Visto su SKY
Con Claudio Santamaria, Luca Marinelli, Ilenia Pastorelli,
Stefano Ambrogi, Maurizio Tesi, Francesco Formichetti, del 2015
“Accattone kid”
Lo chiamavano Jeeg Robot è un film tra
realismo e fantascienza. Da un lato, eredita tutta la tradizione del
neorealismo portando sullo schermo l’ambiente della periferia romana fatta di
ladruncoli, di piccoli boss, di sfruttatori di bambini, di spacciatori, di malavitosi
in genere. Una realtà marginale così come fa, a suo modo, la serie Romanzo Criminale di Stefano Sollima (lì
la banda è quella della Magliana), o come facevano una volta i ragazzi di
borgata nei film di Pier Paolo Pasolini (l’indimenticabile Accattone del 1961).
Dall’altro
lato, i riferimenti Gabriele Mainetti, attore al suo primo lungometraggio, li trova
in alcuni manga giapponesi o nei classici americani di Nembo Kid o Batman che
sia. La tematica del super-eroe è di impianto classico e piuttosto
convenzionale, anche se qui è talmente caricata che fa venire il dubbio sia portata
volontariamente sotto una forma grottesca.
In
una Roma scossa da attentati terroristici, sia Enzo Ceccotti (Claudio
Santamaria) sia, più tardi, Fabio Canizzaro, detto lo Zingaro (Luca Marinelli),
acquistano dei superpoteri cadendo in bidoni di materiale radioattivo nel
Tevere e diventano d’acciaio, indistruttibili. E così Mainetti dipinge il
cattivo e il buono, anzi il cattivissimo e il gigante buono che s’innamora di Alessia,
una ragazza un po’ strana e sfigata, appena rimasta orfana: un amore di due
disperati ai margini della società. “Non ho amici” ripete più volte il
protagonista.
La
città è vista come periferia profonda – le torri di Tor Bella Monaca, gli arei
bassi di Campino, il Gran Raccordo Anulare, il fiume – oppure come luogo
collettivo per antonomasia - lo stadio Olimpico dove si gioca il Derby della Capitale.
Lo zingaro posiziona una bomba nello stadio e sarà compito di Jeeg Robot
scovarlo, salvare l’umanità e liberarla dal male. Lo stadio rappresenta una
sorta di nuovo centro: la folla e/o la solitudine sono le sensazioni nelle
diverse situazioni urbane.
Lo
spettatore vive il film come un videogame.
Purtroppo però c’è tanta violenza gratuita che si sarebbe potuta evitare e che,
personalmente, reputo dannosa. Mainetti ha proprio il compiacimento nel
mostrare il dettaglio raccapricciante.
Lo chiamavano Jeeg Robot è stato particolarmente
osannato dalla critica italiana e super-premiato. Gli attori sono sicuramente bravi,
anche se, a mio avviso, sono tutti un po’ troppo sopra le righe, specialmente
quel Luca Marinelli che tanto è piaciuto e che ha perfino vinto un David di Donatello
per il miglior attore non protagonista.
Ghisi
Grütter
cara ghisi,
RispondiEliminaho apprezzato la tua recensione, che però non mi trova del tutto d'accordo. L'esasperazione della violenza credo sia un espediente per rendere più forte le figure "buone", il protagonista e la ragazza. Pio volevo evidenziare una circostanza che non ho ho visto sottolineata in alcuna critica e che mi ha fatto pensare che "in fondo" questo film è un film poetico.
Durante il film la ragazza lavora a maglia un qualcosa di colorato che non si capisce bene cosa (e che in qualche modo costituisce un filo, forse secondario, della trama di fondo).
Alla fine quando jeeg emerge in promo piano indossa una maschera colorata: proprio quella che la ragazza aveva preparato per lui!
Manuela Ricci
Cara Manuela, ho visto su Sky questo film perché lo avevo perso e molte persone che stimo "cinematrograficamente" me ne avevano parlato molto molto bene. Un sorta di "cult" vernacolare. Quindi ho provato un pò di delusione, specie per la convenzionalità della storia super-eroe.
RispondiEliminaPeraltro da piccola ero una appassionata lettrice di Nembo Kid e Nembo Star.
Hai sicuramente ragione nel mettere in evidenza la delicatezza del rapporto fra i due protagonisti che a me è sembrata la parte migliore.
Ciao
Grazie
gg
sono d'accordo che tu condivida, alla prossima
RispondiEliminamanuela