Riproponiamo la lettura dell'inchiesta del Manifesto di gennaio scorso sugli effetti giudiziari dell'Affittopoli romana. Tanto per ricordarsi delle cifre in ballo e delle responsabilità dell'amministrazione anche alla luce degli effetti nefasti della delibera 140 approvata durante l'amministrazione Marino e scritta sotto dettatura della Corte dei Conti. che si sta abbattendo come una scure su associazioni , enti pubblici benemeriti, organizzazioni di volontariato, centri sociali e di volontariato
I beni di Roma Capitale
La guerra dei Commons di Roma
Roma Capitale. Parte tra pochi giorni la prima batteria di processi (70 finora le citazioni in giudizio) che la Corte dei Conti ha istruito sulle irregolarità nella gestione dei beni comunali in concessione, chiamando gli amministratori a rispondere personalmente del presunto danno erariale. 100 milioni di euro, la cifra monstre che incombe su 5 dirigenti. Circa 989 spazi classificati «indisponibili»: destinati a enti e funzioni non profit.
di Stefano Simoncini (pubblicata su "il manifesto" del 15 e 22 gennaio 2017)
Cento milioni di euro. È questa la cifra monstre del danno erariale che incombe su 5 dirigenti capitolini a cui è toccata la cattiva sorte di amministrare negli ultimi 10 anni una porzione significativa dell’immenso patrimonio immobiliare del Comune di Roma. Partirà infatti a metà gennaio, a seguito dello scandalo «Affittopoli», una prima batteria di processi (sono 70 finora le citazioni in giudizio) che la Corte dei Conti ha istruito sulle irregolarità nella gestione dei beni comunali in concessione, chiamando gli amministratori a rispondere personalmente del presunto danno erariale.
Parliamo dei circa 989 spazi che sono classificati dall’amministrazione come «indisponibili» in quanto destinati a funzioni istituzionali, sociali e culturali tramite concessioni a enti e associazioni non profit con un canone ribassato dell’80% rispetto al valore di mercato, o in comodato gratuito. E si distinguono per questo dai beni «disponibili», che sono invece destinati alla messa a reddito tramite locazioni ordinarie e dismissioni. Per decenni questi spazi, come il resto del Patrimonio, sono stati gestiti dal Comune in modo opaco e approssimativo, e tuttavia soltanto oggi, tanto tardivamente quanto inflessibilmente, la Corte dei Conti, avendo rilevato a suo dire un’«indistinta congerie di situazioni di assegnazione irregolari», tra occupazioni senza titolo, morosità, canoni mai aggiornati, contratti scaduti o mai perfezionati, ha deciso di calcolare, fascicolo per fascicolo, l’intero danno erariale che si presume provocato dalla mala gestione.
Se guardiamo a questa situazione attraverso la lente deformante della sterminata crisi romana, si potrebbe ritenere che un organo di controllo centrale stia legittimamente cercando di ricondurre nella legalità il capitale patrimoniale di un ente locale da tempo sprofondato nell’inefficienza e nella corruzione. In realtà, analizzando più a fondo la questione, i conti della Corte non tornano per nulla. Innanzitutto perché le istruttorie – ne sono state avviate 230 in due anni – prendono di mira solo gli amministrativi, tutte donne (a cui per inciso si mortifica il diritto alla difesa in ragione del ritmo forsennato delle procedure attivate). Facendo perciò salvi sia i decisori politici, tutti uomini, a cui le dirigenti a ragione o a torto rispondevano, sia la Romeo Gestioni Spa, che dal 1997 al 2015 ha condotto in outsourcing la gestione amministrativa e tecnica del Patrimonio comunale.
Una scelta singolare che deresponsabilizza la testa e la mano degli eventuali abusi, andando a colpire solo lo strumento, l’amministrazione. E risulta ancora più strana se si punta la lente sul rapporto di Romeo con la politica. L’imprenditore Alfredo Romeo, tra i maggiori finanziatori di Renzi nel 2013, è sotto inchiesta per corruzione relativa a un maxiappalto Consip, la centrale acquisti del Mef, che vede ora coinvolto un renziano doc come Luca Lotti, sospettato insieme ad alcune delle più alte cariche dei Carabinieri di essere tra i responsabili della «fuga di notizie» volta a neutralizzare le intercettazioni ambientali predisposte dalla procura di Napoli negli uffici del Consip.
Che siano vere o no le accuse, sorge il legittimo dubbio che nella defenestrazione renziana di Marino abbia giocato un ruolo di qualche rilievo l’iniziativa del vicesindaco Luigi Nieri volta a estromettere Romeo dalla gestione del Patrimonio mediante l’indizione di un nuovo appalto, a reinternalizzare il sistema informativo e a impedire che si affidasse alla sua impresa l’esecuzione delle alienazioni previste, nonostante la strenua resistenza della maggioranza Pd in consiglio.
Ma i conti non tornano soprattutto perché la Corte, senza distinguere tra buoni e cattivi “inquilini”, e senza entrare nel merito dell’interesse pubblico delle rispettive attività, sta valutando le concessioni con un approccio rigidamente giuridico-formale. Infatti il procuratore Guido Patti, che conduce tutte le istruttorie, sta facendo leva su un mero vizio procedurale per considerare nulle ab origine gran parte delle concessioni. Il problema è legato alla complessità degli iter burocratici, che a partire da una preassegnazione decisa in genere dall’assessore, prevede un giro complesso di pareri degli uffici e in ultimo l’approvazione del consiglio.
Ora, il vizio di quasi tutte le concessioni è dovuto al fatto che quasi nessuna è stata perfezionata nel termine dei 120 giorni previsti da Regolamento comunale a partire dall’ordinanza di preassegnazione, sia perché gli uffici non erano in grado di controllare i tempi tecnici di un iter così articolato, sia perché la politica in alcuni casi poteva avere interesse a rallentarlo per non dare pubblicità alle proprie relazioni clientelari. La magistratura contabile potrebbe valutare l’eventuale dolo dell’irregolarità attraverso la verifica della sostanziale legittimità della concessione dal punto di vista dell’interesse pubblico, ma preferisce considerare nulli tutti i contratti, e conseguentemente tutti gli sconti accordati sul valore di mercato. In questo modo, oltre a rendere morosi e occupanti abusivi anche coloro che hanno sempre pagato regolarmente e svolgono attività validissime, la Corte intima ai dirigenti di restituire di tasca propria gli sconti illegittimi, calcolati sul valore di mercato e per l’intero periodo di utilizzo degli spazi. E poiché si reputano responsabili anche i dirigenti che, secondo la magistratura contabile, avrebbero dovuto adoperarsi per la riacquisizione degli spazi, i dirigenti attuali sono costretti a difendersi firmando a occhi chiusi diffide al rilascio e determinazioni di sgombero nei confronti di tutti i concessionari attenzionati dalla Corte.
