14 maggio 2017

Recensione film: UNA SETTIMANA E UN GIORNO regia di Alaph Polonsk

Con Shai Avivi, Evgenia Dodina, Tomer Kapon, Uri Gavriel, del 2016. Fotografia di Moshe Mishali. Musiche di Ran Bagno.



Diversità nel lutto

 

Dopo la settimana dello Shiv’ah (periodo di sette giorni di lutto nell’ebraismo per i parenti di primo grado) per la morte dell’unico figlio, Eyal (il celebre attore israeliano Shai Avivi) e Vicky Spvavak (Evgenia Dodina, un’affermata attrice teatrale e cinematografica) mostrano volti e modi diversi di affrontare la sofferenza della perdita.

Mentre Vicky è più rispettosa delle tradizioni e si reca al cimitero, Eyal reagisce in modo stravagante. Lei, un’insegnante di scuola, preferirebbe ricominciare a lavorare subito, immergersi nel lavoro completamente, ma un supplente la farà ritardare di qualche giorno; è alla ricerca di “normalità” e di annullamento nell’anonimato protettivo.

Eyal torna nell’ospice dove è morto il figlio Ronnie, con il pretesto di recuperare una coperta colorata. Lì, tra gli oggetti del figlio, trova della cannabis che gli veniva data a scopo terapeutico – un bell’esempio di progresso – e se lo porta a casa. Eyal non ha mai fumato e non riesce neanche a costruirsi una canna, quindi chiede aiuto a Zooler (il simpatico Tomer Kapon), il giovane vicino un po’ strampalato, ex amico del figlio (una sorta di stoner movie).  Ne nasce un bel rapporto di gioco (ludoterapia?) ostacolato dagli ingombranti vicini genitori del ragazzo, e visto in modo strano da Vicky che non riesce a inserirsi nel gioco.

Vari personaggi entrano in questo quadro – la bambina figlia della malata terminale nell’ospice che vuole esorcizzare il male, l’uomo al cimitero che ha perso la sorella e così via.

Il film così trova motivi di sorriso nel portare sullo schermo, con garbo e ironia, tematiche così dolorose. Così dice Alaph Polonsky in un’intervista: «Per dirla in parole povere, mi piace ridere e piangere e ho cercato di mettere insieme le due cose».

La città nel film, purtroppo non si vede. Potrebbe essere Tel Aviv dal mare e da una scena di traffico, ma la strada residenziale con le casette unifamiliari e il cimitero potrebbero essere ad Acri o ovunque sulla costa israeliana.

Una settimana e un giorno costituisce una buona opera prima di un regista trentenne che è nato a Washington ma che vive in Israele. È stato premiato nel 2016 sia al “Jerusalem Film Festival” sia alla “Semaine de la Critique” a Cannes.

 

Ghisi Grütter

 

 

 

 

Nessun commento:

Posta un commento