4 marzo 2017

Recensione film: MOONLIGHT regia di Barry Jenkins



Con Alex R. Hibbert, Ashton Sanders, Trevante Rhodes, Janelle Monàe, Jarrel Jerome, Naomie Harris, André Holland, Mahershala Ali, del 2016.

 



L’altra Miami

 

Il film Moonlight racconta una storia umana e commovente, tratta dall’opera teatrale In Moonlight Black Boys Look Blue di Tarell Alvin McCraney, anche se il regista Barry Jenkins, che ne è anche lo sceneggiatore, è riuscito a non fare sentire troppo la matrice teatrale. Il film è strutturato in tre parti corrispondenti a tre età di Chiron: bambino, adolescente e adulto. A dieci anni Chiron era chiamato da tutti “Little” (interpretato dal delizioso Alex R. Hibbert), era un bimbo timido, molto chiuso e sofferente. La madre (una molto brava Naomi Harris) si drogava e lo trascurava, mentre a scuola era vittima di bullismo. Un giorno mentre scappava dai compagni di scuola incontra Juan (Mahershala Ali), uno spacciatore del quartiere, ma anche una sorta di “gigante buono” che diventerà il suo padrino, gli insegnerà a nuotare e ad affrontare la vita: « a casa mia non ti devi mai sedere con le spalle alla porta, può sempre entrare qualcuno all’improvviso…» gli dice di fronte alla sua bellissima compagna Teresa (Janelle Monàe).

Nel secondo capitolo Chiron, sempre timido e taciturno (interpretato dal bravissimo Ashton Sanders), conoscerà la sessualità con il suo amico e compagno di scuola Kevin (Jarrel Jerome) e reagirà violentemente alle terribili angherie orchestrate dai soliti compagni di scuola omofobi finendo, però, in riformatorio.

La terza parte da Miami si sposta ad Atlanta, Georgia, a distanza di quasi dieci anni, mostra “Black” (altro soprannome di Chiron interpretato da Trevante Rhodes) adulto, apparentemente forte e solido, diventato anche lui spacciatore indisturbato di una vasta zona di Atlanta.

Quest’ultima parte, a mio avviso è stata caricata un po’ troppo. L’esplosione della muscolosità e l’eccessiva preparazione atletica del protagonista – da fragile e mingherlino qual era da bambino e adolescente – e tutta la sua maschera da duro (denti d’oro, catena e pistola) rispetto al suo essere represso nella sua omosessualità e nei sentimenti in generale, rendono questo omaccione un po’ goffo. Per contro, molto belli sono i dialoghi dei due amici imbarazzati che si rincontrano dopo così tanti anni, anche se hanno fatto scelte diverse ed entrambi sono cambiati, ricordano con affetto il passato comune.

Barry Jenkins ci mostra una Miami povera e degradata di Liberty City o di Overtown, un ambiente dove non c’è neanche un bianco (afroamericani, meticci, sudamericani scuri, ecc.), ma solo persone disperate che o sono drogati o sono spacciatori. Moonlight è un film generoso e intenso che tocca vari aspetti della fragilità maschile, del mutamento e della faticosa ricostruzione della propria identità (nel corpo e nell’anima), e mette in evidenza la dicotomia tra l’essere e l’apparire. Anche se è molto ben interpretato da tutti gli attori, non riesce a entusiasmare del tutto come film.

Il regista, appartenente al movimento di cinema indipendente Mublecore, ha aspettato otto anni prima di dirigere il suo secondo film dopo Medicine for Melancholy del 2008. Presentato al festival di Roma 2016, Moonlight aveva già vinto il Golden Globe per il migliore film drammatico, con Mahershala Ali ha vinto lo Screen Actors Guild Award, ha vinto tre statuette all’89mo Oscar: miglior film, migliore sceneggiatura non originale a Barry Jenkins e Tarell Alvin Mc Craney, e miglior attore non protagonista a Mahershala Ali.

 

Ghisi Grütter


 

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