16 aprile 2017

Il caso Minzolini e il labirinto del privilegio

Torsioni e contorsioni del sistema democratico. Il caso Minzolini e il labirinto del privilegio



Augusto Minzolini

 
di Giuseppe Panissidi
Gli uomini possono fare ingiustizie perché hanno interesse a commetterle e preferiscono la propria soddisfazioni a quella degli altri”, così il Barone de Montesquieu nelle celeberrime “Lettere persiane”. Posti al bando i “rapporti di convenienza” e di giustizia, non resta che la celebrazione delle passioni “egoistiche” e dell’interesse personale. Un tema capitale, quello della giustizia nel pensiero di Montesquieu, che, al di là della stessa dimensione giuridica, attraversa anche le “Pensées”, e innerva la “questione costituzionale” del luogo istituzionale sovrano: il Parlamento, “peuple assemblé”. La giustizia, orizzonte di ogni azione umana, deve orientare la prassi politica sotto il governo del diritto e dell’”équité”.

Questo conciso preambolo teorico-politico aiuta a comprendere meglio, nel suo palese significato “eversivo” - secondo il giudizio di un noto costituzionalista – e ben oltre la congiuntura, il misfatto appena consumato dal nostro Parlamento. L’affaire Minzolini.

E’, ormai, di tutta evidenza che il Parlamento dei nominati, già fortemente delegittimato, benché non annullato, dalla nota pronuncia della Corte Costituzionale, dal voto popolare referendario, nonché da presenze inquietanti, lavora alacremente ad auto-annullarsi come istituzione nel modo più tracotante e impietoso. Rimasto fortunosamente in vita per garantire la “continuità dello Stato”, si adopera tenacemente a sbriciolare con inaudita disinvoltura cruciali istituti costituzionali, finendo per incrinare il fondamento stesso dello Stato, il pactum societatis su cui la res publica sorge, consiste e si legittima.

Quisquilie. Bazzecole. Di “questa specie di politica”. Il maestro Totò, nostalgia di un ricordo cinquant’anni dopo la sua scomparsa.

Una domanda pedestre. E’ di siffatta natura la continuità dello Stato? Questo lo Stato che bisognava assolutamente preservare, e che inibiva il ricorso ad elezioni politiche generali immediate?

Proviamo a navigare nel mare di chiacchiere impotenti e farisaiche che ci ammorbano.

Ebbene, tra quanti hanno mostrato l’ardire di difendere a spada tratta la decisione parlamentare di negare la decadenza di tale Minzolini, colpisce in modo speciale la posizione di un ex magistrato, un politico di grande esperienza come Luciano Violante, noto per avere sempre esaltato i “diritti di libertà”. Anche quando s’inorgogliva per il fatto che non era stata fatta “una legge sul conflitto di interessi... non erano state tolte le televisioni all’on. Berlusconi. L’on. Berlusconi sa per certo che gli è stata data la garanzia piena, non adesso ma nel 1994, che non sarebbero state toccate le televisioni, quando ci fu il cambio di governo… [Abbiamo] dichiarato eleggibile Berlusconi nonostante le concessioni, [permesso] che il fatturato di Mediaset, durante il centrosinistra, aumentasse di 25 volte!”. Le rose sono fiorite. Congratulazioni.

Parlamenti altri, tali da fare impallidire e perdere d’importanza più d’una “gloriosa rivoluzione”. La patria assicura eterna riconoscenza a Luciano Violante, le cui contorsioni dialettiche sfiorano il soprannaturale. Del resto, ciascuno va fiero di ciò che gli è maggiormente consono. In questo caso, i “diritti di libertà”, appunto, per la gioia di I. Berlin, vent’anni dopo.

I diritti costituzionali di libertà, si deve presumere.

Labuntur anni. Oggi, allo scopo di giustificare l’innominabile voto parlamentare sul nominato Minzolini, Violante impugna addirittura la Costituzione, segnatamente l’art. 66: “Ciascuna Camera giudica dei titoli di ammissione dei suoi componenti e delle cause sopraggiunte di ineleggibilità e di incompatibilità”. Si tratta di una precisa ed esclusiva “prerogativa costituzionale” di controllo, come tale attuabile secondo i principi dell’attività giurisdizionale. Curiosamente, tuttavia, Violante omette di ricordare l’art. 65 che precede: “La legge determina i casi di ineleggibilità e di incompatibilità con l'ufficio di deputato o di senatore”. Nel caso che occupa, la legge è il testo normativo meglio conosciuto come “legge Severino”.

