15 marzo 2017

STORIA ESSENZIALE DEL PROCESSO DI INTEGRAZIONE EUROPEA

Avvicinandosi la data fatidica della ricorrenza della firma dei trattati di Roma del 1957, che segnarono la nascita della Comunità Economica Europea (CEE), ci sembrava doveroso dover dare ai nostri lettori una " summa" essenziale del processo di unificazione con particolare riguardo all'integrazione monetaria. Combinazione vuole che questa ricorrenza che sarà solennemente festeggiata nel luogo in cui nacque e cioè Roma, coincida con il punto più basso finora raggiunto proprio da questa integrazione. Oltre alla Brexit inglese a cui nulla potrà per il momento l'opposizione della Scozia, nubi nere si addensano sul Parlamento di Strasburgo. Infatti sono imminenti le lezioni nei Paesi Bassi dove forte  è la componente anti-europeista mentre al cardiopalma sono i risultati attesi  in Francia dove, se si dovesse affermare la signora Le Pen, allora per l'Europa e il suo futuro sarebbero cavoli amari. Perchè un conto è se esce la Gran Bretagna, un altro se ad uscire è la Francia.
Non preoccupano invece le elezioni in Germania dove i partiti anti europeisti sono marginali.
E in Italia? Come al solito c'è qualcuno che cavalca la tigre anti-europeista che sconfina nel razzismo,  e qualcuno che sta a guardare chi la cavalca per vedere cosa succede. Altri e, speriamo che si alla maggioranza, rimane fedele allo spirito del 1957 pur rendendosi conto che è necessaria " una registrata " ,
Sovrasta su  tutti ,vigile ed accorto,  dalla torre di Francoforte il "tedesco" , il  "sommo sacerdote del tempio ( leggi cassa) europeo ,Mario Draghi.
D.F.
 
 
 
Storia essenziale del processo di integrazione europea con particolare riguardo all’Unione economica e monetaria.
 

 
 
Dopo i massacri fratricidi prodotti dalle due guerre mondiali (tra 15-17 milioni nella Grande Guerra e 70 milioni tra militari e civili nella seconda), la prima iniziativa è quella del Ministro degli affari esteri francese Schumann (9-05-1950) che propone al cancelliere tedesco Adenauer la gestione congiunta di due prodotti sensibili dal punto di vista militare come il carbone e l’acciaio.
A meno di un anno (18-04-1951), sei Paesi fondatori (Belgio, Francia, Germania Ovest, Italia, Lussemburgo, Olanda) firmano il Trattato che istituisce la Comunità europea del carbone e dell’acciaio CECA.
Sull’onda di questo successo, il 27-05-1952 gli stessi Paesi firmano il Trattato istitutivo della Comunità europea della difesa CED. Subito ratificato da Germania Ovest, Belgio, Olanda e Lussemburgo mentre l’Italia prende tempo, il 30-08-1952 il Trattato non viene ratificato dal Parlamento francese.
Una pesante battuta di arresto quindi superata dalla Conferenza di Messina (1-2/06/1955) organizzata dal MAE italiano Gaetano Martino. Segue la Conferenza di Venezia del giugno 1956 e sulla spinta prodotta da dette Conferenze si arriva alla firma dei Trattati di Roma (25-03-1957) che istituiscono la Comunità economica europea CEE, alias, Mercato Comune e la Comunità europea per l’energia atomica CEEA o Euratom. Il primo Trattato non si limita a eliminare i dazi e altri misure protettive tra i sei Paesi ma istituisce le quattro libertà fondamentali, ossia, la libera circolazione delle persone, delle merci, dei servizi e dei capitali. Il Trattato CEE, oltre all’Unione doganale, prevede l’elaborazione di politiche comuni in diversi settori dell’economia, come la politica agricola comune PAC (artt. 38-47), la politica comune dei trasporti (artt. 74-84), la politica commerciale (artt. 110-116), ecc. Prevede un periodo di transizione di 12 anni suddiviso in 3 fasi di 4 anni.
Per inciso, bisogna ricordare che il 22-01-1963 Francia e Germania firmano a Parigi il Trattato dell’Eliseo a suggello della fine della storica rivalità tra i due Paesi del Centro Europa.