Appare così evidente che questo impianto accusatorio basato su un cavillo burocratico si sta trasformando in un’arma puntata alla tempia degli uffici per fare tabula rasa di tutte le concessioni, quasi che si volesse cancellare la fonte stessa del presunto danno, identificata nel patrimonio indisponibile.
Tra i principali argomenti della difesa di fronte al giudice contabile (presso il quale si è svolto finora un solo giudizio) vi è la constatazione che «una volta individuato un determinato bene immobile come destinato a sostegno delle attività delle associazioni del terzo settore, a meno che non sopravvenga la necessità per l’Amministrazione di rientrarne in possesso per finalità pubbliche, il bene destinato alle associazioni anche se, per motivi diversi, dovesse restare libero da persone e cose non perciò potrebbe essere automaticamente messo sul mercato per conseguire il maggior canone possibile». Una argomentazione che evidentemente smonta la scelta di parametrare il danno erariale non sulla effettiva produzione di valore sociale ma sulla mancata messa a reddito, incompatibile con lo statuto “indisponibile” dei beni in questione.
Un criterio che, oltre a innescare l’arma del dispositivo accusatorio responsabile di fare tabula rasa delle concessioni, afferma la priorità della redditività del Patrimonio sulla sua destinazione sociale, appropriandosi di una prerogativa esclusiva dell’ente locale. Poiché l’unica sentenza passata finora in giudicato ha sostanzialmente avallato l’impianto di Patti, senza mai citare la famigerata delibera 140 di Marino, che molti reputano a torto la causa scatenante della guerra agli spazi sociali, mentre non è altro che un maldestro e superfluo tentativo di arginare l’azione già avviata della Corte. Poiché ordinanze e sentenze del Tar stanno rigettando i ricorsi alle diffide del Comune, e da luglio scorso sono già stati eseguiti due sgomberi (i club musicali Init e Brancaleone), anche se l’impulso finora è partito dalla magistratura ordinaria e non direttamente dal Campidoglio, la conseguenza più probabile è che, insieme ai furbetti di «Affittopoli», sarà spazzato via un vasto e sano tessuto di produzione culturale e cooperazione sociale della città, tra teatri, istituzioni musicali, centri sociali e culturali, asili nido, centri di assistenza psichiatrica, sportelli antiviolenza per le donne, scuole e palestre popolari ecc.
Una legalizzazione a colpi di scure che, in una città già messa a dura prova, rischia di comprometterne ulteriormente la coesione sociale, palesandosi come un rimedio di gran lunga peggiore del male che si vorrebbe curare.
In merito alla vicenda delle concessioni irregolari di beni immobili del Comune, un fatto sembra acclarato. Il procuratore della Corte dei Conti Guido Patti sta investendo l’amministrazione capitolina con un treno di istruttorie (a oggi 230) e citazioni in giudizio per danno erariale (ne partono a breve 70) la cui destinazione finale è lo svuotamento dagli “inquilini” di tutto il patrimonio “indisponibile” (ovvero inalienabile) in concessione. Per comprendere le finalità della sua azione occorre capire meglio come funziona la città parallela di «Affittopoli».
Il male lo conosciamo, è stato propalato in due ondate mediatiche successive. La prima a febbraio del 2015, quando è servito a screditare Marino subito dopo l’esplosione di Mafia Capitale, e poi circa un anno dopo, quando è servito a legittimare il commissariamento di Tronca. Giornali e televisioni hanno così rimestato nel calderone degli abusi e delle negligenze capitolini, andando a caccia di «canoni ridicoli», come i 13,43 euro al mese a piazza Navona o i 7,75 euro a Borgo Pio, di occupazioni senza titolo, come l’attico di via del Colosseo occupato da un avvocato della Corte di Cassazione, o le concessioni fiabesche, come la casa dei cavalieri di Rodi affacciata sui Fori imperiali in uso esclusivo all’Ordine di Malta per 1 euro al mese, o la splendida Casina del Curato del XIV secolo assegnata, con ristorante annesso, a un fantomatico Circolo della Pipa.
Oltra al merito di aver scoperchiato il calderone, l’approccio scandalistico ha avuto tuttavia il torto di demonizzare in modo acritico l’amministrazione e di fare di tutta l’erba un fascio di concessioni e locazioni. Sul versante amministrativo non sono stati considerati ad esempio i tentativi di riforma, a partire dalla creazione del sistema informativo patrimoniale che dal 2000 è stato oggetto di varie implementazioni, fino alla reinternalizzazione del sistema per la gestione contrattuale, contabile, manutentiva attuata da Marino e Nieri. Si sarebbe forse capito che quella dei sistemi informativi è una partita decisiva, come emerge chiaramente dalla testimonianza difensiva di un dirigente all’unico processo svoltosi finora davanti alla Corte, quando afferma di aver pagato «con l’allontanamento e il trasferimento ad Ostia», disposto dall’allora Assessore Antoniozzi, «la richiesta di addivenire ad una adeguata revisione di tutta la procedura de qua anche attraverso la sua informatizzazione». La sua testimonianza svela il cuore del congegno politico-amministrativo che ha garantito la deregulation del Patrimonio a favore di una totale discrezionalità politica. L’opacità e l’inefficienza non sono frutti amministrativi di cui ha goduto indirettamente la politica. Sono frutti dell’albero della politica.
Ma un altro aspetto che lo scandalo ha contribuito ad oscurare è l’altra faccia del Patrimonio, quel capitale sociale diffuso e sano che, nonostante la mala gestio, è fortemente presente all’interno dei beni in concessione. Potremmo definirlo il paradosso del patrimonio romano, che si può spiegare solo in un modo: la deregulation della discrezionalità politica ha aperto spazi di informalità che da un lato hanno consentito la pratica clientelare, dall’altro hanno favorito la crescita di un laboratorio diffuso di cooperazione parzialmente slegata dalle logiche di mercato. Per dirla con una metafora, il patrimonio ha funzionato da “terzo paesaggio” sociale, un campo “incolto” che ha preservato la (bio)diversità rispetto alla progressiva e omologante mercificazione dello spazio e delle relazioni urbane.
Uno snodo fondamentale è la delibera 26 del primo Rutelli (1995), che ha consentito la regolarizzazione di molte occupazioni, innestando nel tronco delle concessioni un ramo della cultura dei movimenti. Con tutti i suoi limiti quella delibera, vista da sinistra come una sorta di tradimento, faceva in realtà del bene pubblico uno spazio di autoproduzione aperto agli usi collettivi, e non più soltanto un bene da concedere al non profit in uso esclusivo. Un’eredità importante di cui si sta facendo interprete «DecideRoma», la rete cittadina di spazi sociali che, ispirandosi alle esperienze delle “città ribelli”, da Napoli a Barcellona, oltre a coordinare azioni legali e di protesta contro gli sgomberi indiscriminati, ha intrapreso un percorso partecipativo finalizzato, attraverso una serie di assemblee pubbliche, alla scrittura collettiva di una carta costituente per l’autogoverno dei beni comuni urbani.
