Il volume di Neil Brenner «Stato, spazio, urbanizzazione»
(Guerini&Associati) è stato presentato
a Roma nel Dipartimento di
Architettura dell’Università Roma 3. All’incontro era presente l’autore. Sempre nello stesso
luogo, dalla mattina, erano stati proposti i risultati del progetto di ricerca sugli
spazi post metropolitani.
Autogestioni postmetropolitane
«Spazi
urbani. Un’intervista a Neil Brenner, autore del volume "Stato, spazio,
urbanizzazione". Il nazionalismo economico nutrito da xenofobia e
populismo come risposta allo tsunami della crisi. Oggi l'intervento del
teorico statunitense all'Università di Roma 3». il manifesto, 8 marzo
2017 (p.d.)
Metropoli ridotte a una triste e desolata successione di case abbandonate e
fabbriche ormai color ruggine. Piccoli paesi di campagna diventati nel giro di
qualche lustro metropoli illuminate a giorno anche di notte, dove fabbriche
scintillanti si alternano a quartieri abitati da «creativi» e punteggiati da
centri di design e atelier di moda. E poi città dove il centro e
alcune enclave protette da guardie armate sono circondate da immensi
slums, regno dell’economia informale.
Sono queste le rappresentazioni dominanti della città. Oggetto di
discussioni e di elaborazioni da parte di una schiera di urbanisti, sociologi,
geografi e filosofi che provano a definire le traiettorie del possibile futuro
delle metropoli.
Tra di loro Neil Brenner occupa un posto a sé. Docente di «Teoria urbana a
Harvard» ha condotto inchieste e ricerche sul campo, ma è anche autore di
importanti studi sulle metropoli emerse durante il lungo inverno del
neoliberismo. Finalmente la casa editrice Guerini&Associati ha tradotto le
parti più teoriche del suo libro Stato, spazio urbanizzazione (pp. 190,
euro 18.50) che ha come introduzione un saggio di Teresa Pullano che
contestualizza l’elaborazione di Neil Brenner all’interno della teoria critica
statunitense.
Un saggio, quello dell’autore, dalle molteplici chiavi di lettura. C’è
l’uso disincantato e innovatore della filosofia della Scuola di Francoforte
sulla totalità, ma anche le tesi del filosofo francese Henry Lefebvre sul
«diritto alla città», miniera di argomenti da usare nella critica al
neoliberismo. Interessante è, a questo proposito, la parte del volume dove
Brenner vede le città come nodi preposti a rimuovere ogni barriera e «punti di
resistenza» al flusso di dati, capitali, merci, uomini e donne che caratterizza
il capitalismo. Le città dunque come nodi di una rete che ha come
«server» lo stato nazione e gli organismi politici sovranazionali – dal
Wto all’Unione europea -: istituzioni cioè funzionali al regime di
accumulazione. La parola d’ordine del «diritto alla città» – alla mobilità, alla
casa, alla formazione all’assistenza sanitaria, alla pensione – va dunque intesa
come la traduzione giuridica di forme di autovalorizzazione del lavoro vivo che
rende sfumate – se non nulle – le divisioni, care al pensiero liberale e
populista «di sinistra», tra diritti civili e diritti sociali. L’«urbano»
diventa lo scenario per immaginare, pensare le pratiche sociali e politiche
propedeutica al superamento del regime di accumulazione capitalista.
Con la svolta neoliberale, le metropoli diventano le piattaforme produttiva che non distingue più tra vita e lavoro. È nelle città che sono governati i flussi di capitale, conoscenza, uomini e donne. La finanza diviene inoltre centrale nella ristrutturazione urbana. Non come rendita, ma come momento di governo del regime di accumulazione. Alcuni studiosi hanno scritto espressamente che, con il neoliberismo, l’uso capitalistico del territorio raggiunge il suo acme. Cosa pensa di questa tendenza?
Con la svolta neoliberale, le metropoli diventano le piattaforme produttiva che non distingue più tra vita e lavoro. È nelle città che sono governati i flussi di capitale, conoscenza, uomini e donne. La finanza diviene inoltre centrale nella ristrutturazione urbana. Non come rendita, ma come momento di governo del regime di accumulazione. Alcuni studiosi hanno scritto espressamente che, con il neoliberismo, l’uso capitalistico del territorio raggiunge il suo acme. Cosa pensa di questa tendenza?
È ormai diffusa la consapevolezza che il progetto neoliberale di società
abbia radicalizzato le disuguaglianze sociali, il crollo e degrado delle
infrastrutture pubbliche, la frammentazione sociale, la crisi della sanità
pubblica. Questo non significa che il neoliberismo sia una unica forma politica
omogenea. Ne esistono diverse forme politiche. Questo fino al 2007. Con la
crisi, abbiamo visto però una intensificazione di processi autoritari nel
governo delle società. La Brexit e l’elezione di Donald Trump sono stati gli
ultimi, in ordine di tempo, momenti topici di questa tendenza autoritaria del
neoliberismo che promuove aggressive politiche di nazionalismo economico, un
comunitarismo nutrito da un violento lessico xenofobo, razzista e misogino. Un
mutamento che non ha certo messo in discussione, anzi ha intensificato i
dispositivi istituzionali funzionali all’accumulazione capitalistica, favorendo
le norme per consolidare la disciplina di mercato sulla società. La questione
più urgente è «come» sviluppare un processo democratico di riappropriazione del
controllo sullo sviluppo delle città, intese come un bene comune, cioè una
risorsa prodotta e condivisa dalla collettività.