Via via che si avanzava sul piano dell’integrazione economica e dello sviluppo del mercato comune risultava sempre più evidente la necessità di una moneta comune di cui il sistema dei cambi fissi gestito dal Fondo monetario internazionale era un povero sostituto sempre più frequentemente sottoposto a tensioni ed aggiustamenti[1]. Nasce di conseguenza il Piano Werner 1970 che accanto all’integrazione economica propone un processo di integrazione monetaria per tappe graduali.
Ma nel 1971 crolla per iniziativa americana il sistema dei cambi fissi ma aggiustabili previsti dagli accordi di Bretton Woods. Fallito il tentativo di riallineare il sistema con gli Accordi Smithsoniani del dicembre 1971, inizia un periodo di “libera” fluttuazione dei cambi che si cala sopra un forte conflitto distributivo tra Paesi produttori di petrolio, Paesi in via di sviluppo e Paesi industrializzati e, all’interno di molti paesi occidentali tra cui l’Italia, tra salari e profitti.
Ed è nel 1972 che nasce il il c.d. serpente monetario (valutario) europeo proprio per trovare un accordo europeo a fronte del fallimento di quello internazionale. I cambi dei paesi membri della CEE (d’ora in poi: PM) potevano oscillare entro una fascia del 2,25% (1.125 sopra e 1,125 sotto) all’interno di una fascia di oscillazione (tunnel) con il dollaro del 4,5%[2].
Il sistema non funzionò bene a causa degli effetti del conflitto distributivo internazionale (I shock petrolifero in concomitanza con la guerra dello Yom Kippur) e di quello interno ad alcuni PM che provocava tassi di inflazione molto divaricati tra di loro. In alcuni paesi tra cui l’Italia si fanno molto pressanti le esigenze di stabilizzazione tra gli anni 1974 e 1978 e come se ciò non bastasse nel 1979 arrivava il secondo shock petrolifero (in seguito alla rivoluzione iraniana degli Ayatollah), proprio nello stesso anno in cui la Comunità europea istituiva il sistema monetario europeo (entrato in vigore il 13 marzo). Nello SME si prevedeva una fascia di oscillazione doppia (4,5%) rispetto a quella del serpente per i cambi bilaterali dei PM e per l’Italia del 12% (+ e – 6% per dieci anni) in considerazione del più alto tasso d’inflazione (attorno al 20%). Erano previsti e sono stati fatti diversi riallineamenti specialmente nel periodo 1980-83. Poi seguiva un periodo di relativa stabilità tranne che per l’Italia che dal 1990 rientrava nella fascia di oscillazione ristretta sino al settembre 1992 quando la lira rompeva gli argini[3] e il governo era costretto a svalutare dopo che la Banca d’Italia aveva bruciato circa 15 mila miliardi di valute pregiate a difesa della lira. Il governo Amato era costretto a fare una manovra stabilizzatrice di circa 90 mila miliardi di lire.
Trattato di Shengen firmato il 14-06-1985, vi aderiscono 26 paesi tra cui la Svizzera, la Norvegia, l’Islanda, il Principato di Monaco, la Repubblica di S. Marino, lo Stato Città del Vaticano che non fanno parte dell’Unione. Shengen ha abolito i controlli alle “frontiere interne”, rendendo molto più facile la circolazione delle persone (lavoratori e/o turisti). Un segno tangibile dell’Unione per i PM come lo sarà dopo la moneta unica. L’Accordo prevede necessariamente la cooperazione tra le forze dell’ordine dei paesi aderenti. Ha subito una sospensione nel 2016 per via della crisi Migranti. L’accordo viene completato in una Convenzione firmata il 19-06-1990, entrata in vigore nel 1995 e poi integrata nella legislazione dell’Unione nel 1999.
L’Atto Unico 1986 oltre che di mercato unico inizia a prospettare unità politica e difesa comune[4].