Il limite dei movimenti è stato in passato quello di praticare il confronto e il conflitto con le istituzioni soprattutto per creare e difendere gli spazi “liberati”, prendendo parte in una certa misura a un modello negoziale e distributivo delle risorse che con una mano sosteneva movimenti e associazioni e con l’altra garantiva rendite di posizione a palazzinari e speculatori di vario genere. Fedeli al principio dell’informalità, hanno in parte rinunciato a promuovere nuove regole che, riformando il sistema, rendessero accessibili e produttive le risorse per la collettività. DecideRoma oggi parla invece della necessità di creare dal basso “nuove istituzioni”, e sulla «guerra dei commons di Roma» coglie nel segno denunciando quelle tendenze alla centralizzazione che privilegiano i criteri di economicità, e quindi la messa a reddito e dismissione del Patrimonio, in un’alleanza verticale tra politiche di rigore europee e governative, legalità formale e interessi privati.
È chiaro a questo punto che la Corte dei Conti, ignorando completamente l’evidenza che il Patrimonio romano ha come peculiarità fondamentale quella di “contenere” due distinti valori, il capitale immobiliare e il capitale sociale sano che lo abita, in nome di un presunto danno erariale, sembra proprio stia producendo danni molto concreti e attuali. Infatti il settore delle concessioni è passato da 6 milioni di entrate nel 2015 a 1,2 milioni nei primi sei mesi del 2016, con una perdita stimabile di 3,6 milioni anno, mentre si sta mandando in fumo il valore economico corrispondente alle esternalità positive e all’impatto sociale dei servizi, del lavoro e dei beni prodotti dalle realtà minacciate di sgombero. Senza contare che in prospettiva si potrebbe produrre un altro danno difficilmente stimabile qualora il patrimonio, com’è probabile, venisse abbandonato per anni dopo gli sgomberi.
Ci si chiede perciò perché la Corte dei Conti persegua questi obiettivi apparentemente antieconomici. Il procuratore Patti interpreta come fonte del danno le concessioni a fini sociali in quanto tali, e allo stesso tempo, come ha spiegato in un suo saggio, «spoglia l’amministrazione del potere di decisione autonoma» col solo scopo di arrivare all’«eliminazione della fonte» del danno. Perciò, coerentemente con la sua decisione di considerare prioritaria la messa a reddito dei beni, persegue lo svuotamento del patrimonio “indisponibile”, rendendolo di fatto “disponibile”. Si tratta di una autentica “spoliazione” dell’autonomia dell’ente locale e delle sue prerogative politiche di decisione sulle destinazioni più opportune dei beni in funzione dei bisogni e delle politiche di sviluppo del territorio.
Ma la Corte dei Conti in questo modo non fa altro che seguire le direttive del Mef e delle leggi finanziarie degli ultimi anni che impongono agli enti locali la dismissione del loro capitale patrimoniale come leva prioritaria per abbattere il debito pubblico e per rispettare i vincoli di finanza come il patto di stabilità. Un’azione che appare coerente con la tendenza generale a una verticalizzazione dei poteri che sottrae autonomia agli enti locali forzandoli a criteri economicisti e neoliberisti volti a spogliare i territori di beni e servizi pubblici per metterli nelle mani dei privati.
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(Mappa interattiva del patrimonio immobiliare di Roma. Dati raccolti da Stefano Simoncini, elaborazioni ReTer)
Considerato nel suo insieme, il Patrimonio di Roma Capitale è una città nella città molto grande, dell’estensione di un medio comune italiano, come Bologna per intendersi. 14.090 ettari di superficie per 50.499 beni immobili unitari, tra terreni, parchi, giardini, monumenti, palazzi, ville, casali, appartamenti, scuole, centri sportivi, mercati, locali commerciali, capannoni, officine, box, cantine.
La maggior parte di questi beni, l’84 per cento circa (42.455 beni unitari), fa parte dell’edilizia residenziale pubblica, sono cioè case popolari alla Corviale, con un sistema di gestione afflitto da problemi enormi, dovuti perlopiù a carenza di manutenzione e assenza di controlli. Quando si parla di «Affittopoli» ci si riferisce soprattutto al “patrimonio disponibile”, alloggi e locali commerciali destinati alla messa a reddito (rispettivamente 1,92% e 1,19% del totale), e al “patrimonio indisponibile” assegnato in concessione a fini sociali e istituzionali (1,61%).
Due componenti che complessivamente rappresentano il 4,7 per cento dell’intero patrimonio (circa 1700 beni unitari). Una città perciò più piccola, ma non per questo trascurabile, in quanto il conteggio per beni unitari (che vanno da singole cantine a interi palazzi) è fuorviante, e dei 989 beni del patrimonio indisponibile in concessione, ben 180 sono interi fabbricati o porzioni di fabbricato, e spesso anche di grande pregio.
(Grafici elaborati da Giovanni Renzi e Davide Rossidoria)
Tra le realtà associative e culturali che animano il Patrimonio non mancano situazioni di abuso o di attività per lo più economiche, ma prevalentemente esse costituiscono un diffuso e radicato capitale sociale, e sono spesso delle vere eccellenze “storiche” nel contesto capitolino. Parliamo di realtà come l’Accademia Filarmonica Romana, istituzione concertistica tra le più antiche e illustri d’Italia, o come il Grande cocomero, centro riabilitativo per i ragazzi di Neuropsichiatria Infantile del Policlinico Umberto I nato oltre 20 anni fa da un’idea del celebre neuropsichiatra Marco Lombardo Radice, o ancora il Celio Azzurro, nota scuola d’infanzia dedicata all’inclusione multiculturale, o l’associazione A Roma Insieme, fondata 24 anni fa da Leda Colombini, storica figura del Pci romano, che si occupa dei bambini che vivono nel carcere di Rebibbia con le madri e del reinserimento di queste ultime. E poi ancora la storica Casa dei Diritti sociali di via Giolitti, Viva la Vita onlus che da molti anni si occupa di malati di Sla, il centro Ararat all’ex Mattatoio di Testaccio, associazione della comunità curda, insieme a centri sociali come il Rialto Sant’Ambrogio, l’atelier Esc a San Lorenzo, Auro e Marco a Spinaceto, il Csa La Torre su via Nomentana, la Palestra popolare di San Lorenzo, l’ex casale Falchetti a Centocelle, il Laboratorio Sociale Autogestito 100celle, lo spazio sociale 100celleaperte, il Csoa Corto Circuito a Cinecittà.