Persino alla scuola materna non è difficile apprendere che essa, disciplinando i “casi di ineleggibilità e di incompatibilità”, sanciva la decadenza del Minzolini quale tassativo adempimento politico-istituzionale, senza attribuire margini di discrezionalità alla Camera di appartenenza. La quale, all’opposto, si è sostanzialmente arrogata un potere di “revisione” del giudicato, che l’ordinamento giuridico riserva esclusivamente alla giurisdizione penale, in costanza di determinati presupposti. Eppure, bisogna riconoscerlo, Violante è nel giusto, quando richiama l’art.66. Al Senato, infatti, competeva la funzione di “giudicare”, ovvero di verificare l’esistenza o meno di una causa di ineleggibilità o incompatibilità/decadenza, a mente del precitato art. 65, non già di decidere discrezionalmente se applicare la norma. Ed ecco il punctum dolens. E’ vero o no che quella sentenza irrevocabile, causa incontrovertibile di decadenza, esiste? Allora, al Senato risultava costituzionalmente preclusa la potestas di usurpare le prerogative del giudice penale, formulando giudizi di merito rispetto a una sentenza irrevocabile. E cestinarla. Non entro i confini di un ordinamento costituzionale democratico. Per certo, non è quello che intende J. Locke, nello “Spirito delle leggi”, quando sostiene che “il potere deve arrestare il potere”, significando, invece e al contrario, che la distinzione delle funzioni statuali deve realizzare il fine essenziale e indefettibile di impedire “il naturale abuso del potere”.

Altrimenti, si versa in tema di eversione, se vogliamo, come dovremmo, rifuggire dalle mistificazioni di beceri giochi linguistici. Non sembra così complicato da comprendere, anzi, è patente e conclusivo. Almeno per quanti si sforzano onestamente di capire, anziché di non capire.

Populismo giustizialista? Se è vero, com’è vero, che la legge esprime la “volontà dello Stato”, il Parlamento, ossia il legislatore del provvedimento de quo, sede eminente della sovranità popolare, ha paradossalmente compiuto un attentato contro sé stesso – sovviene del terenziano Heautontimorumenos – dunque contro lo Stato costituzionale di diritto. Un vero e proprio gesto di autosovversione, per quanto in un senso totalmente e sciaguratamente diverso dalla prospettiva intesa e concettualizzata da A. Hirschman, or sono più di vent’anni.

Giunti a questo punto, irto di nodi spinosi, non sarebbe il caso che il capo dello Stato, garante supremo della Costituzione, nonché emerito giudice costituzionale, inviasse un severo messaggio alle Camere, prima che sia troppo tardi? Siamo proprio certi che un suo intervento risulterebbe inconferente, per dirla in giuridichese? Se non ora, quando? Sergio Mattarella, ne siamo certi, per formazione e convinzione si situa a una siderale distanza da una concezione del Parlamento come tana, vedi caso per i Minzolini e Verdini di turno – sul terreno concreto della Storia, non di rado e in talune versioni istituzionali, i parlamenti sono stati questo ed altro. Di sicuro, il capo dello Stato concepisce l’istituzione parlamentare come il luogo sovrano della rappresentanza democratica, quel “porticato tra lo Stato e la società civile”, di cui è icastica parola, ancorché non precisamente di valenza liberal-democratica, nel testo di Hegel.