La parola d’ordine del «diritto alla città» dei movimenti sociali ha
svolto e svolge un ruolo importante nelle pratiche di resistenza al
neoliberismo. Come giudica questa rinascita e ripresa delle tesi del filosofo
francese Henry Lefebvre?
Le sue tesi costituiscono, assieme al concetto di autogestione, un punto di
riferimento essenziale dei progetti di riappropriazione degli spazi urbani
intesi come commons. Lefebvre, va ricordato, fu fortemente critico verso
la cultura politica del partito comunista francese e, allo stesso tempo, fu
scettico verso le esperienze di autogestione sviluppate negli anni Settanta in
Jugoslavia. Individuava una contraddizione tra il diritto alla città e
l’autogestione: il diritto alla città ha un orizzonte non localistico,
circoscritto come accade invece nell’autogestione. Ma al pari dell’autogestione
vede un protagonismo dei movimenti sociali situati spazialmente in un
determinano luogo. Entrambi cioè sono incardinati in processi politici «dal
basso». Possiamo dire che tanto il diritto alla città che l’autogestione hanno
bisogno di frameworks, di cornici istituzionali che regolano la relazione
tra locale e globale, tra autonomia delle sperimentazioni e gestioni delle
risorse economiche. L’autogestione, infatti, non può esistere senza una cornice
istituzionale che ne garantisca e rafforzi le condizioni di sostenibilità urbana
e territoriale. Non c’è quindi contraddizione insanabile tra diritto alla città
e autogestione. Entrambe fanno leva sulle politiche sviluppate dal «basso»,
entrambe hanno bisogno dello stato nazionale per essere tutelate. Inoltre, il
diritto alla città e l’autogestione sono pratiche sociali e politiche che
attivano trasformazioni della forma stato. Con realismo, sono due movimenti che
potrebbero rendere meno misteriosa e indeterminata la suggestione della
«estinzione dello Stato». Sono cioè due momenti interconnessi di quell’Aneigung
teorizzato dal giovane Karl Marx, nel quale l’essere sociale trasforma il mondo
attraverso una prassi e, nel fare questo, trasforma se stesso, le forme di vita
e i dispositivi istituzionali esistenti.
Con la crisi del 2007, assistiamo a uno tsunami a livello globale. La città, nuovamente, è il luogo dove si manifesta. E se ci sono studiosi che parlano dell’esistenza di metropoli globali come piattaforme dell’economia mondiale, altri focalizzano l’attenzione sul «pianeta degli slums». Più prosaicamente assistiamo alla crescita di nuove metropoli e al declino di altre…. ?
Con la crisi del 2007, assistiamo a uno tsunami a livello globale. La città, nuovamente, è il luogo dove si manifesta. E se ci sono studiosi che parlano dell’esistenza di metropoli globali come piattaforme dell’economia mondiale, altri focalizzano l’attenzione sul «pianeta degli slums». Più prosaicamente assistiamo alla crescita di nuove metropoli e al declino di altre…. ?
Nel mio lavoro, colloco la discussione sul futuro della città nel contesto
di un processo di urbanizzazione planetaria che vede venir meno la divisione tra
città e zone rurali. Le ricerche e le inchieste che ho condotto suggeriscono
l’idea che i territori non cittadini siano fondamentali nel garantire una
molteplicità di risorse, materiali e immateriali, alla vita urbana. Questo non
riguarda solo le tradizionali spazi dell’hinterland, che sono serviti in
epoca industriale alla produzione di merci come carbone, alimenti, ma anche
luoghi lontani, remoti rispetto i «centri» dell’economia mondiale. Mi riferisco
agli spazi dove si concentra la logistica, lo smaltimento e il riciclaggio dei
rifiuti, le enclave del turismo. Ho chiamato questi luoghi ecosystem
service, siti preposti alla tenuta e riproduzione dell’ecosistema
urbano. Questo non significa negare il fatto che stiamo assistendo a una epocale
migrazione di persone verso la città che tendono a diventare megalopoli. La
questione teorica rilevante riguarda semmai i processi di urbanizzazione che
investono le zone rurali. È quanto avviene in America Latina, Asia e Africa.
Prendiamo ad esempio lo sviluppo del settore agro-alimentare e il
land-grabbing, cioè la privatizzazione violenta di ampie zone del
territorio da parte delle imprese. È il territorio che viene investito da
processi di urbanizzazione, attraverso la crescita di siti per lo stoccaggio e
la distruzione delle merci. La logistica, così come lo sviluppo di linee di
trasporto – autostrade, aeroporti e ferrovie – sono essenziali. E questo mondo
interamente urbanizzato che ci viene consegnato. È qui che si gioca il futuro
delle città. Sta a noi capire quali strategie usare per non essere sconfitti.
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