Come si vede dalla mappa che qui pubblichiamo con i dati di gestione, in buona parte inediti, (interattiva online sul sito de il manifesto, elaborazioni ReTer) il Patrimonio immobiliare del Comune è disseminato un po’ su tutto il territorio della città metropolitana. Si possono distinguere (layer «concessioni minacciate») le concessioni a rischio per l’azione della Corte dei Conti, che sta inducendo l’amministrazione a convertire in determine di sgombero tutte le istruttorie per danno erariale (230 a oggi).
(Grafici elaborati da Giovanni Renzi e Davide Rossidoria)
Il patrimonio si divide in indisponibile in concessione (con dati inediti su tutte le concessioni, compresi beneficiari, canoni e morosità al 30/11/2013); patrimonio disponibile a uso residenziale; centri sportivi in concessione. Da notare la prevalente irregolarità delle posizioni, attestata dai 510 contratti «non presenti agli atti» su 861 (59%), trattandosi probabilmente di procedure non perfezionate. Come particolarmente significativa è pure la composizione dei beneficiari con due nuclei forti: il non profit, tra associazioni, enti pubblici ed enti ecclesiastici (39%), e la voce «altro» (41%), che comprende locali per attività commerciali e produttive, ma anche alloggi ad uso residenziale (destinazioni ammesse nel patrimonio indisponibile per motivi tecnici).
La mappa evidenzia anche un elevato tasso di inutilizzo e abbandono (14%) e la vasta distribuzione su tutto il territorio cittadino, che ne fa nel loro insieme un’infrastruttura fondamentale per politiche territoriali di promozione di cooperazione sociale, cultura diffusa e sviluppo locale.
La condizione imprescindibile per avviare a soluzione «la guerra dei commons romani» è che l’ente locale si assuma la responsabilità di riappropriarsi del suo legittimo “potere di decisione autonoma” sulla destinazione attuale dei suoi beni.
Potrebbe fare ciò in due tempi. Anzitutto deve sottrarre gli uffici al fuoco di fila del danno erariale operando rapidamente una due diligence delle concessioni attuali per regolarizzare tutte quelle che risultano sostanzialmente legittime secondo criteri che ne misurino l’effettivo interesse pubblico. Non è opportuno optare per delibere ponte impostate su escamotage come la custodia temporanea, che non farebbero altro che protrarre la deregulation del passato, fornendo argomenti a favore della Corte dei Conti, né tantomeno per le fantasiose soluzioni prospettate da Tronca, che avrebbe azzerato a suo modo le concessioni tramutandole tutte in contratti privatistici.
Una regolarizzazione delle posizioni attuali non deve passare necessariamente per la messa a bando, come a torto prevedeva la delibera 140, che occorre revocare, in quanto vi sono sentenze della stessa Corte dei Conti che riconoscono che laddove non vi sia rilevanza economica nella concessione, cioè qualora il vantaggio economico dello sconto sul canone venga convertito interamente nel vantaggio collettivo dell’impatto sociale che essa produce, l’atto amministrativo non rientra nelle fattispecie a cui le direttive europee impongono l’evidenza pubblica.
È quanto ad esempio sta facendo l’Ater, l’ente di gestione delle case popolari della Regione, con una delibera (n. 27, 19-09-2016) che, in linea con il nuovo regolamento della Regione sulle concessioni (Dgr n. 540, 20-09-2016), autorizza la regolarizzazione di posizioni irregolari senza bando per concessioni non residenziali che prevedono anche il rientro da eventuali morosità attraverso la rateizzazione o opere di manutenzione a scomputo. Questo compito potrebbe essere facilitato da una ricerca avviata da una partnership di alcune realtà attive a Roma (Centro per la Riforma dello Stato, Contaci, Labis e Reter) che prevede la valutazione dell’impatto sociale delle concessioni comunali minacciate secondo un sistema di misurazione innovativo concepito dall’economista Luigi Corvo, docente a Roma Tre.
In prospettiva occorre concepire un nuovo regolamento che guardi al futuro cercando di tenere insieme i due principi attualmente in conflitto, informalità e legalità. Ciò può avvenire se l’informalità un tempo garantita dalla discrezionalità politica venga sostituita da processi partecipativi e garantita da una totale trasparenza, come si è suggerito con la pubblicazione della mappa interattiva. Invertendo il paradigma dominante, occorre dare priorità alle esigenze del territorio rispetto a quelle dei vincoli di finanza, perché il valore di questi beni, concepiti come un’infrastruttura unitaria, va molto al di là del loro puntuale valore immobiliare. Messi in rete attraverso un’infrastruttura digitale associata all’infrastruttura materiale, si garantirebbe una più ampia condivisione degli stessi, ma anche la condivisione delle progettualità e delle innovazioni che vi si generano, convertendo il patrimonio in un ecosistema di commons.
Un laboratorio diffuso e decentrato in cui sperimentare nuovi rapporti di produzione e convivenza fondati su cooperazione, sostenibilità e partecipazione, nonché un contrasto all’imperante mercificazione del patrimonio culturale mediante l’insediamento nel centro storico di attività produttive che coniughino tradizione e innovazione, artigianato e nuove tecnologie.
Inchiesta de "il manifesto": I beni di Roma Capitale
La guerra dei Commons di Roma - Stefano Simoncini (15/01/2017)
http://ilmanifesto.info/la-guerra-dei-commons-di-roma/
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Il patrimonio umano e culturale che dà valore agli immobili della capitale - Stefano Simoncini (15/01/2017)
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La resa dei conti del patrimonio romano - Stefano Simoncini (22/01/2017)
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Spalla all'inchiesta:
La nuova cultura dei beni comuni contro i predatori di Roma - Paolo Berdini (15/01/2017)
http://ilmanifesto.info/la-nuova-cultura-dei-beni-comuni-contro-i-predatori-di-roma/
http://ilmanifesto.info/read-offline/236930/la-nuova-cultura-dei-beni-comuni-contro-i-predatori-di-roma/pdf
Luca Bergamo: «Il welfare dei territori è da difendere. Ma con regole certe e condivise» - Eleonora Martini (22/01/2017)
http://ilmanifesto.info/luca-bergamo-il-welfare-dei-territori-e-da-difendere-ma-con-regole-certe-e-condivise/
http://ilmanifesto.info/read-offline/237911/luca-bergamo-il-welfare-dei-territori-e-da-difendere-ma-con-regole-certe-e-condivise/pdf
di Stefano Simoncini (pubblicata su "il manifesto" del 15 e 22 gennaio 2017)
Cento milioni di euro. È questa la cifra monstre del danno erariale che incombe su 5 dirigenti capitolini a cui è toccata la cattiva sorte di amministrare negli ultimi 10 anni una porzione significativa dell’immenso patrimonio immobiliare del Comune di Roma. Partirà infatti a metà gennaio, a seguito dello scandalo «Affittopoli», una prima batteria di processi (sono 70 finora le citazioni in giudizio) che la Corte dei Conti ha istruito sulle irregolarità nella gestione dei beni comunali in concessione, chiamando gli amministratori a rispondere personalmente del presunto danno erariale.