Ad ulteriore conferma dell’oscena arbitrarietà dell’azione parlamentare, basti considerare gli argomenti – per usare una parola grossa - posto a sostegno della decisione. Il Minzolini sarebbe vittima di un colpo di mano, perpetrato nel giudizio d’impugnazione, a causa della presenza nel collegio giudicante di un suo avversario politico. Ora, poiché il collegio era (è) formato da tre giudici, non da un decisore monocratico, l’argomento invocato si colora di grottesco. Esso, infatti, implicherebbe l’occorrenza di una nefanda influenza corruttiva da parte del presunto avversario del Minzolini sugli altri due giudici, in maggioranza nel collegio! Il sig. Minzolini ha già formalmente proposto questa (esilarante) lagnanza in ordine, putacaso, al delitto di “corruzione in atti giudiziari” o, anche, più semplicemente di “abuso d’ufficio” in concorso? Potrebbe sempre consultare l’ex magistrato Violante, maestro di “diritti di libertà”. Libertà anche di un Parlamento evergreen, seppur disfatto dal voto referendario. Vero è, tuttavia, che anche in caso di vittoria dei controriformisti costituzionali, nelle cui file si agitava un entusiasta Violante, i precetti costituzionali in tema non sarebbero stati modificati. E allora?

Frastornati da questo chiacchiericcio da bar sport, molti fingono persino di dimenticare che la sentenza di secondo grado è stata riconosciuta come pienamente conforme al diritto e alla giustizia non da altri pretesi avversari politici del condannato, ma bensì dalla Suprema Corte di Cassazione, giudice della legittimità e vertice della giurisdizione penale. Anch’essa un covo di nemici del sig. Minzolini e delle prerogative costituzionali del Parlamento? Oppure, ancora, i giudici di ultima istanza sono stati abilmente turlupinati e deviati dalla verità processuale dalla Corte di merito? Dunque, cinque Calandrini cinque incapaci di vedere la pietra quasi nera? “Nell’assurdo tutto è possibile”, anche sbandierare amenità siffatte, eventualmente. In tale ipotesi, però, il Minzolini percorrerà senza ritardo la via del giudizio di revisione, il solo rimedio possibile a una sentenza definitiva di condanna. Aspettiamo con ansia e con fiducia.

Le endorfine necessitano di stimoli appropriati, com’è noto, ridere fa bene alla salute, pare. Anche al benessere psicofisico del Senato della Repubblica.

Quanto alla querelle concernente un ipotetico divieto di retroattività in caso di decadenza conseguente a una condanna definitiva, sarà sufficiente osservare che il Parlamento, non risultando legittimato a sottoporre il thema decidendum alla Corte Costituzionale - peraltro già attiva sotto altri profili della legge Severino – deve comunque rinunciare all’esercizio arbitrario di improbabili poteri sostitutivi rispetto al giudice delle leggi. La legge che regola i giudizi della Corte costituzionale, n. 87/53, infatti, esclude che la questione di costituzionalità possa essere sollevata dal Parlamento, né Giunta, né Aula - posto che la Giunta ha poteri istruttori, non decisori, e l’Aula non può configurarsi come giudice terzo - e riserva tale facoltà solo al “giudice nel corso di un giudizio”. Mette conto, altresì, ricordare che il Consiglio di Stato, con la pronuncia n. 695/13, ha ritenuto che la norma dell’incandidabilità sia applicabile anche ai reati commessi prima dell’entrata in vigore della legge Severino. Del resto, da parte sua, la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 132/2001, aveva chiaramente statuito che l’incandidabilità non deve considerarsi come una sanzione penale, poiché l’accertamento attiene semplicemente al venir meno di un “requisito soggettivo”, necessario per l’accesso alle cariche elettive.

Sempre salve ulteriori e più radicali pulsioni rottamatrici, naturalmente, ed eversive, da parte di un organo costituzionale, il Parlamento, nei confronti di un altro organo costituzionale, la Corte. In alternativa, il legislatore avrebbe potuto/dovuto riformare la previsione normativa in parola – un’ipotesi peraltro esclusa dallo stesso PD di Violante - e, dopo, soltanto dopo, eventualmente ricoprire di coccole e baci l’adorabile Minzolini, al pari di un neonato un po’ sfortunato e tanto bisognoso: ti voglio cullare, cullare…

Un’ultima considerazione, ove mai ne valesse la pena. Classica ciliegina sulla torta, gli ineffabili parlamentari contrari alla decadenza, forti del supporto strategico e lungimirante – prove generali d’incesto, Lotti a parte – di schegge tutt’altro che impazzite del PD, hanno sollevato la questione dell’assoluzione di Minzolini nel primo grado di giudizio. Ah, l’adamantina coscienza. Se non che, i medesimi soggetti politici – per usare altre parole grosse – a ogni piè sospinto si stracciano le vesti, nel sostenere a spada tratta che conta e deve contare solo ed esclusivamente l’ultimo grado del giudizio, non i precedenti. Che, insomma, fino a sentenza irrevocabile vige il divieto di trarre indebite e premature conclusioni. Da quando in qua, invece, ex abrupto rilevano le sentenze di primo grado, tanto da indurre ad annettere ad esse un valore pari (o maggiore) rispetto alle pronunce definitive? Ovvero: che fine ha fatto il… garantismo? “O Vergogna, dov’è il tuo rossore?”.

