Sono perfettamente cosciente che certi argomenti, lontani dalla polemica di casa nostra, non hanno alcuna attrattiva.
Penso che dovrebbero averla invece, perchè anche i nostri si trovano impigliati in una situazione che dovrebbe obbligarli a considerare con attenzione i rumorosissimi segnali,ormai evidentissimi, che denunciano la precarietà del “sistema”
Se, oggi, la politica non può fare altro che leccarsi le ferite, non può però cavarsela, ritenendosi incolpevole.
Se il dogma imperante è riuscito a piegarla al suo servizio, è perchè i politici hanno, da molto tempo, reagito alle difficoltà crescenti della società, affidandosi alle ricette preconfezionate e impersonali di un sistema con presupposti falsi, gabellati per ovvi.
Il primo e fondamentale di questi presupposti deriva dal paradigma fondamentale del modello economico occidentale basato sulla idea di una crescita ininterrotta.
Il guaio è che la crescita, anzichè una verità, è una “necessità” del modello di sviluppo, presupposto dal sistema capitalistico.
La crescita interrotta serve:
A creare nuovi posti di lavoro al posto di quelli falcidiati dalla tecnologia.
A garantire che un numero inferiore di giovani (combinati con la tecnologia) sia in grado di pagare le pensioni della crescente schiera di vecchi
A consentire l’aumento delle entrate dello Stato che consentano il rimborso dei debiti.
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Insomma, il mondo, organizzato secondo il modello capitalistico, senza la crescita, entra in gravi difficoltà.
Per questo non sentirete nessun politico che non si sgoli a produrre leggi e riforme dichiarati essenziali a rinvigorire la crescita (che non cè, ma che ci sarà).
Noi, più di altri, siamo in difficoltà perchè i politici di ieri non avevano capito bene quali fossero gli strumenti capaci di stimolare la crescita e a rinvigorirla.
Il concepire una crescita temporalmente infinita, in presenza di risorse finite, è illogico.
La critica alla crescita viene da lontano.
Thomas Malthus, nell’ ottocento, diceva che risorse limitate frenano la crescita.
Il club di Roma pensava che le risorse, almeno quelle minerarie, si sarebbero estinte entro il 2100.
Keynes sosteneva che la crescita si sarebbe automaticamente ridotta, in virtù di bisogni materiali ampiamente soddisfatti
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Tutte queste previsioni, soffrivano di un problema: non tenevano conto o, comunque sottovalutavano, da una parte il progresso tecnologico, dall’altra la creazione di nuovi bisogni artificialmente indotti nella società, inventata come serbatoio inesauribile di consumatori compulsivi.
Forse la politica ha riposto fiducia eeccessiva in questi due parametri: consumismo e tecnologia.
Facendolo, ha però dimostrato una miopia patologica, che toglie ogni scusante.
A dimostrarlo, intervengono i moderni e attuali critici della crescita infinita.
Non mi riferisco ai teorici della decrescita, che tentano risposte, dando per scontato che la crescita sia alla fine.
Mi riferisco a quegli studiosi che dimostrano che il “sistema”, già ora, è entrato in una fase di stagnazione di lunghissimo periodo, nonostante e tenendo conto di tecnologia e consumismo.
Mi rifaccio a un esempio reale.
Clinton, appena eletto,incaricò un team di economisti di redigere un rapporto sul Giappone.
Era l’inizio degli anni ’90 e il Giappone preoccupava per essere precipitato in una crisi profondissima.
Summers, professore ad Harvard a soli 29 anni, insieme ai suoi colleghi, presentò al presidente un rapporto molto ottimistico:
Il Giappone si sarebbe ripreso facilmante e il suo PIL avrebbe raggiunto livelli entusiasmanti.
Totalmente sbagliato.
Nel 2013, anno in cui Summers ha ricordato questo fatto in un convegno del FMI, il PIL giapponese era poco meno della metà di quello pronosticato nel rapporto e la sua crescita è precaria, discontinua e il trend è piatto.
Summers nel suo breve intervento ha messo i politici di fronte a un fatto eclatante: la crescita, panacea in cui i politici ripongono la loro fede, è una illusione: il problema della stagnazione esiste già.
I politici sono incapaci di trovare una soluzione. Continuano ad illudersi e a illuderci che la crescita che non c’è, sia dietro l’angolo.
No c’è bisogno di Summers, però, per scoprire che l’economia dei grandi paesi industrializzati è praticamente immobile da più di 20 anni.
Se si guarda il trend di fondo, si vede che le “increspature” sono contingenti e irrilevanti (mercato immobiliare, bilanci delle aziende high-tech...)
Se si guarda il trend, spezzettandolo, si vede una sequenza di bolle speculative e di conseguenti flop. I salari non sono cresciuti durante il gonfiaggio della bolla e si sono ridotti dopo.
La tendenza che produce la stagnazione, indotta dalla caduta del saggio di profitto, accelerato dall’ingresso di economie prima inesistenti e che, globalmente, nascondono gli andamenti di lungo termine, sono un eccesso di risparmio e un profondo deficit di investimento (compare Picchetty)
Summers appartiene alla schiera di critici del sistema, che ritengono possibile allontanare nel tempo il collasso, attraverso misure politiche, che riescano a trasformare il risparmio (rendita) in investimenti.
Le cose da fare sono però così drastiche (anche per Samuelson, per esempio) da scoraggiare qualunque politico (abolizione del denaro contante; tassi di interesse sotto zero; risparmio privato usato dai governi per investimenti pubblici, possibile in presenza di interessi negativi......)
Tutto quello che i politici sanno fare, quando li si pone di fronte a problemi strutturali di questa portata, è sentirsi giustificati a proporre e lottare per programmi di investimento finanziati dal debito, come propone, per esempio, Renzi, che tenta in ogni modo di rilanciare la domanda, mentre la Germania, sempre per esempio, pretende riforme e conti in ordine. Renzi , per la verità, per ottenere la agognata flessibilità, si arrabatta a produrre riforme.
La mia conclusione è che nessuna delle due tesi - entrambe condite dalla paura della stagnazione – affronta davvero il problema.
Per farlo, bisognerebbe ammettere che il susseguirsi delle crisi vuol dire inefficacia della ricetta in ogni sua declinazione e accettazione della fine della crescita come strumento per risolvere i problemi della società.
Per questo i politici – più che la politica – si lecchino pure le ferite, ma sappiano che la loro soggezione al sistema, è ignavia e colpa che viene da lontano.
Per questo il mio pessimismo circa l’esito di un sistema non riformabile.
Alla prossima, in cui affronterò la questione delle politiche di inclusione e di supporto, a meno che qualcuno non mi suggerisca e mi voglia in giro, anche sotto il vento, il freddo e la neve..
Umberto Pradella
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