Adesso cerco di spiegare quello che avevo scritto:
“--- togliere il velo a roboanti, quanto vane "politiche di inclusione" e di "supporto", tendenti, per di più, a ridare slancio al paese”.
Se c’è una etichetta che sta letteralmente imperversando, non solo nelle polemiche politiche,è quella del “reddito di cittadinanza”.
L’idea non è nuova, circola tra gli economisti da almeno due decenni, se non più.
Si trattava di legare il concetto di democrazia con quello della inclusione sociale; quello della cittadinanza con quello della garanzia vitale.
A chi si rivolgeva l’attenzione, quando si parlava di “reddito di cittadinanza”? A nessuno e a tutti.
Questa idea è nata nell’ambito (non italiano) liberal-democratico, come aspetto progressista e democratico di una base economica generalizzata capace di consentire una uguaglianza delle condizioni di partenza,per tutti.
Il guaio, che, allora, la rendeva utopica, era rappresentato da altissimi costi di realizzazione.
Se si voleva rimanere entro i confini del Welfare esistente, non c’erano risorse sufficienti.
Non si trattava, quindi, di garantire i cittadini contro la povertà, ma di consentire a tutti la possibilità di impiegare i propri talenti.
Insomma si poteva entrare nella schiera dei poveri, non avendo talenti o impiegandoli male.
IN una cornice “liberaldemocratica” non era possibile fare diversamente. Per definizione quel pensiero privilegia la meritocrazia e immagina che non ci siano persone incapaci di “merito”. I poveri, o meglio, la povertà, sta fuori dalla cornice.
Il susseguirsi delle “crisi” ( sempre fuori dal nostro paese, che ci è arrivato dopo), ha obbligato gli economisti alla elaborazione del nesso tra “reddito di cittadinanza” e “povertà”.
Così inteso, il concetto cambia sostanzialmente.
La introduzione della povertà come elemento sociale caratteristico, finisce di derivare la necessità del reddito di cittadinanza dalla convinzione (inespressa) che il diritto al lavoro non sia realisticamente garantito e garantibile a tutti.
Il reddito di cittadinanza diventa così la cosmesi con cui si sostituisce il diritto costituzionale (almeno per noi) al lavoro.
La sostanza di questo tipo di reddito diventa una copertura contingente, di emergenza, temporanea che per non essere di nuovo utopico, deve rispettare i vincoli della spesa pubblica. Si elimina la “cassa integrazione straordinaria” e la si sostituisce, estendendola ai poveri lavoratori, con questo nuovo concetto.
E’ tanto vero che, il diritto a questo reddito,pena la sua perdita, pretende la sottomissione alla accettazione di un lavoro che non può essere rifiutato.
Prima di tutto, in questa accezione, la pretesa di aver inventato una vera nuova forma di protezione soclale appare certamente “roboante”.
In secondo luogo, rimanendo nella cornice sistemica del capitalismo liberista, la compatibilità del reddito di cittadinanza con i vincoli della spesa pubblica, pretende, di nuovo, la fiducia (la certezza della) nella crescita infinita, senza di cui, la necessaria “temporalità” del reddito di cittadinanza, scompare.
Insomma, a me sembra chiarissimo:
la logica economica per cui al povero è stato tolto il lavoro è quella stessa che gli chiede di accettare un reddito sussidiato, soltanto se si piega a quella stessa logica che ha fatto di lui un povero.
La povertà diventa quasi una colpa e si accoppia benissimo con la prevalente concezione della “società meritocratica”, secondo cui, le differenze tra ricchi e poveri non sono una questione culturale, ma “naturale”, secondo una grossolana,falsa e idiota trasposizione di un darwinismo fasullo, lontano dalla sua realtà scientifica.
IN questo contesto, quelli che si sentono vicini alla povertà, finiscono di entrare nel flusso del pensiero liberista, invocando meno tasse,meno spesa pubblica, meno vincoli all’impresa (che sostiene che sia il complesso dei lacci e lacciuoli che la soffoca), fino ad accettare, in cambio di una sperata “crescita” salvifica, la riduzione dei diritti dei lavoratori, in attesa del promesso nuovo rigoglio che consentirà di ritornare ad un passato di benessere.
Basta accettare un sacrificio temporaneo, anche se pesante.
Il liberismo diventa la soluzione. Chi sta entrando tra i precari poveri, va a votare per le riforme e la crescita che queste garantiranno, con il corollario di una nuova agiatezza.
Piero, spero non di averti convinto, ma sicuramente di aver risposto alle tue domande.
umberto
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