22 luglio 2017

Recensione film: FLORENCE regia di Stephen Frears


 

Con Meryl Streep, Hugh Grant, Simon Helberg, Rebecca Ferguson, del 2016

Musiche di Alexandre Desplat
 
 
 


 
Una magnifica illusione

Tratto da una storia vera, Florence è il secondo film nel giro di un paio d’anni, ad aver stimolato le fantasie di registi cinematografici. Uscito quest’inverno e ripescato in questi giorni in arena, il film presenta una terna di attori strepitosi - Meryl Streep, Hugh Grant, Simon Helberg - sulla cui recitazione  si basa il suo merito.

La versione francese girata nel 2015, si chiamava Marguerite ed era stata diretta da Xavier Giannoli, con interprete Catherine Frot, un’altra fantastica attrice. Trasposta la vicenda a Parigi negli anni Venti, tra le avanguardie futuriste e dadaiste, il film era più pretenzioso e meglio inserito storicamente e geograficamente. Era anche pieno di citazioni cinematografiche come ad esempio quella del servitore tuttofare che asseconda l’illusione dove è esplicito il riferimento al regista Erich von Stroheim in Viale del Tramonto di Billy Wilder.

Qui in Florence, invece, la storia (più fedele all’originale americana) è più teatrale e girata prevalentemente in interni, mentre la città costituisce una mera scenografia. Ambientato a New York nel 1944, Florence Foster Jenkins, protagonista della vicenda – interpretata dalla straordinaria Meryl Streep – è una mecenate e un’appassionata di musica, fondatrice del “The Verdi club” fin dagli anni ‘20. Finanzia associazioni e spettacoli musicali e nutre un grande sogno: quello di cantare come soprano lirico, nonostante sia stonatissima. La dedizione del marito, il devoto ma fedifrago St. Clair Bayfield (un istrionico Hugh Grant) ex attore di non grande successo, cerca di assecondarla nelle sue stravaganze oscurandole la palese realtà del suo mancato talento e delle sue disastrose corde vocali. Anche il maestro di canto e l’accompagnatore al piano Cosmé McMoon (un bravissimo Simon Helberg), ben remunerati dal marito, assecondano i desideri dell’amabile protagonista. Significativa è la frase di St. Clair che, parlando di sé, dirà al pianista: «È stato duro ammetterlo, ma una volta fatto mi sono sentito liberato dalla tirannia dell’ambizione».

Cantare per Florence, oltre a essere una grande passione, è una sorta di terapia che l’ha tenuta in vita nonostante tutto da un male che la affligge da un quarto di secolo: Florence, infatti, aveva contratto la sifilide durante la prima notte di nozze del suo primo matrimonio.

Alla fine Florence Foster Jenkins coronerà il suo sogno di esibirsi al Carnegie Hall, dopo aver affittato il teatro e mandato moltissimi biglietti omaggio alle truppe impegnate nella guerra Mondiale. St. Clair, dunque, ingaggerà una claque numerosa, controllerà l’accesso degli invitati e cercherà di attutirle i colpi della critica sui giornali, ma non riuscirà completamente nel suo intento.

Stephen Frears con questo film si prefigge sia una riflessione sul ruolo dell’arte (distrarre le truppe impegnate al fronte) sia sui privilegi borghesi (cosa non si può comprare con i soldi…) e lo chiude presentando alcune immagini dei protagonisti reali.

"Florence" è girato con garbo e ironia British ma il suo limite, come dicevo in apertura, è proprio nel suo pregio e cioè rimane prevalentemente un pezzo di bravura degli attori. Ciononostante lo si vede volentieri.

 

Ghisi Grütter

 

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