Rapporto Delors. Consegnato ai ministri dell’economia e delle finanze il 28-29/10/1989 prevede una tabella di marcia per la realizzazione dell’Unione economica e monetaria UEM, per il completamento del mercato interno, la riforma dei fondi strutturali per ridurre gli squilibri territoriali, alias, favorire la convergenza delle diverse regioni dell’Europa; prevede inoltre la completa liberalizzazione dei movimenti di capitali; la seconda fase del coordinamento delle politiche economiche con regole precise su come limitare i deficit pubblici dei PM, ridurre i tassi di inflazione e assicurare la stabilità dei cambi delle diverse valute nazionali. Le proposte più importanti del Rapporto saranno recepite nel Trattato di Maastricht.
Nel Rapporto Delors c’è del grano e del loglio. L’errore più grave è quello di tendere ad un ricetta di politica economica e finanziaria uguale per tutti. Come in medicina così in economia: le ricette uniche non funzionano.
La Carta sociale europea. La Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori, alias, Carta sociale europea viene adottata dal Consiglio europeo di Strasburgo nel 1989; in origine questa non è un Convenzione della CEE. Nasce a Torino nel 1961 come un Trattato fondamentale del Consiglio di Europa: una organizzazione europea fondata con il Trattato di Londra del 5 maggio 1949 che conta 47 membri fra i quali tutti quelli che successivamente aderiranno ai Trattati di Roma, di Maastricht e di Lisbona. È un documento sui diritti sociali molto avanzato. La versione riveduta nel 1996 entra in vigore nel 1999. L’anno dopo (7-12-2000) viene in gran parte recepita nella Carta di Nizza sui diritti fondamentali; successivamente, nel Trattato costituzionale e, da ultimo, nel TFUE[5]. Purtroppo la Carta sociale europea resta ancora una dichiarazione di intenti se si considera a parte l’elaborazione giurisprudenziale delle due Corti di Giustizia. È ancora oggetto di controversia se il compito di attuare la Carta spetti all’Unione o ai PM. In fatto, prevale la linea che spetti ai PM.
Trattato di Maastricht firmato il 7-02-1992 prevede il passaggio dal mercato comune al mercato unico; istituisce la doppia cittadinanza aggiungendo a quella del Paese membro quella europea; con impostazione neo-liberale si decide di coordinare le politiche economiche e finanziarie con i famigerati parametri riguardanti il deficit e/o disavanzo (3%), il debito (60%), l’inflazione, il tasso di cambio che deve rispettare i margini di fluttuazione previsti dal Sistema monetario europeo, i tassi di interesse a lungo termine.
Il 1-01-1994 viene costituito l’Istituto monetario europeo IME che ha il compito tecnico di definire il quadro regolamentare e organizzativo per attuare la fase finale dell’UEM. Alcuni lo considerano il padre della Banca Centrale Europea.
1997 approvazione del Patto di stabilità e crescita (Regolamento 1466/1997); definito in applicazione degli artt. 99 e 104 del Trattato di Roma mira a rafforzare la disciplina di bilancio e la sostenibilità dei conti pubblici dei Paesi membri dell’Unione. In fatto, sotto l’influenza dell’impostazione neoliberista sul ruolo economico dello Stato, si occupa solo di stabilizzazione del ciclo e poco o punto di sostegno del processo di crescita. Il Patto è stato fermamente voluto dalla Germania che non si fidava degli altri Paesi membri. Vedi il mio pezzo sulla stabilizzazione.
Trattato di Amsterdam, firmato il 2-10-1997, si pone quattro obiettivi: 1) perseguire la massima occupazione e i diritti dei cittadini; 2) eliminare gli ultimi ostacoli alla libera circolazione delle persone e rafforzare la sicurezza; 3) perseguire un maggiore ruolo della UE sulla scena mondiale; 4) rendere più efficace le istituzioni europee in vista dell’adesione di nuovi membri. In chiave retrospettiva, si può dire che è stato un fallimento più o meno totale. Il Presidente della Commissione Prodi che ha portato a termine l’allargamento ai paesi dell’Est europeo è stato aspramente criticato perché invece di allargare avrebbe dovuto cercare di approfondire il quarto obiettivo. I critici trascurano che questo era obiettivo precipuo del Consiglio europeo. 
