Le periferie salveranno il mondo. Quelle delle grandi citta’, le nazioni minuscule o non influenti, le popolazioni emarginate, costrette ad abbandonare la loro terra, per motivi di interessi altrui, guerre, carestie. Tutto quello che accade ai margini, nelle parti liminali delle curve delle distribuzioni, e’ li’ che il mondo cambia, che si rinnova. Abbandonate l’idea che siano le medie a creare le eccellenze e le novita’. Il consenso, la maggioranza silenziosa, servono a dare lavoro a politici e ministri, ma non cambiano il pianeta. Come non cambiano l’Europa. Le esagerazioni, gli asintoti, ci hanno imposto, per anni, ormai, a riconsiderare le scelte future. Il problema e’ quando qualcuno pensa che si possa tornare indietro o che non ci sia spazio per posizioni non ideologiche o di interesse, ma puramente politiche, sociali. Umane.
In questi anni del dopo Lehman, le periferie hanno continuato a trascinare i giorni, uno dopo l’altro, i giorni senza lavoro, senza opportunita’, senza aiuto dal ‘mondo dei medi’. Le periferie dilaniate da guerre fratricide, in Siria, Libia, oggi in Venezuela, forse Macedonia. Le periferie che, una mattina di cinque anni fa, a Londra, sono scese per strada e hanno provato una rivolta dei ciompi, le periferie che si ammassano, che annaspano nelle acque gelide dello stretto di Sicilia, le periferie che spingono, i cui figli vanno in scuole dove si parlano tante lingue, ma tutti comunicano assieme in inglese od italiano. O francese. Le periferie di Parigi, di Londra, di Roma, Los Angeles, Tunisi. Queste folle liminali che cambiano le aspirazioni di una nazione, o che ridisegnano, nei loro riferimenti alla cultura pop della ‘nazione internauta’, quella che ormai discute e si confronta oltre i nostri confini geopolitici. La cultura delle generazioni incipienti (smettiamola di chiamarle giovani) e’ sempre stata un drone. Oggi piu’ che mai.
I giovani, quelli che in Italia non hanno votato Si al referendum (manco fosse una colpa), quelli che incroci, che lavorano come camerieri, i giovani che ti mandano il CV, dove ti raccontano ogni piccola esperienza di lavoro in termini complicati, ma dove, in controluce, leggi semplicemente che hanno voglia di fare, di imparare. Un ragazzo serbo me lo ha scritto, nella lettera di presentazione: I want to learn. I want to grow. Voglio imparare, voglio crescere, voglio aumentare la capacita’ di vedere e capire il mondo, di usarlo, di piegare le correnti, i flussi finanziari e non, per costruire altro. Per creare spazi nuovi. Le periferie che ci guardano, le citta’ mediterranee con tetti e case accalcate una sull’altra, l’est di Londra, o tutti i villaggi e paesi del pianeta dove chi ci abita magari conosce tutti, ma sa, e’ consapevole che quello che rende giustizia al proprio destino e’ il muoversi, accettare la provocazione delle cose.
Oggi, quel mondo delle periferie sta creando una sua etica particolare. Le periferie abbandonate dai massimalismi della politica, dagli investimenti e dalle attenzioni, i giovani in fuga per la vita, verso il centro nevralgico del pianeta, stanno reinventandosi la morale, in un mondo senza divinita’ se non un senso di sacro per valori propri, l’amicizia, la fede nel futuro. Nasce da qualche parte l’impronta del nuovo. In una mensa della croce rossa in Germania, dove ho visto un signore siriano parlare animatamente con uno del Sudan. Signori, non profughi, persone, non immigrati. Muovendo le mani, spostando parole in tre lingue diverse, reinventavano il mondo.
Questa visione, di cambiamento, di impellente necessita; di emergere, di fare le cose attorno comode, magari non eccelse, ma personalmente utili, il tanto dal poco, se non dal nulla. Il mondo in un’ottica punk, anarcoide, ma dove rinasce il rispetto, dove si nascondono immagini di mondi futuri dove torna a trionfare l’umano. Come nella musica del collettivo Rudimental, a est dell’Hipsterborough di Hoxton, come nelle declamazioni in salsa glitch-hop di Kate Tempest, la Patti Smith della Generazione XYZ, come nei video che raccontano l’altro lato dell’immigrazione francese dei The Blaze. Guardatelo il video di Territory, perfetto nella sua storia di un ragazzo nordafricano che torna a casa in nave, la famiglia che lo attende, il suo ballo sfrenato sui tetti del pianeta, quel pianeta che cambia ogni giorno. Esempi del magma che si agita, da sempre, negli intorni della media.
‘There is no place like my home, since I was born’, cantano i The Blaze.
E, per chi viene dalle periferie, la casa e’ il mondo, perche’, se si vive lungo i bordi, tutto il dentro, tutto quello che si trova al suo intorno e’ luogo familiare. Tutte queste persone sono in cerca di una voce, di eroi, di modelli da seguire, di idee forti e pesanti a cui affidarsi. O, alla fine, ce la faranno da soli, come il ragazzo mutilato che torna a usare lo skateboard. L’apparente emarginazione, una recisione del corpo sconosciuto della societa’, nonostante tutto, continua a lottare per affermare la sua esistenza. La periferia. Culla del dissenso, dell’abbinamento inusuale e della liberta’ personale.
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