8 marzo 2017

Recensione film: ROSSO INSTANBUL regia di Ferzan Ozpeteck


 

Con Halit Ergenç, Tuba Büyüküstün, Nejat Isler, Mehmet Günsür, Cigdem Onat, Serra Yilmaz, del 2017.

Musiche di Giuliano Taviani e Carmelo Travia.

 



 

Rosso Istanbul è un palese omaggio alla città natale di Ozpeteck, e anche alla stessa madre del regista, donna colta, borghese ed emancipata. Tratto dal libro omonimo scritto dallo stesso regista (Mondadori 2013), il film descrive una vicenda un po’ intricata in cui tutti hanno dei misteri nascosti e tutti soffrono per qualche dolore profondo. Deniz Soysal (Nejat Isler) è un regista, e anche scrittore, che fa tornare Orhan dall’Inghilterra per completare la stesura del suo primo libro autobiografico. Orhan Sahin (Halit Ergenç), che è cresciuto nel quartiere Kalamish (proprio adiacente a dove è nato Ozpeteck), viene ospitato nella sontuosa villa della famiglia Soysal rosso melograno (rosso Istanbul?) sulla riva destra,  abbastanza vicino al famoso ponte sul Bosforo a otto corsie, che unisce la parte europea da quella asiatica della città. Orhan comincia così a conoscere una a una tutte le persone descritte nel libro: l’amica di Deniz e suo amore adolescenziale Neval (Tuba Büyüküstün), un vecchio scrittore mondano e di successo, l’amico amante Yusuf (Mehmet Günsür) e perfino le stravaganti zie di Deniz. Quasi subito, dopo una serata mondana e una nottata di robuste bevute, Deniz sparisce senza lasciar traccia. Ohran si mette alla ricerca più che di Deniz, delle motivazioni che lo avrebbero fatto sparire e scopre man mano vari segreti dell’amico. In una sorta di identificazione, arriverà perfino ad amare la sua stessa donna e a scrivere una lettera all’uomo da lui amato. Anche Ohran si porta dentro una sofferenza profonda e i ritagli di giornali tenuti da parte dall’amico, ci svelano il suo dramma: era fuggito dalla Turchia molti anni prima perché lui e la moglie, in una serata in cui avevano bevuto un po’ troppo, hanno perso il figlio per incuria (ma non c’è una storia simile anche in Manchester-by-the-Sea?). Così Ohran aveva smesso di bere, di fumare e di provare emozioni in generale, distrutto dai sensi di colpa, incapace a rielaborare il lutto, ed era la prima volta che tornava a Istanbul dopo la disgrazia. «Se si guarda al passato non si vede il presente» viene ripetuto più volte nel film. Ma è proprio questo ri-guardare al passato attraverso lo sguardo Deniz, che gli infonderà coraggio. Ecco che Ohran comincerà finalmente a riprovare sensazioni, emozioni, a trovare la forza di incontrarsi con la sorella che lavora ancora nel vecchio negozio di orologi, che era già stato della sua famiglia, e nel quale era cresciuto.

Istanbul è una città di quindici milioni di abitanti sulle due rive, maestosa, una grande megalopoli che Ozpeteck mostra così, con i grandi spazi sul mare, alternando i grattacieli della parte nuova ai ristorantini all’aperto nei vicoli del vecchio centro, tra progresso occidentale e cultura orientale. I rumori sono una costante, ma sembrerebbero essere rumori propositivi, di trivelle e di costruzioni.

Halit Ergenç è bravo con il suo sguardo intenso di occhi chiari e così anche Cigdem Onat, l’affascinante mamma comprensiva di Deniz. Peccato che i dialoghi del film siano stentati, inutili spiegazioni di sensazioni che sarebbero state meglio se intuite, che ci sia qualche mistero incomprensibile di troppo, e che tutta la storia di sofferenze dei ricchi viziati sia in fondo un po’ irritante. Ogni tanto il regista si ricorda di inserire qualche “cartolina” quale background della vita reale e politica: le manifestazioni, le Madri del Sabato a Taksim di fronte al liceo Galatasaray, la fuga dei ricercati.

 Ghisi Grütter

 

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