Nel dicembre 2001, il Consiglio europeo di Laeken affida ad una Convenzione la redazione di un Trattato costituzionale. Dopo circa due anni di lavoro, il testo viene consegnato il 18-07-2003 da Giscard D’Estaing Presidente della Convenzione a Silvio Berlusconi in qualità di Presidente del Consiglio europeo. Successivamente viene firmato il Trattato costituzionale di Roma il 29-10-2004. Sottoposto a referendum il Trattato viene approvato da 11 PM su 25.  Effetti devastanti ha avuto la bocciatura da parte della Francia e dell’Olanda nel 2005 che avevano indetto referendum popolari. Nella pubblicistica di allora ebbe grande influenza la paura dell’”idraulico polacco” e/o della liberalizzazione dei servizi secondo la bozza di direttiva Bolkenstein allora solo allo studio – poi approvata il 12-12-2006.
Nel merito del Trattato costituzionale è significativa l’affermazione - senza se e senza ma - dei diritti fondamentali, meno decisa quella dei diritti sociali.  
Attuazione dell'euro 2002. In Italia sappiamo com’è andata: al di là del tasso di cambio concordato c’è stato un aumento generalizzato dei prezzi interni, in alcuni casi, raddoppiati. Il Governo Berlusconi in concorrenza con la sua impostazione neoliberista non ha messo in atto alcuna politica di controllo dei prezzi. Colpa dell’euro?
Trattato sul funzionamento dell'Unione europea TFUE, alias, Trattato di Lisbona 2009 che, in buona sostanza, incorpora Trattati di Roma, di Maastricht, la Carta di Nizza e gran parte della Trattato costituzionale del 2004.
Dopo lo scoppio della crisi mondiale 2007-2010[6], si afferma il metodo intergovernativo che produce il Fiscal Compact 2012 e altri regolamenti tutti mirati alla difesa dell'acquis communautaire, dell'euro, al coordinamento delle politiche economiche[7]. 
Nel 2011 si procede alla modifica del PSC con un nuovo regolamento il n. 1175/2011. Sinteticamente non ci sono grandi innovazioni di metodo ma l’introduzione di meccanismi molto più rigorosi e precisi per applicare le regole del precedente PSC (1997). Prima ancora (il 25-03-2011) con il pacchetto Europlus si individuano i punti essenziali per promuovere la competitività della zona-euro.  Nel Patto “rivisto” si introduce una regola relativa alla riduzione del debito (un ventesimo all’anno della differenza tra il 60% e il dato corrente che per l’Italia comporterebbe una riduzione di qualcosa come 50 miliardi all’anno per venti anni), ritenuta da molti esperti inapplicabile. 
L’assurdo del PSC è che l’unico parametro del deficit strutturale, ossia, il deficit ammesso e calcolato per tener conto del ciclo economico e di eventi inconsueti[8] (sic!) oppure periodi di grave recessione economica – proprio quella che stiamo attraversando dal 2008 e da cui non riusciamo a uscire – debba governare due fenomeni diversi: il primo il deficit di breve e medio periodo (4-5 anni); il secondo il debito accumulato nei decenni precedenti e quindi fenomeno di lungo termine. Alcuni economisti propongono una regola a parte e più appropriata per il debito pubblico, essendo chiaro che, senza crescita economica o con crescita negativa come l’abbiamo avuto negli ultimi dieci anni, anche lo stesso debito in termini assoluti fa crescere il rapporto percentuale – ammesso e non concesso che detto rapporto sia appropriato.  Formalmente i venti anni della nuova regola per il debito sono un periodo lungo ma per ridurre in maniera sostanziale il grosso fardello del debito servirebbero tassi di crescita nell’ordine del 6-7% all’anno – chiaramente non alla portata di un paese in declino economico e demografico. L’altra soluzione sarebbe un’alta inflazione strutturale che produrrebbe il c.d. ammortamento del debito pubblico.  Intanto detta via è vietata dallo Statuto della BCE e non sarebbe neanche auspicabile per un Paese come l’Italia.
Durante e dopo le fasi più acute della crisi, la difesa del cambio dell’euro è divenuto la camicia di forza che impedisce le svalutazioni competitive a cui erano adusi governanti e imprese italiani nei precedenti decenni a scapito dei lavoratori e dei più deboli. Impedisce soprattutto l’indebitamento pubblico per lasciare un congruo programma di investimenti pubblici che fungerebbe da traino anche per quelli privati.
