21 ottobre 2017

Recensione film: BLADE RUNNER 2049 regia di Denis Villeneuve


Con Ryan Gosling, Harrison Ford, Robin Wright, Ana de Armas, Silvya Hoeks, Jared Leto, Mackenzie Davis, USA 2017. Fotografia di Roger Deakins. Scenografia Hampton Fancher. Musiche di Jòhann Johannsson, Hans Zimmer, Benjamin Wallfisch.


 


 
La città è la vera protagonista

Non capisco perché i film ormai devono sempre superare le due ore e mezzo, anzi, tendere alle tre. Significa che chi va al cinema, maggiormente giustificato dalla durata, è motivato a comprarsi bottigliette d’acqua, pop corn e patatine, facendo quel terribile rumore di “crick crock” per tutto il tempo del film.  Per evitare tutto ciò sono andata a vedere Blade Runner 2049, di giorno feriale, in una sala cinematografica dove lo proiettavano in originale e gli spettatori erano tutti stranieri. Con grande gioia ho costatato che non ho sentito volare neanche una mosca!

La prima parte di Blade runner 2049 è un po’ troppo lenta e si vivacizza solo quando entra in scena anche Harrison Ford, a due terzi del film. Il film è una sorta di sequel del Blade Runner di Ridley Scott 35 anni fa, considerato capolavoro assoluto da critici e pubblico. La fusione nel primo Blade Runner tra genere poliziesco e fantascienza lo aveva fatto inserire in un nuovo filone, o meglio ha fatto nascere un nuovo genere, e il successo del film aveva superato di lunga quello del libro da cui è tratto.

Nel sequel troviamo l’agente K. (ottima prova di Ryan Gosling) che è un blade runner della polizia di Los Angeles ed è a caccia dei vecchi Nexus, come a suo tempo Rick Deckart/Harrison Ford che andava a caccia di replicanti. Anche qui c’è sempre la Tyrell corporation, la fabbrica che costruisce i replicanti. In Blade Runner 2049 troviamo una figura nuova che è il dott. Niander Wallace (Jared Leto), il progettista di replicanti che fa “lavori in pelle”, assetato di potere e cattivissimo, l’antitesi di K. Questa figura è più in linea con i personaggi di un altro genere di film come i vari 007 o i Batman o i Superman, dove i malvagi fanno da controcanto ai protagonisti. Un altro elemento che mi ha ricordato i film di James Bond è l’introduzione della figura del Tenente Joshi (Robin Wright) agente matura e di grado superiore, che ha per K. un atteggiamento analogo  -e forse un po’ più ambiguo - a quello che ha M. (storicamente interpretata da  Judi Dench) nei confronti di 007.

Ciò che mi aveva colpito a suo tempo nel vecchio Blade Runner, l’ho trovato anche qui: in un futuro remoto super-tecnologizzato sopravvive un vecchio pianoforte aperto con gli spartiti cartacei aperti. Anzi, qui ne ritroviamo anche un altro, nell’ultima parte e in versione a coda, nei resti di un Casinò, reliquia di Las Vegas. Nel film colpiscono tutti gli interni tra la nostalgia del passato e gli Smart-partner virtuali. L’ologramma dell’amata compagna (Ana de Armas) si coniuga con una vecchia pentola per bollire l’acqua su un fornello vintage.

La città ha un’architettura densissima nel suo Central Business District e, anche nel primo Blade Runner, assomiglia quasi più a New York che a Los Angeles, mentre fuori del costruito ci sono solo rovina, morte, gelo. Agghiacciante è l’immagine dell’unico albero morto. «Non lo avevo mai visto!» dice la replicante Mariette (Mackenzie Davis) a K. vedendone una foto. Ciononostante il film è romantico e lo si può anche considerare un inno all’amore. Per le scene, che sono veramente belle, Villeneuve è rivolto a Hampton Fancher, lo stesso del primo Blade Runner - poi sostituito da Ridley Scott. La fotografia di Roger Deakins è sicuramente una dei protagonisti di questo film. Le musiche sono molto suggestive.

 

 

Ghisi Grütter

 

 

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