E’ del tutto evidente che la nomenklatura parlamentare, al di là dello specifico e insignificante caso Minzolini, ha voluto inviare un messaggio inequivoco di aperta sfida e diniego del principio cardine degli ordinamenti costituzionali democratici, oltre che del conclamato garantismo: la legge uguale erga omnes. Dovendosi ragionevolmente escludere che il Parlamento abbia oltraggiosamente considerato il Minzolini alla stregua dei maiali “più uguali” della celebre fattoria orwelliana. Si deve, del pari, escludere che gli ineffabili rappresentanti del popolo sovrano, (forse) ancora non del tutto rottamato, patiscano una sindrome da dislessia, dal momento che, a prescindere dal dispositivo di condanna alla pena detentiva e dalla norma Severino, hanno ignorato anche il dettaglio della pena accessoria comminata al proprio socio: la sanzione interdittrice dai pubblici uffici. E, dunque, se il Senato deve giocoforza rassegnarsi a fare a meno di questo brav’uomo, perché mai ostinarsi a negarne la decadenza, se non a scopo… simbolico e comunicativo? Un avvertimento? Non osiamo immaginare l’agitazione neuronale (e psicomotoria) dei parlamentari nell’intento di escogitare qualche ingegnoso espediente da esibire al globo terracqueo, qualora avessero dovuto autorizzarne l’arresto, in esecuzione di una eventuale più grave sentenza impeditiva dell’affidamento in prova al Servizio Sociale, se l’art. 68 della Costituzione non escludesse la necessità di siffatta autorizzazione in caso di “esecuzione di una sentenza irrevocabile di condanna”.

Eppure, questo Parlamento/culla non è più quello della solenne certificazione istituzionale in merito alla nipote di Mubarak, che il Procuratore Generale della Cassazione censurava con queste parole: “L'episodio nel quale Silvio Berlusconi racconta che Ruby è la nipote di Mubarak è degno di un film di Mel Brooks e tutto il mondo ci ha riso dietro”. Questo Parlamento non è più quello, ma… Purtroppo, in guisa di cloni o di presenze destinali, a volte ritornano, direbbe Stephen King. E il ridicolo continua a superare finanche il dramma. Quousque tandem…?

Mentre l’intelligencija, con rare e lodevoli eccezioni, tace e latita, ovvero si trastulla con diversivi di ogni genere e specie – l’effetto placebo è assicurato: vedi la diatriba intorno al sistema elettorale -, tornano in mente, a sessant’anni dalla sua scomparsa, le vibranti parole di verità rivolte ai giovani da un grande umanista e antifascista, Concetto Marchesi, nel maggio del 1944, in occasione dell’assassinio di Giovanni Gentile: “Gli intellettuali italiani sono in massima parte uomini saldati ad una stagnante tradizione di massime e di concepimenti fondati su una morale conservatrice padronale e servile, questa gente fa della patria, dell'ordine, della giustizia, della religione, i pilastri consacrati del privilegio”. La “smisurata vergogna” fascista è stata sconfitta. Epperò, una “mai svigorita libidine di servitù” è ancora viva e lotta insieme a noi ed erode crescenti margini di senso alla epocale lotta di Civiltà contro la smisurata vergogna. Sulle macerie del “lungo martirio degli oppressi” e della “totale rovina”, memori del “tradimento e della codardia della vecchia classe dirigente”, bisognava assolvere il compito imperativo di “rifare la storia dell’Italia”. Ricostruire il mondo materiale, indubbiamente, ma edificare altresì un sistema di giustizia, in quanto che, sconfitto Mussolini, restava il mussolinismo del popolo italiano, Gobetti e Gramsci avevano ammonito. Bisognava…

Poco meno due secoli fa, tremende le parole di Hegel, e quasi profetiche: “Ma pure quando consideriamo la storia come un simile mattatoio, in cui sono state condotte al sacrificio la fortuna dei popoli, la sapienza degli stati e la virtù degli individui, il pensiero giunge di necessità anche a chiedersi in vantaggio di chi, e di quale finalità ultima, siano stati compiuti così enormi sacrifici”.

