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Se la politica estera di Donald Trump emerge lentamente dalle nebbie dell’ambiguità e dell’imprevedibilità, il rapporto che si instaurerà tra gli Usa del nuovo presidente e Cuba pare già abbastanza chiaro.
Durante la campagna elettorale, Trump aveva promesso di rivedere la politica di disgelo con L’Avana iniziata da Barack Obama, di tagliare i legami economici stabiliti negli ultimi anni e di chiudere nuovamente l’ambasciata americana, riaperta lo scorso luglio dopo 54 anni di rottura delle relazioni diplomatiche. Una posizione che riflette i desiderata del milione e mezzo di esuli cubani negli Stati Uniti, che lo hanno appoggiato in massa durante le elezioni presidenziali e che premono per un ritorno alla linea dura verso il regime castrista, considerata l’unica forma per ottenere cambiamenti tangibili in un sistema che si mantiene al potere con il pugno di ferro da 58 anni. I rapporti con Cuba sono rimasti in secondo piano durante la campagna elettorale (scavalcati da Messico, Cina, Russia e naturalmente dall’email-gate di Hillary Clinton), ma la morte di Fidel Castro ha rimesso al centro la questione e ha dato modo a Trump di esprimersi direttamente sulla situazione nell’isola caraibica attraverso il suo mezzo preferito: Twitter. A novembre, il futuro inquilino della Casa Bianca, ormai famoso per i suoi 140 caratteri tanto diretti quanto ruvidi, ha plaudito alla morte di Fidel, bollandolo come “dittatore brutale”, accusandolo di aver provocato “tragedie, morti e dolore” a Cuba e affermando di sperare che la sua scomparsa segni la fine degli “orrori” commessi dal regime negli ultimi decenni. Amministrazione ambigua Se la retorica trumpiana si mostra durissima verso Cuba, le azioni dell’amministrazione repubblicana si annunciano però molto meno univoche. Un’ambiguità che si riflette nelle nomine già realizzate dal presidente. Per fare solo due esempi, se da un lato Mauricio Claver-Carone, noto critico della politica di Obama a Cuba, è stato importante membro della squadra di transizione, dall’altro Trump ha scelto come vice-consigliere per la sicurezza nazionale la veterana Kathleen Troia McFarland, che in passato ha difeso la normalizzazione dei rapporti diplomatici con l’isola. Da parte sua, Reince Priebus, capo di gabinetto del presidente, ha già messo in chiaro che le condizioni per il mantenimento del processo di avvicinamento sono, tra le altre cose, l’apertura economica, la liberazione di prigionieri politici, la fine della repressione e la libertà di espressione. Richieste tutt’altro che accettabili per un regime che orgogliosamente predica devozione al socialismo reale e al marxismo scientifico, e che, come ha già dichiarato Raúl Castro durante la visita ufficiale di Obama lo scorso marzo, “non ha prigionieri politici nelle carceri”. Il futuro delle relazioni con l’isola A questo punto, è possibile considerare due possibili scenari nei futuri rapporti tra Washington e L’Avana. Se la nuova amministrazione statunitense dovesse scegliere la linea dura, gli esponenti più ortodossi del regime e più ostili a qualsiasi normalizzazione delle relazioni potrebbero guadagnare potere, sentendosi legittimati ad accusare los gringos di tradimento degli accordi stipulati e chiamando a raccolta i cubani ad una nuova unione rivoluzionaria contro l’imperialismo yankee. Propaganda a parte, ciò si tradurrebbe in concreto in una nuova chiusura dell’isola, un aumento della repressione verso la dissidenza e una messa all’angolo delle forze riformiste. È lo scenario “Cuba nuova Corea del Nord tropicale”. Dall’altro lato, se Trump dovesse optare per una linea più pragmatica, l’intensificarsi delle relazioni commerciali e un’eventuale uscita di scena di Raúl Castro (ormai ottantacinquenne) potrebbero portare all’emersione di una classe dirigente più disposta all’apertura. Ciò, ovviamente, non eliminerebbe il rischio di eventuali colpi di coda da parte di irriducibili del castrismo più intransigente, soprattutto tra i membri delle forze armate, né assicurerebbe un cambiamento politico reale. Basti pensare che il figlio di Raúl, Alejandro, già si muove da delfino e fa affari con gruppi di investitori americani in prospettiva di un’apertura economica ma del mantenimento del controllo politico. L’élite castrista non è affatto disposta a perdere la posizione di privilegio economico di cui gode, ed è quindi molto probabile che tenti di trasformare Cuba in un regime su modello cinese o vietnamita, con spazi per l’economia di mercato accompagnati da un rigido controllo politico. È lo scenario “Cuba nuovo Vietnam tropicale”. D’altronde, nessun regime comunista ha mai avuto la capacità di autoriformarsi politicamente e arrivare alla democrazia in maniera graduale. Le dittature marxiste o implodono come il blocco comunista dell’Europa dell’Est, o rimangono prigioniere dei loro stessi governanti, seguendo una linea più o meno contraddittoria rispetto all’ortodossia socialista, come appunto Cina o Vietnam. Un disgelo obbligato Tuttavia, per Cuba portare avanti il processo di disgelo è una necessità. Non ci sono più le condizioni economiche per la sopravvivenza dell’isola, vista la carenza di aiuti dai Paesi amici. L’assistenza sovietica non arriva più dal 1991. Il Venezuela è ormai al collasso e non riesce più a fornire petrolio a prezzo di favore. E il Brasile, che aveva finanziato il mega-porto di Mariel e “importato” medici cubani a peso d’oro (pagandone lo stipendio direttamente al governo cubano), ha cambiato nettamente orientamento politico dopo 13 anni di governi del partito di Lula. L’apertura è quindi un percorso obbligato per mancanza di alternative. Infine, non bisogna dimenticare che le redini della politica estera statunitense sono comunque tenute dal Senato americano, a maggioranza repubblicana. Il quale, non a caso, non ha mai avallato la politica di avvicinamento di Obama, né approvato l’invio di un rappresentante diplomatico statunitense a Cuba, portando alla situazione alquanto paradossale di aprire un’ambasciata senza avere un ambasciatore. In sostanza, i futuri rapporti tra gli Washington e L’Avana saranno sì influenzati dalle scelte della futura amministrazione Trump, ma non potranno evitare di fare i conti con la realtà di un’isola economicamente allo stremo da un lato, e con un’eventuale ostilità dell’establishment statunitense a qualsiasi concessione al regime castrista dall’altro. Carlo Cauti è un giornalista italiano di base a São Paulo del Brasile. |
3 febbraio 2017
Trump e Cuba, tra durezza e pragmatismo
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