Diversità nel
lutto
Dopo
la settimana dello Shiv’ah (periodo di sette giorni di lutto nell’ebraismo per
i parenti di primo grado) per la morte dell’unico figlio,
Eyal (il celebre attore israeliano Shai Avivi) e Vicky Spvavak (Evgenia Dodina, un’affermata attrice teatrale e
cinematografica) mostrano volti e modi diversi di affrontare la
sofferenza della perdita.
Mentre
Vicky è più rispettosa delle tradizioni e si reca al cimitero, Eyal reagisce in
modo stravagante. Lei, un’insegnante di scuola, preferirebbe ricominciare a
lavorare subito, immergersi nel lavoro completamente, ma un supplente la farà
ritardare di qualche giorno; è alla ricerca di “normalità” e di annullamento
nell’anonimato protettivo.
Eyal
torna nell’ospice dove è morto il
figlio Ronnie, con il pretesto di recuperare una coperta colorata. Lì, tra gli
oggetti del figlio, trova della cannabis che gli veniva data a scopo
terapeutico – un bell’esempio di progresso – e se lo porta a casa. Eyal non ha
mai fumato e non riesce neanche a costruirsi una canna, quindi chiede aiuto a Zooler
(il simpatico Tomer Kapon), il giovane vicino un po’ strampalato, ex amico del
figlio (una sorta di stoner movie). Ne nasce un bel rapporto di gioco
(ludoterapia?) ostacolato dagli ingombranti vicini genitori del ragazzo, e
visto in modo strano da Vicky che non riesce a inserirsi nel gioco.
Vari
personaggi entrano in questo quadro – la bambina figlia della malata terminale
nell’ospice che vuole esorcizzare il
male, l’uomo al cimitero che ha perso la sorella e così via.
Il
film così trova motivi di sorriso nel portare sullo schermo, con garbo e ironia,
tematiche così dolorose. Così dice Alaph Polonsky in un’intervista: «Per dirla in parole povere,
mi piace ridere e piangere e ho cercato di mettere insieme le due cose».
La
città nel film, purtroppo non si vede. Potrebbe essere Tel Aviv dal mare e da una
scena di traffico, ma la strada residenziale con le casette unifamiliari e il
cimitero potrebbero essere ad Acri o ovunque sulla costa israeliana.
Una settimana e un giorno costituisce
una buona opera prima di un regista trentenne che è nato a Washington ma che
vive in Israele. È stato premiato nel 2016 sia al “Jerusalem Film Festival” sia
alla “Semaine de la Critique” a Cannes.
Ghisi
Grütter
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