Parliamo dei circa 989 spazi che sono classificati dall’amministrazione come «indisponibili» in quanto destinati a funzioni istituzionali, sociali e culturali tramite concessioni a enti e associazioni non profit con un canone ribassato dell’80% rispetto al valore di mercato, o in comodato gratuito. E si distinguono per questo dai beni «disponibili», che sono invece destinati alla messa a reddito tramite locazioni ordinarie e dismissioni. Per decenni questi spazi, come il resto del Patrimonio, sono stati gestiti dal Comune in modo opaco e approssimativo, e tuttavia soltanto oggi, tanto tardivamente quanto inflessibilmente, la Corte dei Conti, avendo rilevato a suo dire un’«indistinta congerie di situazioni di assegnazione irregolari», tra occupazioni senza titolo, morosità, canoni mai aggiornati, contratti scaduti o mai perfezionati, ha deciso di calcolare, fascicolo per fascicolo, l’intero danno erariale che si presume provocato dalla mala gestione.
Se guardiamo a questa situazione attraverso la lente deformante della sterminata crisi romana, si potrebbe ritenere che un organo di controllo centrale stia legittimamente cercando di ricondurre nella legalità il capitale patrimoniale di un ente locale da tempo sprofondato nell’inefficienza e nella corruzione. In realtà, analizzando più a fondo la questione, i conti della Corte non tornano per nulla. Innanzitutto perché le istruttorie – ne sono state avviate 230 in due anni – prendono di mira solo gli amministrativi, tutte donne (a cui per inciso si mortifica il diritto alla difesa in ragione del ritmo forsennato delle procedure attivate). Facendo perciò salvi sia i decisori politici, tutti uomini, a cui le dirigenti a ragione o a torto rispondevano, sia la Romeo Gestioni Spa, che dal 1997 al 2015 ha condotto in outsourcing la gestione amministrativa e tecnica del Patrimonio comunale.
Una scelta singolare che deresponsabilizza la testa e la mano degli eventuali abusi, andando a colpire solo lo strumento, l’amministrazione. E risulta ancora più strana se si punta la lente sul rapporto di Romeo con la politica. L’imprenditore Alfredo Romeo, tra i maggiori finanziatori di Renzi nel 2013, è sotto inchiesta per corruzione relativa a un maxiappalto Consip, la centrale acquisti del Mef, che vede ora coinvolto un renziano doc come Luca Lotti, sospettato insieme ad alcune delle più alte cariche dei Carabinieri di essere tra i responsabili della «fuga di notizie» volta a neutralizzare le intercettazioni ambientali predisposte dalla procura di Napoli negli uffici del Consip.
Che siano vere o no le accuse, sorge il legittimo dubbio che nella defenestrazione renziana di Marino abbia giocato un ruolo di qualche rilievo l’iniziativa del vicesindaco Luigi Nieri volta a estromettere Romeo dalla gestione del Patrimonio mediante l’indizione di un nuovo appalto, a reinternalizzare il sistema informativo e a impedire che si affidasse alla sua impresa l’esecuzione delle alienazioni previste, nonostante la strenua resistenza della maggioranza Pd in consiglio.
Ma i conti non tornano soprattutto perché la Corte, senza distinguere tra buoni e cattivi “inquilini”, e senza entrare nel merito dell’interesse pubblico delle rispettive attività, sta valutando le concessioni con un approccio rigidamente giuridico-formale. Infatti il procuratore Guido Patti, che conduce tutte le istruttorie, sta facendo leva su un mero vizio procedurale per considerare nulle ab origine gran parte delle concessioni. Il problema è legato alla complessità degli iter burocratici, che a partire da una preassegnazione decisa in genere dall’assessore, prevede un giro complesso di pareri degli uffici e in ultimo l’approvazione del consiglio.
Ora, il vizio di quasi tutte le concessioni è dovuto al fatto che quasi nessuna è stata perfezionata nel termine dei 120 giorni previsti da Regolamento comunale a partire dall’ordinanza di preassegnazione, sia perché gli uffici non erano in grado di controllare i tempi tecnici di un iter così articolato, sia perché la politica in alcuni casi poteva avere interesse a rallentarlo per non dare pubblicità alle proprie relazioni clientelari. La magistratura contabile potrebbe valutare l’eventuale dolo dell’irregolarità attraverso la verifica della sostanziale legittimità della concessione dal punto di vista dell’interesse pubblico, ma preferisce considerare nulli tutti i contratti, e conseguentemente tutti gli sconti accordati sul valore di mercato. In questo modo, oltre a rendere morosi e occupanti abusivi anche coloro che hanno sempre pagato regolarmente e svolgono attività validissime, la Corte intima ai dirigenti di restituire di tasca propria gli sconti illegittimi, calcolati sul valore di mercato e per l’intero periodo di utilizzo degli spazi. E poiché si reputano responsabili anche i dirigenti che, secondo la magistratura contabile, avrebbero dovuto adoperarsi per la riacquisizione degli spazi, i dirigenti attuali sono costretti a difendersi firmando a occhi chiusi diffide al rilascio e determinazioni di sgombero nei confronti di tutti i concessionari attenzionati dalla Corte.
Appare così evidente che questo impianto accusatorio basato su un cavillo burocratico si sta trasformando in un’arma puntata alla tempia degli uffici per fare tabula rasa di tutte le concessioni, quasi che si volesse cancellare la fonte stessa del presunto danno, identificata nel patrimonio indisponibile.
Tra i principali argomenti della difesa di fronte al giudice contabile (presso il quale si è svolto finora un solo giudizio) vi è la constatazione che «una volta individuato un determinato bene immobile come destinato a sostegno delle attività delle associazioni del terzo settore, a meno che non sopravvenga la necessità per l’Amministrazione di rientrarne in possesso per finalità pubbliche, il bene destinato alle associazioni anche se, per motivi diversi, dovesse restare libero da persone e cose non perciò potrebbe essere automaticamente messo sul mercato per conseguire il maggior canone possibile». Una argomentazione che evidentemente smonta la scelta di parametrare il danno erariale non sulla effettiva produzione di valore sociale ma sulla mancata messa a reddito, incompatibile con lo statuto “indisponibile” dei beni in questione.