Dal punto di vista dell’economista, il problema dell’euro non sta nell’essere una moneta unica ma nella gestione del suo cambio e, dopo il 2008, nel suo collegamento con la disastrosa politica dell’austerità e/o del risanamento forzato dei conti pubblici in una fase del ciclo che richiedeva una politica espansiva come, tempestivamente, è stata adottata negli USA a partire dal 2008. Il problema sta ancora nella ricetta unica uguale per tutti come prevede la politica monetaria totalmente accentrata in testa alla BCE, nel mancato coordinamento delle politiche fiscali restrittive e politica monetaria espansiva. E tuttavia, nei PM ad alto debito, nella impossibilità di utilizzare la liquidità abbondante che il quantitative easing, adottato tardivamente, ha messo a disposizione, ma in grossa parte utilizzata dalle banche per comperare titoli pubblici. In una prima fase (2008-12) della crisi il mix di politica monetaria e fiscale restrittiva e il cambio forte dell’euro hanno depresso la domanda interna per consumi e investimenti. Nella seconda fase (dal 2013 a oggi), la politica monetaria espansiva è stata in parte neutralizzata dalla politica fiscale restrittiva e dai limiti all’indebitamento imposti dal Patto di stabilità e crescita riformato con il regolamento n.1175/2011. Negli ultimi anni, il cambio dell’euro è stato lasciato cadere e ha prodotto un enorme surplus commerciale per la Germania e, da ultimo, anche per l’Italia[9]. Ma la svalutazione del cambio dell’euro si è aggiunta alla svalutazione interna di prezzi e salari ha depresso ulteriormente la domanda. Ha consentito la crescita delle esportazioni di alcuni PM ma non è minimamente sufficiente per sostenere gli investimenti, i consumi e la crescita senza i quali il problema del debito pubblico non può essere risolto. Se il problema di fondo dell’Italia è la bassa produttività e l’alta disoccupazione non bastano gli incentivi alle imprese e i bonus ai lavoratori con redditi medio-bassi. Serve una politica economica e finanziaria espansiva, ossia, di segno opposto a quella messa in atto fin qui ed un uso più intelligente della golden rule pure prevista nel Patto di stabilità e crescita ma fin qui applicata con metodi da Torquemada.
Osservazioni e prime valutazioni di insieme.
Si tratta di un progetto di successo in tempi di pace come mai visto nella storia dell’umanità se si tiene conto che l’Impero Romano e quello mongolo di Gengis Khan sono stati costruiti con la violenza e la forza delle armi.
Ciò posto, è chiaro che a partire dalla metà degli anni 1980, dopo l’arrivo della Thatcher in Inghilterra (1979) e di Reagan negli Stati Uniti (1981) e, soprattutto, dopo il fallimento dell’esperimento francese degli anni 1981-83, prevalgono in Europa le politiche neoliberali e mercatiste. A causa anche dell’inadeguatezza delle istituzioni sovra-nazionali ad affrontare i complessi problemi della globalizzazione, i governanti europei di turno di destra e di sinistra, tutti in preda a rigurgiti nazionalistici, hanno trovato comodo farsi governare dalle “leggi” del mercato e dalle soft law (protocolli allegati ai Trattati, raccomandazioni, ecc.) che organismi senza diretta legittimazione democratica assumono per riempire il vuoto che i Parlamenti e i governi nazionali non vogliono o non possono riempire[10]. Il metodo funzionalista viene sostituito con quello intergovernativo.