In vantaggio di chi, e di quale finalità ultima, per l’appunto. Dei Minzolini di turno, previa disintegrazione parlamentare/costituzionale – dentro e contro - degli equilibri costituzionali e di basilari principi della Civiltà giuridica e dell’etica della Civiltà?

Post-verità? Post-democrazia? Morte dell’esperienza? Venghino, signori, venghino. Elucubrazioni cervellotiche per formule vane, sostanzialmente false e pericolosamente fuorvianti.

Lo spirito del tempo, invero, è il caos, entropia in crescendo, antipode finanche dei paradigmi storico-culturali più nobili dell’anarchia. “La nostra democrazia si autodistruggerà – scriveva Isocrate già nel IV secolo a.C., nel crepuscolo della democrazia greca - perché ha abusato nel diritto alla libertà e uguaglianza, perché ha insegnato alla gente a considerare l'insolenza come diritto, l'illegalità come la libertà, l'impudenza di parola come uguaglianza e l'anarchia come beatitudine”. Somiglianze? Impressionanti. “Finché l’uomo sarà siffatto…” (Tucidide).

E dunque: che fare? Chiedeva un grande rivoluzionario alle prime luci del secolo scorso. Il cammino della Storia ha sperimentato forme e tecniche più o meno efficaci di controllo del caos. A partire dalle istruttive opzioni e dinamiche del mondo antico. In prospettiva, potremmo, ad esempio, provare a rileggere i tragici greci con uno spirito assai più maturo e consapevole, in virtù del guadagno della straordinaria ricchezza di venticinque secoli di storia, trarne rifondanti energie e nuova linfa vitale. Una rinnovata spinta propulsiva. In alternativa, Svetonio e Frontone, Quintiliano e Plinio il Giovane, meditando sull’intera costellazione degli antichi spettacoli, circenses e non, in particolare quelli gladiatorii (sic). Sui quali ultimi, si sa, grava la ferma (e giusta) condanna sia della spiritualità cristiana, sia dell’etica laica, ma che, tuttavia, garantirono per molti secoli, dalla fine della Res Publica al Principatus e al Dominatus, elevati standard di controllo del caos. Contribuirono, infatti, a disinnescare e incanalare ragioni malsane e passioni tristi ante litteram, cieca violenza e pulsioni (freudianamente) perverse e distruttive, anche a beneficio, comunque non esclusivo, del sistema storico dei poteri. Così, per concludere in divertissement.

In realtà, la sola auspicata possibilità di controllo del caos, tre quarti di secolo dopo l’antifascismo e la Resistenza, risiede in un rinnovato e vigoroso impegno collettivo – anche e soprattutto da parte di vaste frazioni di popolo astensionista – almeno di arginare quel fenomeno devastante, proprio del “tramonto”, che uno storico tedesco, Otto Seek, alla fine del XIX secolo, nel primo volume della sua monumentale “Storia della decadenza del mondo antico”, definisce l’“Ausrottung der Besten”, l’eliminazione dei migliori. Un vero e proprio darwinismo invertito a vantaggio (di certo non indispensabile) dei peggiori. Posta finalmente al bando la corruzione morale e legale, finalmente, si aprirebbe una via per restituire pieno diritto di cittadinanza, non già alle élite dominanti e “imbarbarite” dalle “Völkerwanderungen” o “migrazioni di popoli” – le cosiddette “invasioni barbariche” – ovvero le “caste” non troppo velatamente rimpiante da quello storico, ma bensì alla libertà delle menti e alle coscienze di tutti gli uomini di buona volontà, il sale della terra. I quali, non soltanto camminano, ma costruiscono il cammino stesso della Storia (Hegel), poiché “lavorano e lottano e migliorano sé stessi” (A. Gramsci).

Spes ultima dea.

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