Un criterio che, oltre a innescare l’arma del dispositivo accusatorio responsabile di fare tabula rasa delle concessioni, afferma la priorità della redditività del Patrimonio sulla sua destinazione sociale, appropriandosi di una prerogativa esclusiva dell’ente locale. Poiché l’unica sentenza passata finora in giudicato ha sostanzialmente avallato l’impianto di Patti, senza mai citare la famigerata delibera 140 di Marino, che molti reputano a torto la causa scatenante della guerra agli spazi sociali, mentre non è altro che un maldestro e superfluo tentativo di arginare l’azione già avviata della Corte. Poiché ordinanze e sentenze del Tar stanno rigettando i ricorsi alle diffide del Comune, e da luglio scorso sono già stati eseguiti due sgomberi (i club musicali Init e Brancaleone), anche se l’impulso finora è partito dalla magistratura ordinaria e non direttamente dal Campidoglio, la conseguenza più probabile è che, insieme ai furbetti di «Affittopoli», sarà spazzato via un vasto e sano tessuto di produzione culturale e cooperazione sociale della città, tra teatri, istituzioni musicali, centri sociali e culturali, asili nido, centri di assistenza psichiatrica, sportelli antiviolenza per le donne, scuole e palestre popolari ecc.
Una legalizzazione a colpi di scure che, in una città già messa a dura prova, rischia di comprometterne ulteriormente la coesione sociale, palesandosi come un rimedio di gran lunga peggiore del male che si vorrebbe curare.
La resa dei conti del patrimonio romano
Beni immobiliari indisponibili. I giudici contabili stanno investendo l’amministrazione capitolina con un treno di istruttorie (a oggi 230) e citazioni in giudizio per danno erariale (ne partono a breve 70) la cui destinazione finale è lo svuotamento dagli "inquilini" di tutti gli immobili "indisponibili" in concessione. Senza distinzione tra «Affittopoli» e capitale sociale sano. Il cartello di associazioni Decide Roma denuncia un’alleanza verticale tra le politiche di rigore europee e governative, la legalità formale e gli interessi privati.In merito alla vicenda delle concessioni irregolari di beni immobili del Comune, un fatto sembra acclarato. Il procuratore della Corte dei Conti Guido Patti sta investendo l’amministrazione capitolina con un treno di istruttorie (a oggi 230) e citazioni in giudizio per danno erariale (ne partono a breve 70) la cui destinazione finale è lo svuotamento dagli “inquilini” di tutto il patrimonio “indisponibile” (ovvero inalienabile) in concessione. Per comprendere le finalità della sua azione occorre capire meglio come funziona la città parallela di «Affittopoli».
Il male lo conosciamo, è stato propalato in due ondate mediatiche successive. La prima a febbraio del 2015, quando è servito a screditare Marino subito dopo l’esplosione di Mafia Capitale, e poi circa un anno dopo, quando è servito a legittimare il commissariamento di Tronca. Giornali e televisioni hanno così rimestato nel calderone degli abusi e delle negligenze capitolini, andando a caccia di «canoni ridicoli», come i 13,43 euro al mese a piazza Navona o i 7,75 euro a Borgo Pio, di occupazioni senza titolo, come l’attico di via del Colosseo occupato da un avvocato della Corte di Cassazione, o le concessioni fiabesche, come la casa dei cavalieri di Rodi affacciata sui Fori imperiali in uso esclusivo all’Ordine di Malta per 1 euro al mese, o la splendida Casina del Curato del XIV secolo assegnata, con ristorante annesso, a un fantomatico Circolo della Pipa.
Oltra al merito di aver scoperchiato il calderone, l’approccio scandalistico ha avuto tuttavia il torto di demonizzare in modo acritico l’amministrazione e di fare di tutta l’erba un fascio di concessioni e locazioni. Sul versante amministrativo non sono stati considerati ad esempio i tentativi di riforma, a partire dalla creazione del sistema informativo patrimoniale che dal 2000 è stato oggetto di varie implementazioni, fino alla reinternalizzazione del sistema per la gestione contrattuale, contabile, manutentiva attuata da Marino e Nieri. Si sarebbe forse capito che quella dei sistemi informativi è una partita decisiva, come emerge chiaramente dalla testimonianza difensiva di un dirigente all’unico processo svoltosi finora davanti alla Corte, quando afferma di aver pagato «con l’allontanamento e il trasferimento ad Ostia», disposto dall’allora Assessore Antoniozzi, «la richiesta di addivenire ad una adeguata revisione di tutta la procedura de qua anche attraverso la sua informatizzazione». La sua testimonianza svela il cuore del congegno politico-amministrativo che ha garantito la deregulation del Patrimonio a favore di una totale discrezionalità politica. L’opacità e l’inefficienza non sono frutti amministrativi di cui ha goduto indirettamente la politica. Sono frutti dell’albero della politica.
Ma un altro aspetto che lo scandalo ha contribuito ad oscurare è l’altra faccia del Patrimonio, quel capitale sociale diffuso e sano che, nonostante la mala gestio, è fortemente presente all’interno dei beni in concessione. Potremmo definirlo il paradosso del patrimonio romano, che si può spiegare solo in un modo: la deregulation della discrezionalità politica ha aperto spazi di informalità che da un lato hanno consentito la pratica clientelare, dall’altro hanno favorito la crescita di un laboratorio diffuso di cooperazione parzialmente slegata dalle logiche di mercato. Per dirla con una metafora, il patrimonio ha funzionato da “terzo paesaggio” sociale, un campo “incolto” che ha preservato la (bio)diversità rispetto alla progressiva e omologante mercificazione dello spazio e delle relazioni urbane.
Uno snodo fondamentale è la delibera 26 del primo Rutelli (1995), che ha consentito la regolarizzazione di molte occupazioni, innestando nel tronco delle concessioni un ramo della cultura dei movimenti. Con tutti i suoi limiti quella delibera, vista da sinistra come una sorta di tradimento, faceva in realtà del bene pubblico uno spazio di autoproduzione aperto agli usi collettivi, e non più soltanto un bene da concedere al non profit in uso esclusivo. Un’eredità importante di cui si sta facendo interprete «DecideRoma», la rete cittadina di spazi sociali che, ispirandosi alle esperienze delle “città ribelli”, da Napoli a Barcellona, oltre a coordinare azioni legali e di protesta contro gli sgomberi indiscriminati, ha intrapreso un percorso partecipativo finalizzato, attraverso una serie di assemblee pubbliche, alla scrittura collettiva di una carta costituente per l’autogoverno dei beni comuni urbani.
Il limite dei movimenti è stato in passato quello di praticare il confronto e il conflitto con le istituzioni soprattutto per creare e difendere gli spazi “liberati”, prendendo parte in una certa misura a un modello negoziale e distributivo delle risorse che con una mano sosteneva movimenti e associazioni e con l’altra garantiva rendite di posizione a palazzinari e speculatori di vario genere. Fedeli al principio dell’informalità, hanno in parte rinunciato a promuovere nuove regole che, riformando il sistema, rendessero accessibili e produttive le risorse per la collettività. DecideRoma oggi parla invece della necessità di creare dal basso “nuove istituzioni”, e sulla «guerra dei commons di Roma» coglie nel segno denunciando quelle tendenze alla centralizzazione che privilegiano i criteri di economicità, e quindi la messa a reddito e dismissione del Patrimonio, in un’alleanza verticale tra politiche di rigore europee e governative, legalità formale e interessi privati.