Negli ultimi quindici anni si sono cumulati l’accelerazione della globalizzazione e della innovazione tecnologica, la crisi economica, le migrazioni sempre più consistenti dovute anche alle guerre nel Medioriente, alla guerra civile in Siria alle rivoluzioni arabe, al terrorismo internazionale. La finanza rapace che ha costruito un rischio sistemico e causato la crisi è riuscita a fare in modo che il debito delle banche fosse scaricato sui bilanci dell’operatore pubblico rendendo più difficile ed iniqua la soluzione. Sono aumentate le diseguaglianze e la disoccupazione che nella UE ha toccato i 25 milioni di lavoratori con circa 120 milioni di persone a rischio di povertà con forte incremento delle tensioni sociali. Sono aumentate anche le tensioni politiche tra i PM. Di conseguenza si è determinata una grande sfiducia tra di essi per cui si è fatto sempre più frequente il ricorso ai c.d. Trattati intergovernativi come veicolo per imporre a tutti i PM le decisioni della maggioranza neoliberista del Consiglio europeo (uno per tutti, il famigerato Fiscal Compact). Non poteva sorprendere che il gradimento rispetto alle recenti politiche europee crollasse ai livelli più bassi. A ciò ha contribuito una classe politica europea miope e di basso livello che, all’uscita, da ogni vertice indice conferenze stampa paese per paese e rivolgendosi ai propri elettori, in sintesi afferma: “l’Europa ce l’ho impone” gettando fango e discredito su se stessa e anche sulle decisioni a volte corrette che vengono assunte.
Poca convergenza e poca crescita nei paesi euromediterranei; mancata crescita del reddito e della occupazione; scarsa o comunque insufficienza del superamento degli squilibri territoriali tra le aree centrali e quelle periferiche e. soprattutto, l’applicazione rigorosa della politica dell’austerità e delle ricette neoliberiste nel mezzo della più grande crisi del ventunesimo secolo alimentano legittimamente la sfiducia nelle istituzioni europee.
Per un’analisi corretta della situazione occorrerebbe capire che non c’è un alcuna identificazione naturale o nesso comunque necessario tra euro (una moneta unica) e le politiche dell’austerità. Il dollaro USA ha visto e conosciuto politiche economiche ben diverse nella sua storia.
A maggior ragione, bisogna evitare di identificare le istituzioni fondamentali della democrazia europea che vanno potenziate e rese più responsabili (accountable) con i governanti di turno, com’è in parte inevitabile per via della presenza incestuosa del Consiglio europeo.  E’ alto il rischio di buttare via il bambino (il progetto europeo e il percorso già fatto) con l’acqua sporca.  In altre parole, si tratta di distinguere tra il progetto di integrazione europea e l’acquis communautaire che conservano tutta la loro validità e i problemi gravi che l’UE non riesce a risolvere come la crisi economica, gli squilibri territoriali, l’immigrazione, la sicurezza interna, la lotta al terrorismo internazionale e la pace nel Mediterraneo.
 
 
 




[1] Le tensioni erano dovute alla deteriorazione delle ragioni di scambio tra paesi ricchi e quelli in via di sviluppo, agli squilibri tra gli stessi paesi più industrializzati e, in via secondaria, anche alla posizione della Francia che chiedeva un sistema fondato sulla riserva aurea e, per questo motivo, quando accumulava una certa quantità di dollari ne chiedeva l’equivalente in lingotti d’oro. Come noto, il sistema di Bretton Woods prevedeva due monete chiavi: Il dollaro e la sterlina ma solo il dollaro era convertibile in oro.
[2] Conferenza di Venezia 1972 su industria e società; successivamente viene istituito il Fondo per la politica regionale a partire dal 1973. Arriva il primo shock petrolifero: autunno 1973. Seguono una serie di svalutazioni competitive da alcuni definite “sporche” perché miravano, da un lato, a conquistare margini di competitività sui mercati esteri e, dall’altro, a comprimere la domanda interna. In molti paesi si sviluppa una pesante situazione di stagnazione con tassi di inflazione a due cifre.
 
[3] In quel periodo, lo spread toccava livelli pari a quelli del 2011-12.
[4] A metà degli anni 1970 si pone il crinale teorico culturale, da un lato, della fine dei “trenta gloriosi” (1945-75) dell’economia ad alti tassi di crescita e di occupazione e del trionfo del welfare state, dall’altro lato, del trionfo della scuola monetarista di Chicago (Milton Friedman) secondo cui i fallimenti dello stato erano più gravi di quelli del mercato e, di conseguenza, bisognava ridurre il perimetro dell’intervento pubblico nell’economia per migliorare la sua efficienza allocativa. Secondo detta scuola, la stag-flation era dovuta all’eccesso di spesa pubblica finanziata in deficit e ai livelli troppo alti delle imposte necessari per finanziarla. 
