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Il mondo politico e la società civile in Europa e altrove, in buona parte, in alcuni casi con celata e sommessa ipocrisia, hanno condannato il presidente Usa Donald Trump per i divieti e i limiti imposti all’ingresso di immigrati e rifugiati negli Stati Uniti, da Paesi a popolazione in prevalenza musulmana, e per la decisione di rafforzare ed estendere il muro fra gli Stati Uniti e il Messico.
Il premier israeliano Benjamin Netanyahu no, e nel linguaggio primitivo di Twitter, ha anzi fatto un impudente e trionfalistico paragone con quanto costruito sul confine fra Egitto e Israele che avrebbe “fermato l’immigrazione clandestina”. Un proclama inutile, insensato, irritante per gli ebrei americani e messicani che hanno protestato e che ha costretto il presidente di Israele Reuven Rivlin ad esprimere le scuse al suo omologo messicano per un’ingerenza negli affari interni del Paese. Uno sguardo prammatico ai fatti Ironia amara e tragica, per una nazione come Israele composta di immigrati e rifugiati dalle persecuzioni antiebraiche. Un proclama reso pubblico per di più il giorno successivo a quello in cui il mondo ricorda la Shoah, che promana dal governo di un Paese voluto, fondato e difeso come luogo di rifugio dalle persecuzioni e di riscatto di un popolo oppresso e discriminato. Esso riflette un’ideologia che contraddice in modo vistoso tradizione e valori universalistici dell’ebraismo, quali la dignità dello straniero, la difesa dei più deboli. Il muro vantato da Netanyahu come “grande successo” è in verità una barriera di 250 km, completata nel 2013, costata al bilancio pubblico di Israele circa 500 milioni di dollari, diretta a impedire l’ingresso nel Paese di immigrati africani che andassero ad aggiungersi ai circa 60.000 già in Israele, in larga parte rifugiati dall’Eritrea e dal Sudan, giunti dopo una fuga disperata attraverso l’Egitto e il Sinai da guerre ed eccidi di massa nelle loro patrie. Gente che vive nei quartieri diseredati di Tel Aviv, Arad e Eilat, priva di infrastrutture per un minimo di accoglienza e integrazione; soggetta a un grande caos legislativo, alle vessazioni della polizia, alle proteste xenofobe dei vicini nelle aree metropolitane più povere; difesa solo dal coraggio di Ong israeliane - come la Hotline for Refugees and Migrants - e da giudici illuminati. Le contraddizioni della legislazione Israele, che pure ha ratificato la Convenzione sui Rifugiati del 1951 e che afferma di attenersi ai principi delle Nazioni Unite in materia, non riconosce i rifugiati africani come aventi diritto all’asilo. La legislazione in materia risale alla “legge sulla prevenzione degli infiltrati”, introdotta nel 1954 contro il tentativo di “ritorno” di palestinesi dai campi profughi dispersi nei Paesi arabi dopo la guerra di indipendenza di Israele del 1948-49. Dal 2005 sono giunti nel Paese profughi dal Darfur (Sudan) e dall’Eritrea, inizialmente in numeri esigui, poi via via crescenti. In quanto richiedenti asilo ricevono un visto valido appena due mesi, poi rinnovabile: possono risiedere in Israele, ma senza usufruire di alcun diritto circa il lavoro, la casa, l’assistenza sanitaria. Fino al 2014, secondo un’indagine condotta da Galia Sabar e Elizabeth Tsurkov (Israel’s policies towards asylum-seekers: 2002-2014, IAI Workingpaper, 2015), su circa 9000 sudanesi rifugiati in Israele nessun ha ottenuto l’asilo, su 34.000 eritrei appena quattro. Dal 2012 in virtù di una legge restrittiva, poi emendata e resa ancora più stringente nel 2014, gli immigrati, detti “infiltrati”, sono detenuti in stato d’arresto per tre mesi, seguito da un lungo periodo di detenzione (in genere 20 mesi) nel campo di Holot nel Negev - dove pur liberi durante le ore del giorno non possono lavorare; poi, vengono rilasciati. Inoltre Israele ha negoziato con Paesi africani come l’Uganda e il Ruanda accordi per una loro “volontaria” deportazione in cambio di aiuto finanziario. L’intero meccanismo regolamentare è concepito per agire da deterrente per futuri tentativi di ingresso e per spingere i richiedenti asilo già nel Paese a lasciare Israele. In questo senso Netanyahu ha cinicamente ragione: la barriera è servita, ormai pochissimi la superano. Giorgio Gomel, economista, è membro del Comitato direttivo di Jcall, un’associazione di ebrei europei impegnata nel sostegno ad una soluzione “a due stati” del conflitto israelo-palestinese. |
12 febbraio 2017
Israele: nazione d'immigrati e diritto d’asilo
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