buñuel e ancora
Truffaut, mentre il viaggio in Russia nel genere dello spionaggio; il ricordo
decisamente più lungo è proprio quello del genere sentimentale in cui vengono mostrati, oltre all’amore, i
desideri, le paure, i tradimenti e il carteggio quotidiano dei due ragazzi.
Chiude il film con i protagonisti adulti: l’epilogo è sostanzialmente un
monologo del furibondo Paul che, al rientro dal Tagikistan e in un
prolungamento del disagio adolescenziale, rivolge all'amico che l’aveva tradito
molti anni prima proprio con la sua adorata Esther.
Quello che secondo me il
regista non è riuscito a riprendere da Truffaut è la sua ironia, l’affettuosa
goffaggine dei suoi personaggi che suscitano empatia nello spettatore; qui il
fondo resta drammatico così come, ad esempio, è denunciato dal rapporto con la
professoressa di antropologia Béhanzin (Eve Doé-Bruce) che colma il vuoto
lasciato dall’assenza materna.
Il film – proiettato nelle
sale in originale con i sottotitoli – è amato molto dai critici probabilmente
per i suoi riferimenti e citazioni quale esempio di cinema colto. Sicuramente
intenso e ben curato risulta, a mio avviso, piuttosto faticoso nella parte di
descrizione degli amori adolescenziali un po’ troppo lunga e lenta, mentre la
parte iniziale dell’infanzia fino al viaggio in Russia possedeva un bel ritmo incalzante.
Ghisi Grütter
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