Con
Halit Ergenç, Tuba Büyüküstün, Nejat Isler, Mehmet Günsür, Cigdem Onat, Serra
Yilmaz, del 2017.
Musiche
di Giuliano Taviani e Carmelo Travia.
Rosso Istanbul è un palese omaggio alla
città natale di Ozpeteck, e anche alla stessa madre del regista, donna colta,
borghese ed emancipata. Tratto dal libro omonimo scritto dallo stesso regista
(Mondadori 2013), il film descrive una vicenda un po’ intricata in cui tutti
hanno dei misteri nascosti e tutti soffrono per qualche dolore profondo. Deniz
Soysal (Nejat Isler) è un regista, e anche scrittore, che fa tornare Orhan
dall’Inghilterra per completare la stesura del suo primo libro autobiografico. Orhan
Sahin (Halit Ergenç), che è cresciuto nel quartiere Kalamish (proprio adiacente
a dove è nato Ozpeteck), viene ospitato nella sontuosa villa della famiglia
Soysal rosso melograno (rosso Istanbul?) sulla riva destra, abbastanza vicino al famoso ponte sul Bosforo
a otto corsie, che unisce la parte europea da quella asiatica della città.
Orhan comincia così a conoscere una a una tutte le persone descritte nel libro:
l’amica di Deniz e suo amore adolescenziale Neval (Tuba Büyüküstün), un vecchio
scrittore mondano e di successo, l’amico amante Yusuf (Mehmet Günsür) e perfino
le stravaganti zie di Deniz. Quasi subito, dopo una serata mondana e una nottata
di robuste bevute, Deniz sparisce senza lasciar traccia. Ohran si mette alla
ricerca più che di Deniz, delle motivazioni che lo avrebbero fatto sparire e scopre
man mano vari segreti dell’amico. In una sorta di identificazione, arriverà perfino
ad amare la sua stessa donna e a scrivere una lettera all’uomo da lui amato. Anche
Ohran si porta dentro una sofferenza profonda e i ritagli di giornali tenuti da
parte dall’amico, ci svelano il suo dramma: era fuggito dalla Turchia molti
anni prima perché lui e la moglie, in una serata in cui avevano bevuto un po’
troppo, hanno perso il figlio per incuria (ma non c’è una storia simile anche
in Manchester-by-the-Sea?). Così
Ohran aveva smesso di bere, di fumare e di provare emozioni in generale,
distrutto dai sensi di colpa, incapace a rielaborare il lutto, ed era la prima
volta che tornava a Istanbul dopo la disgrazia. «Se si guarda al passato non si
vede il presente» viene ripetuto più volte nel film. Ma è proprio questo
ri-guardare al passato attraverso lo sguardo Deniz, che gli infonderà coraggio.
Ecco che Ohran comincerà finalmente a riprovare sensazioni, emozioni, a trovare
la forza di incontrarsi con la sorella che lavora ancora nel vecchio negozio di
orologi, che era già stato della sua famiglia, e nel quale era cresciuto.
Istanbul
è una città di quindici milioni di abitanti sulle due rive, maestosa, una grande
megalopoli che Ozpeteck mostra così, con i grandi spazi sul mare, alternando i
grattacieli della parte nuova ai ristorantini all’aperto nei vicoli del vecchio
centro, tra progresso occidentale e cultura orientale. I rumori sono una
costante, ma sembrerebbero essere rumori propositivi, di trivelle e di
costruzioni.
Halit
Ergenç è bravo con il suo sguardo intenso di occhi chiari e così anche Cigdem
Onat, l’affascinante mamma comprensiva di Deniz. Peccato che i dialoghi del
film siano stentati, inutili spiegazioni di sensazioni che sarebbero state
meglio se intuite, che ci sia qualche mistero incomprensibile di troppo, e che tutta
la storia di sofferenze dei ricchi viziati sia in fondo un po’ irritante. Ogni
tanto il regista si ricorda di inserire qualche “cartolina” quale background della vita reale e politica:
le manifestazioni, le Madri del Sabato a Taksim di fronte al liceo Galatasaray,
la fuga dei ricercati.
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