 
[5] Basta considerare il lungo cammino (40 anni) che da Torino porta a Nizza attraverso revisioni e ritardate ratifiche dei diversi PM per capire quali resistenze essi hanno frapposto al recepimento formale delle norme. E tuttavia il rafforzamento della funzione sociale dell’Unione resta un obiettivo fondamentale ed ineludibile.   
[6] Va precisato che la crisi finanziaria nasce negli USA con l’utilizzo spregiudicato delle cartolarizzazioni e dei prodotti derivati a ondate successive che ha creato il c.d. rischio sistemico (mondiale) e, quindi, una quantità enorme di prodotti assicurativi inesigibili, ossia, di indennizzi che non potevano essere e non sono stati pagati dalle banche dei principali paesi occidentali e da alcune assicurazioni. In nome della stabilità finanziaria i governi hanno salvato le banche e trasformato i debiti delle banche in debiti pubblici. Nel giro di 1-2 anni, per via delle forti restrizioni creditizie la crisi si trasmette all’economia reale producendo a livello mondiale un forte caduta del PIL  nel 2009 e una perdita di posti di lavoro stimata dall’ILO nell’ordine dei 100 milioni di unità. Il Presidente Obama reagisce con una politica fiscale espansiva, accomodata  con tanta liquidità dalla FED (la banca centrale americana), evitando una seconda recessione. L’UE fa esattamente il contrario adottando una politica fiscale fortemente restrittiva e, come avevano previsto centinaia di economisti, cade nella seconda recessione del 2012 da cui esce faticosamente anche per via del ritardo con cui la BCE adotta una politica monetaria veramente espansiva come il quantitative easing.  
[7] Va precisato che, sul piano tecnico-formale, non è il Fiscal Compact che introduce nelle regole europee le misure più restrittive dell’equilibrio di bilancio (saldo strutturale di bilancio di medio termine) ma il regolamento n. 1175/2011 citato che riforma il Patto di stabilità e crescita del 1997. Il Trattato intergovernativo noto come Fiscal Compact è stato lo strumento giuridico formale con il quale il Consiglio europeo ha costretto i PM a immettere nelle loro costituzioni le nuove regole di bilancio armonizzate. In questi termini, il Fiscal Compact ha raggiunto la sua missione ed è finito. Quando nella pubblicistica si dice che la Germania vorrebbe mettere il Fiscal Compact nei Trattati, in pratica si intende dire che vorrebbe scrivere la nuova disciplina di bilancio contenuta nel regolamento sopra citato direttamente nei Trattati rendendo più complessa e lenta una eventuale ipotesi di modifica.  Invece allo stato attuale della legislazione europea, se si volessero modificare dette regole bisognerebbe esercitare pressioni innanzitutto sul Parlamento europeo, sul Consiglio europeo e, quindi, sui governi dei PM e, non ultimo, sulla Commissione europeo. Per modificare il regolamento 1175/2011. In pratica, se ci fosse il consenso, non servirebbe un altro Trattato intergovernativo. E’ stato osservato da più parti che in molti paesi, le regole sostanziali e quelle procedurali sono contenute in leggi ordinarie.
[8] Nei manuali tradizionali di scienza delle finanze prima della rivoluzione keynesiana la finanza straordinaria veniva giustificata con eventi come le calamità naturali o la guerra. Dopo Keynes si enfatizza la necessità di smussare le oscillazioni del ciclo economico.  
[9] Il surplus commerciale dell’Italia ovviamente è ben diverso da quello della Germania. È dovuto alla bassa crescita dell’economia e, quindi, al minor bisogno di importare materie prime, prodotti semilavorati e beni di consumo.
[10] In diritto, è ben diverso il caso del Parlamento europeo che secondo i Trattati condivide la funzione legislativa con il Consiglio europeo. Il PE ha la diretta legittimazione popolare ma per via della qualità dei suoi componenti e non solo per i poteri che gli assegnano i Trattati, in fatto si lascia mettere con le spalle al muro dal Consiglio europeo. Non ultimo pesa il fatto che il PE decide unitariamente sia per i problemi dell’eurozona che per la Unione allargata.

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