È chiaro a questo punto che la Corte dei Conti, ignorando completamente l’evidenza che il Patrimonio romano ha come peculiarità fondamentale quella di “contenere” due distinti valori, il capitale immobiliare e il capitale sociale sano che lo abita, in nome di un presunto danno erariale, sembra proprio stia producendo danni molto concreti e attuali. Infatti il settore delle concessioni è passato da 6 milioni di entrate nel 2015 a 1,2 milioni nei primi sei mesi del 2016, con una perdita stimabile di 3,6 milioni anno, mentre si sta mandando in fumo il valore economico corrispondente alle esternalità positive e all’impatto sociale dei servizi, del lavoro e dei beni prodotti dalle realtà minacciate di sgombero. Senza contare che in prospettiva si potrebbe produrre un altro danno difficilmente stimabile qualora il patrimonio, com’è probabile, venisse abbandonato per anni dopo gli sgomberi.
Ci si chiede perciò perché la Corte dei Conti persegua questi obiettivi apparentemente antieconomici. Il procuratore Patti interpreta come fonte del danno le concessioni a fini sociali in quanto tali, e allo stesso tempo, come ha spiegato in un suo saggio, «spoglia l’amministrazione del potere di decisione autonoma» col solo scopo di arrivare all’«eliminazione della fonte» del danno. Perciò, coerentemente con la sua decisione di considerare prioritaria la messa a reddito dei beni, persegue lo svuotamento del patrimonio “indisponibile”, rendendolo di fatto “disponibile”. Si tratta di una autentica “spoliazione” dell’autonomia dell’ente locale e delle sue prerogative politiche di decisione sulle destinazioni più opportune dei beni in funzione dei bisogni e delle politiche di sviluppo del territorio.
Ma la Corte dei Conti in questo modo non fa altro che seguire le direttive del Mef e delle leggi finanziarie degli ultimi anni che impongono agli enti locali la dismissione del loro capitale patrimoniale come leva prioritaria per abbattere il debito pubblico e per rispettare i vincoli di finanza come il patto di stabilità. Un’azione che appare coerente con la tendenza generale a una verticalizzazione dei poteri che sottrae autonomia agli enti locali forzandoli a criteri economicisti e neoliberisti volti a spogliare i territori di beni e servizi pubblici per metterli nelle mani dei privati.
Il patrimonio umano e culturale che dà valore agli immobili della capitale
La mappa interattiva dei beni immobiliari di Roma. Il 14% dei beni indisponibili concessi è inutilizzato. Il 59% è in una posizione irregolareVisualizza a schermo intero
(Mappa interattiva del patrimonio immobiliare di Roma. Dati raccolti da Stefano Simoncini, elaborazioni ReTer)
Considerato nel suo insieme, il Patrimonio di Roma Capitale è una città nella città molto grande, dell’estensione di un medio comune italiano, come Bologna per intendersi. 14.090 ettari di superficie per 50.499 beni immobili unitari, tra terreni, parchi, giardini, monumenti, palazzi, ville, casali, appartamenti, scuole, centri sportivi, mercati, locali commerciali, capannoni, officine, box, cantine.
La maggior parte di questi beni, l’84 per cento circa (42.455 beni unitari), fa parte dell’edilizia residenziale pubblica, sono cioè case popolari alla Corviale, con un sistema di gestione afflitto da problemi enormi, dovuti perlopiù a carenza di manutenzione e assenza di controlli. Quando si parla di «Affittopoli» ci si riferisce soprattutto al “patrimonio disponibile”, alloggi e locali commerciali destinati alla messa a reddito (rispettivamente 1,92% e 1,19% del totale), e al “patrimonio indisponibile” assegnato in concessione a fini sociali e istituzionali (1,61%).
Due componenti che complessivamente rappresentano il 4,7 per cento dell’intero patrimonio (circa 1700 beni unitari). Una città perciò più piccola, ma non per questo trascurabile, in quanto il conteggio per beni unitari (che vanno da singole cantine a interi palazzi) è fuorviante, e dei 989 beni del patrimonio indisponibile in concessione, ben 180 sono interi fabbricati o porzioni di fabbricato, e spesso anche di grande pregio.
(Grafici elaborati da Giovanni Renzi e Davide Rossidoria)
Tra le realtà associative e culturali che animano il Patrimonio non mancano situazioni di abuso o di attività per lo più economiche, ma prevalentemente esse costituiscono un diffuso e radicato capitale sociale, e sono spesso delle vere eccellenze “storiche” nel contesto capitolino. Parliamo di realtà come l’Accademia Filarmonica Romana, istituzione concertistica tra le più antiche e illustri d’Italia, o come il Grande cocomero, centro riabilitativo per i ragazzi di Neuropsichiatria Infantile del Policlinico Umberto I nato oltre 20 anni fa da un’idea del celebre neuropsichiatra Marco Lombardo Radice, o ancora il Celio Azzurro, nota scuola d’infanzia dedicata all’inclusione multiculturale, o l’associazione A Roma Insieme, fondata 24 anni fa da Leda Colombini, storica figura del Pci romano, che si occupa dei bambini che vivono nel carcere di Rebibbia con le madri e del reinserimento di queste ultime. E poi ancora la storica Casa dei Diritti sociali di via Giolitti, Viva la Vita onlus che da molti anni si occupa di malati di Sla, il centro Ararat all’ex Mattatoio di Testaccio, associazione della comunità curda, insieme a centri sociali come il Rialto Sant’Ambrogio, l’atelier Esc a San Lorenzo, Auro e Marco a Spinaceto, il Csa La Torre su via Nomentana, la Palestra popolare di San Lorenzo, l’ex casale Falchetti a Centocelle, il Laboratorio Sociale Autogestito 100celle, lo spazio sociale 100celleaperte, il Csoa Corto Circuito a Cinecittà.
Come si vede dalla mappa che qui pubblichiamo con i dati di gestione, in buona parte inediti, (interattiva online sul sito de il manifesto, elaborazioni ReTer) il Patrimonio immobiliare del Comune è disseminato un po’ su tutto il territorio della città metropolitana. Si possono distinguere (layer «concessioni minacciate») le concessioni a rischio per l’azione della Corte dei Conti, che sta inducendo l’amministrazione a convertire in determine di sgombero tutte le istruttorie per danno erariale (230 a oggi).
(Grafici elaborati da Giovanni Renzi e Davide Rossidoria)
Il patrimonio si divide in indisponibile in concessione (con dati inediti su tutte le concessioni, compresi beneficiari, canoni e morosità al 30/11/2013); patrimonio disponibile a uso residenziale; centri sportivi in concessione. Da notare la prevalente irregolarità delle posizioni, attestata dai 510 contratti «non presenti agli atti» su 861 (59%), trattandosi probabilmente di procedure non perfezionate. Come particolarmente significativa è pure la composizione dei beneficiari con due nuclei forti: il non profit, tra associazioni, enti pubblici ed enti ecclesiastici (39%), e la voce «altro» (41%), che comprende locali per attività commerciali e produttive, ma anche alloggi ad uso residenziale (destinazioni ammesse nel patrimonio indisponibile per motivi tecnici).
La mappa evidenzia anche un elevato tasso di inutilizzo e abbandono (14%) e la vasta distribuzione su tutto il territorio cittadino, che ne fa nel loro insieme un’infrastruttura fondamentale per politiche territoriali di promozione di cooperazione sociale, cultura diffusa e sviluppo locale.
Partecipazione e trasparenza per superare la burocrazia dei bandi
Roma Capitale. Le soluzioni proposte per riordinare le concessioni del patrimonio immobiliare indisponibile del Comune.La condizione imprescindibile per avviare a soluzione «la guerra dei commons romani» è che l’ente locale si assuma la responsabilità di riappropriarsi del suo legittimo “potere di decisione autonoma” sulla destinazione attuale dei suoi beni.
Potrebbe fare ciò in due tempi. Anzitutto deve sottrarre gli uffici al fuoco di fila del danno erariale operando rapidamente una due diligence delle concessioni attuali per regolarizzare tutte quelle che risultano sostanzialmente legittime secondo criteri che ne misurino l’effettivo interesse pubblico. Non è opportuno optare per delibere ponte impostate su escamotage come la custodia temporanea, che non farebbero altro che protrarre la deregulation del passato, fornendo argomenti a favore della Corte dei Conti, né tantomeno per le fantasiose soluzioni prospettate da Tronca, che avrebbe azzerato a suo modo le concessioni tramutandole tutte in contratti privatistici.
Una regolarizzazione delle posizioni attuali non deve passare necessariamente per la messa a bando, come a torto prevedeva la delibera 140, che occorre revocare, in quanto vi sono sentenze della stessa Corte dei Conti che riconoscono che laddove non vi sia rilevanza economica nella concessione, cioè qualora il vantaggio economico dello sconto sul canone venga convertito interamente nel vantaggio collettivo dell’impatto sociale che essa produce, l’atto amministrativo non rientra nelle fattispecie a cui le direttive europee impongono l’evidenza pubblica.
È quanto ad esempio sta facendo l’Ater, l’ente di gestione delle case popolari della Regione, con una delibera (n. 27, 19-09-2016) che, in linea con il nuovo regolamento della Regione sulle concessioni (Dgr n. 540, 20-09-2016), autorizza la regolarizzazione di posizioni irregolari senza bando per concessioni non residenziali che prevedono anche il rientro da eventuali morosità attraverso la rateizzazione o opere di manutenzione a scomputo. Questo compito potrebbe essere facilitato da una ricerca avviata da una partnership di alcune realtà attive a Roma (Centro per la Riforma dello Stato, Contaci, Labis e Reter) che prevede la valutazione dell’impatto sociale delle concessioni comunali minacciate secondo un sistema di misurazione innovativo concepito dall’economista Luigi Corvo, docente a Roma Tre.
In prospettiva occorre concepire un nuovo regolamento che guardi al futuro cercando di tenere insieme i due principi attualmente in conflitto, informalità e legalità. Ciò può avvenire se l’informalità un tempo garantita dalla discrezionalità politica venga sostituita da processi partecipativi e garantita da una totale trasparenza, come si è suggerito con la pubblicazione della mappa interattiva. Invertendo il paradigma dominante, occorre dare priorità alle esigenze del territorio rispetto a quelle dei vincoli di finanza, perché il valore di questi beni, concepiti come un’infrastruttura unitaria, va molto al di là del loro puntuale valore immobiliare. Messi in rete attraverso un’infrastruttura digitale associata all’infrastruttura materiale, si garantirebbe una più ampia condivisione degli stessi, ma anche la condivisione delle progettualità e delle innovazioni che vi si generano, convertendo il patrimonio in un ecosistema di commons.
Un laboratorio diffuso e decentrato in cui sperimentare nuovi rapporti di produzione e convivenza fondati su cooperazione, sostenibilità e partecipazione, nonché un contrasto all’imperante mercificazione del patrimonio culturale mediante l’insediamento nel centro storico di attività produttive che coniughino tradizione e innovazione, artigianato e nuove tecnologie.
Inchiesta de "il manifesto": I beni di Roma Capitale
La guerra dei Commons di Roma - Stefano Simoncini (15/01/2017)
http://ilmanifesto.info/la-guerra-dei-commons-di-roma/
http://ilmanifesto.info/read-offline/236935/la-guerra-dei-commons-di-roma/pdf
Il patrimonio umano e culturale che dà valore agli immobili della capitale - Stefano Simoncini (15/01/2017)
http://ilmanifesto.info/il-patrimonio-umano-e-culturale-che-da-valore-agli-immobili-della-capitale/
http://ilmanifesto.info/read-offline/236953/il-patrimonio-umano-e-culturale-che-da-valore-agli-immobili-della-capitale/pdf
La resa dei conti del patrimonio romano - Stefano Simoncini (22/01/2017)
http://ilmanifesto.info/la-resa-dei-conti-del-patrimonio-romano/
http://ilmanifesto.info/read-offline/237900/la-resa-dei-conti-del-patrimonio-romano/pdf
Partecipazione e trasparenza per superare la burocrazia dei bandi - Stefano Simoncini (22/01/2017)
http://ilmanifesto.info/partecipazione-e-trasparenza-per-superare-la-burocrazia-dei-bandi/
http://ilmanifesto.info/read-offline/237903/partecipazione-e-trasparenza-per-superare-la-burocrazia-dei-bandi/pdf
Spalla all'inchiesta:
La nuova cultura dei beni comuni contro i predatori di Roma - Paolo Berdini (15/01/2017)
http://ilmanifesto.info/la-nuova-cultura-dei-beni-comuni-contro-i-predatori-di-roma/
http://ilmanifesto.info/read-offline/236930/la-nuova-cultura-dei-beni-comuni-contro-i-predatori-di-roma/pdf
Luca Bergamo: «Il welfare dei territori è da difendere. Ma con regole certe e condivise» - Eleonora Martini (22/01/2017)
http://ilmanifesto.info/luca-bergamo-il-welfare-dei-territori-e-da-difendere-ma-con-regole-certe-e-condivise/
http://ilmanifesto.info/read-offline/237911/luca-bergamo-il-welfare-dei-territori-e-da-difendere-ma-con-regole-certe-e-condivise/pdf
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